Nella jungla (seconda parte)

Nulla vide o almeno nulla gli parve di vedere. Eppure era sicuro di aver urtato contro qualche cosa, che non doveva essere una foglia di bambù.
Stette alcuni minuti immobile come una statua.
– Un pitone! – esclamo ad un tratto, senza però sgomentarsi.
Un fruscìo repentino erasi udito in mezzo ai bambù, poi un corpo oscuro, lungo, flessuoso, discese ondeggiando per una di quelle piante. Era un mostruoso serpente pitone, lungo più di venticinque piedi, il quale allungavasi verso il “cacciatore di serpenti” sperando di allacciarlo fra le sue viscose spire e stritolarlo con una di quelle terribili strette alle quali nulla resiste. Aveva la bocca aperta colla mascella inferiore divisa in due branche come i ferri d’una tenaglia, la forcuta lingua tesa e gli occhi accesi, che brillavano sinistramente fra la profonda oscurità.
Tremal-Naik s’era lasciato cadere per terra per non venire afferrato dal mostruoso rettile e ridotto in un ammasso d’ossa infrante e di carni sanguinolenti.
– Se mi muovo sono perduto, – mormorò egli con straordinario sangue freddo. – Se l’indiano che mi precede non s’accorge di nulla, sono salvo.
Il rettile era disceso tanto, che colla testa toccava la terra. Egli si allungò verso il “cacciatore di serpenti” che conservava la rigidezza d’un cadavere, ondeggiò per qualche tratto su di lui lambendolo colla fredda lingua, poi cercò di farglisi sotto per avvolgerlo. Tre volte tornò alla carica sibilando di rabbia e tre volte si ritirò contorcendosi in mille guise, salendo e ridiscendendo il bambù attorno il quale erasi avvinghiato. Tremal-Naik fremente, inorridito, continuava a rimanere immobile facendo sforzi sovrumani per padroneggiarsi, ma appena vide il rettile alzarsi arrotolandosi in parte su se stesso, affrettossi a strisciare cinque o sei metri lontano. Credendosi ormai fuori di pericolo, s’era voltato per rialzarsi, quando udì una voce minacciosa a gridare:
– Cosa fai qui?
Tremal-Naik s’era prontamente alzato col coltello in pugno. A sette od otto metri di distanza, assai vicino al posto occupato dal rettile, era improvvisamente sorto un indiano di alta statura, estremamente magro, armato d’un pugnale e di una specie di laccio che finiva in una palla di piombo.
Sul petto portava tatuato il misterioso serpente colla testa di donna, contornato da alcune lettere del sanscrito.
– Cosa fai qui? – ripeté quell’indiano con tono minaccioso.
– E tu cosa fai? – ribatté Tremal-Naik, con calma glaciale. – Sei forse uno di quei miserabili che si divertono ad assassinare le persone che qui sbarcano?
– Sì, e sappi che ora farò altrettanto con te.
Tremal-Naik si mise a ridere, guardando il rettile il quale cominciava a svolgere gli anelli, ondeggiando quasi sulla testa dell’indiano.
– Tu credi di uccidermi, – disse il cacciatore, e la morte invece ti sfiora.
– Ma prima morrai tu! – gridò l’indiano, facendo fischiare attorno al capo la corda di seta.
Un sibilo lamentevole emesso dal rettile, lo arrestò nel momento che lanciava la palla di piombo.
– Oh! esclamò, manifestando un profondo terrore.
Aveva alzata la testa e s’era trovato dinanzi al rettile. Volle fuggire e fece un salto indietro, ma incespicò in un bambù mozzato e capitombolò fra le erbe.
– Aiuto! aiuto!… urlò egli disperatamente.
L’enorme rettile s’era lasciato cadere a terra ed in un baleno aveva afferrato l’indiano fra le sue spire, stringendolo in modo tale da togliergli il respiro e da fargli crocchiar tutte le ossa del corpo.
– Aiuto!… aiuto!… – ripeté lo sventurato, sbarrando spaventosamente gli occhi. Tremal-Naik con un moto spontaneo s’era slanciato verso il gruppo. Con un terribile colpo di coltello tagliò in due il pitone, il quale sibilava rabbiosamente, coprendo di bava sanguigna la vittima. Stava per ricominciare, quando udì i bambù agitarsi furiosamente in parecchi luoghi.
– Eccolo! – tuonò una voce.
Erano altri indiani che correvano sul luogo, compagni dell’infelice che il rettile, quantunque spezzato in due, stritolava, facendogli schizzare il sangue dalle carni. Comprese il pericolo che correva, e senza aspettar altro si diede a precipitosa fuga attraverso la jungla.
– Eccolo! eccolo! – ripeté la medesima voce. Fuoco su di lui! fuoco!
Un colpo d’archibugio rintronò destando tutti gli echi della jungla, poi un secondo ed infine un terzo. Tremal-Naik, sfuggito miracolosamente ai proiettili, s’era rivoltato ruggendo come le belve che egli cacciava nella jungla.
– Ah! miserabili! – urlò egli furente.
S’era strappato di dosso la carabina e l’aveva puntata contro gli assalitori che venivano innanzi coi pugnali fra i denti e i lacci in mano, pronti a strangolarlo.
Dalla canna usci una striscia di fuoco seguita da una detonazione. Un indiano cacciò un urlo terribile, portò le mani al volto e rotolò fra le erbe.
Tremal-Naik ripigliò la sfrenata corsa saltando a destra e a sinistra onde impedire ai nemici di prenderlo di mira.
Attraversò un gruppo di bambù che abbatté furiosamente e si cacciò in mezzo alla fitta jungla, facendo perdere le traccie agli inseguitori.
Corse così per un quarto d’ora; si arrestò un momento a prendere fiato sull’orlo della piantagione, poi si slanciò come un pazzo in mezzo a terreni paludosi e scoperti, solcati da innumerevoli canaletti d’acque stagnanti. Aveva gli occhi iniettati di sangue e la spuma alle labbra, ma correva sempre come avesse le ali ai piedi, saltando via gli ostacoli che gli sbarravano la via, tuffandosi nei pantani, immergendosi negli stagni o nei canali, non avendo che un solo pensiero: frapporre fra sé e gli assalitori il maggior spazio possibile.
Quanto corse, non lo poté sapere. Quando si arrestò, egli si trovava a un duecento passi da una superba pagoda, che ergevasi isolata sulla riva di un ampio stagno contornato da colossali ruine.

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