Uccidere per essere felice (prima parte)

Era venuta la sera.
Il capitano Macpherson durante la giornata non si era fatto vedere e nessun Incidente era accaduto nel “bengalow”.
Saranguy, dopo di aver errato a capriccio qua e là, nei dintorni delle tettoie e delle palizzate, porgendo attento orecchio ai discorsi dei sipai s era sdraiato dietro ad un folto cespuglio, a cinquanta passi dalla abitazione, come uno che cerca di addormentarsi.
Di quando in quando però alzava prudentemente la testa, ed il suo sguardo percorreva rapidamente la circostante campagna. Si sarebbe detto che egli cercava qualche cosa, o che aspettava qualcuno.
Passò una lunga ora. La luna s’alzò sull’orizzonte, illuminando vagamente le foreste e il corso della grande fiumana la quale mormorava gaiamente, frangendosi contro le rive.
Un urlo acuto, l’urlo dello sciacallo, si fece udire in lontananza.
Saranguy s’alzò bruscamente, guardandosi d’attorno con diffidenza.
– Finalmente, – mormorò egli, rabbrividendo. Saprò la mia condanna.
A duecento passi, fra una macchia, comparvero due punti luminosi, con riflessi verdastri, Saranguy accostò due dita alle labbra e mandò un leggiero fischio.
Tosto i due punti luminosi si slanciarono innanzi. Erano gli occhi di una grande tigre, la quale fece udire quel sordo miagolìo che è famigliare a simili belve.
– Darma! – chiamò l’indiano.
La tigre s’abbassò, schiacciandosi contro il terreno, e si mise a strisciare silenziosamente. S’arrestò proprio dinanzi a lui emettendo un secondo miagolìo.
– Sei ferita?- gli chiese l’indiano, con voce commossa.
La tigre per tutta risposta aprì la bocca e lambì le mani ed il volto dell’indiano..
– Hai sfidato un gran pericolo, povera Darma, ripigliò l’indiano con tono affettuoso. – Sarà l’ultima prova.
Passò una mano sotto il collo della belva e vi trovò una piccola carta rossa, arrotolata e sospesa ad un sottile filo di seta.
L’aprì con mano tremante, gettandovi sopra gli occhi. V’erano dei segni bizzarri d’una tinta azzurra e una riga di sanscrito. “Vieni, che il messaggero è giunto” lesse egli.
Un nuovo brivido agitò le sue membra e alcune goccie di sudore imperlarono la sua fronte.
– Vieni, Darma, – diss’egli.
Guardò alla sfuggita il “bengalow”, percorse tre o quattrocento passi strisciando, seguito dalla tigre, poi s’internò nel bosco di borassi.
Camminò per venti minuti rapidamente, seguendo un sentieruzzo appena appena visibile, poi s’arrestò, chiamando con un gesto la tigre.
A venti passi da lui, s’era improvvisamente alzato da terra un individuo, il quale spianò risolutamente un fucile, gridando:
– Chi vive?
– Kâlì, – rispose Saranguy.
– Avanzati.
Saranguy si avvicinò a quell’indiano il quale lo esaminò attentamente.
– Sei forse colui che aspettiamo? – gli chiese.
– Sì.
– Sai chi ti aspetta?
– Kougli.
– Sei proprio quello: seguimi.
L’indiano gettò la carabina ad armacollo e si mise in marcia con passo silenzioso.
Saranguy e Darma lo seguirono.
– Hai veduto il capitano Macpherson? – chiese qualche istante dopo – Sì.
– Cosa fa?
– Non saprei dirlo.
– Sai nulla di Negapatnan?
– Sì, so che è prigioniero del capitano.
– E’ vero ciò che dici?
– Verissimo.
– E sai dov’è nascosto?
– Nei sotterranei del “bengalow”.
– Si vede che sono prudenti quegli europei.
– Sembra.
– Ma tu lo libererai.
– Io! – esclamò Saranguy.
– Lo credo.
– Chi te lo disse?
– Non so nulla; taci e cammina.
L’indiano ammutolì e affrettò il passo, cacciandosi in mezzo ai macchioni di bambù ed a cespugli irti di spine. Ogni qual tratto s’arrestava ed esaminava il tronco dei palmizi tara che trovava sul suo passaggio.
– Cosa guardi? – chiese Saranguy, sorpreso.
– I segni che indicano la via.
– Ha cambiato dimora Kougli?
– Sì, perché gl’inglesi si sono mostrati presso la sua capanna.
– Di già?
– Il capitano Macpherson ha dei buoni bracchi al suo servizio. Sta’ allerta, Saranguy; potrebbero giuocarti qualche brutto tiro, quando meno te lo aspetti.
Si fermo, accostò le mani alle labbra ed emise un urlo simile a quello dello sciacallo.
Un secondo urlo vi rispose.
– La via è libera, – disse l’indiano. – Segui questo sentiero e giungerai alla soglia della capanna. Io rimango qui a vegliare.
Saranguy ubbidì. Percorrendo il sentiero s’avvide che dietro ad ogni albero stava appiattato un indiano con una carabina in mano e il laccio stretto attorno al corpo.
– Siamo ben guardati, – mormorò egli. – Potremo discorrere senza temere di venire sorpresi dagli inglesi.
Ben presto si trovò dinanzi ad una grande capanna, costruita con solidissimi tronchi d’albero, nei quali erano aperte molte feritoie per lasciar passare le carabine. Il tetto era coperto da foglie di latania e sulla cima v’era una rozza statua della dea Kâlì – Chi vive? – chiese un indiano, che era seduto sulla soglia della porta armato di carabina, di pugnale e laccio.
-Kâlì – rispose per la seconda volta Saranguy.
L’indiano entrò in una stanzuccia illuminata da un ramo d’albero resinoso, il quale spandeva all’intorno una luce fumosa.

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