Una notte terribile (prima parte)

Tremal-Naik, al ruggito di guerra del felino, si era subitamente svegliato, facendo un brusco movimento, come se cercasse il suo fedele coltellaccio. Il moribondo s’era rianimato come il soldato che ode lo squillo di tromba che dà il segnale della mischia.
– Kammamuri? – articolò con uno sforzo supremo.
– Non muoverti, padrone! – disse il maharatto, che fissava negli occhi la belva, sempre raccolta su se stessa.
– La ti…gre! la ti…gre! – ripeté il ferito.
– Ci penso io. Torna ad adagiarti e non prenderti pensiero per la mia vita.
Il maharatto aveva impugnata una pistola e aveva diretto la canna sulla tigre, ma non ardiva tirare, temendo in primo luogo di non ucciderla sul colpo e collo sparo di attirare l’attenzione dei nemici.
La tigre, lo si vedeva, esitava ad assalire, tenuta in rispetto dalla canna lucente della pistola, conoscendone indubbiamente i mortali effetti. Si batté tre o quattro volte i fianchi colla coda, come i gatti allorché sono in collera, emise un secondo miagolio più forte del primo poi cominciò ad indietreggiare sollevando la terra coi suoi potenti artigli senza staccare gli occhi dal maharatto che sosteneva imperterrito quello sguardo.
– Kamma…muri… la ti…gre! – tornò a balbettare Tremal-Naik, sforzandosi di sollevarsi sulle braccia.
– Se ne va, padrone. Non ardisce attaccare il “cacciatore di serpenti” ed il suo maharatto. Sta’ cheto e tutto andrà bene.
Ad un tratto la tigre scattò in piedi, drizzò gli orecchi come cercasse di raccogliere qualche rumore, emise un terzo ma più basso miagolio fece un rapido voltafaccia e scomparve nella jungla, lasciandosi dietro il ben noto odore di selvatico. Kammamuri s’era pure alzato, in preda ad una forte inquietudine.
– Chi può avere spaventata la tigre? – si domandò con ansietà. – Qualcuno sicuramente si avvicina.
Si slanciò verso gli alberi ed esaminò la jungla che era distante un centinaio di passi, ma non vide alcuno.
S’affrettò a ritornare vicino a Tremal-Naik, che era ricaduto sul letto di foglie.
– La ti…gre? – chiese il ferito con voce fioca.
– E’ scomparsa, padrone, – rispose il maharatto, dissimulando la sua inquietudine.
Ha avuto paura della mia pistola. Dormi e non pensare ad altro.
Il ferito mandò un sordo gemito.
– Ada! balbettò.
– Cosa vuoi, padrone?
– Ah! come… era bella… bel…la!
– Cosa vuoi dire? Chi era bella?
– Ma…ledetti… l’han…no rapita… ma… – digrignò i denti con rabbia e cacciò le unghie in terra.
– Ada!… Ad…a! – ripeté.
– Delira, – pensò il maharatto.
– Sì, l’hanno ra…pita, – continuò il ferito. – Ma… la ritro…
verò oh! sì, la ritroverò!
– Non parlare, padrone, che corriamo un grave pericolo.
– Pericolo? – balbettò Tremal-Naik, senza comprenderlo. – Chi parla di pe…ricolo? Tornerò qui… sì, tornerò, maledetti… con la mia Darma… e vi fa…rò divorare tut…ti!
Agitò le braccia con impeto furioso, roteò gli occhi, li chiuse e rimase immobile come fosse morto.
– Dorme, – disse Kammamuri. – Tanto meglio: almeno il suo gridare non tradirà la nostra presenza. Ed ora, stiamo in guardia, che la tigre forse ci spia.
Si sedette incrociando le gambe alla maniera dei turchi, si mise la carabina sulle ginocchia, si cacciò in bocca una pallottola di “betel” per combattere il sonno che lo assaliva e attese pazientemente l’alba, cogli occhi bene aperti e gli orecchi ben tesi. Passarono una, due, tre ore, senza che nulla accadesse. Nessun miagolio di tigre, nessun sibilo di serpente, nessun urlo di sciacallo rompeva il silenzio che regnava nella misteriosa jungla. Solo di quando in quando un soffio d’aria carico di pestifere esalazioni, passava sulle canne e le curvava con dolce mormorio. Le tre dovevano essere trascorse, quando una specie di fischio, potente, bizzarro, ruppe il silenzio. Era una specie di “niff! niff!” assai acuto.
Il maharatto sorpreso e un po’ atterrito, s’alzò e tese gli orecchi rattenendo il respiro. Quel misterioso “niff! niff!” si ripeté e molto vicino.
– Questa non è la tigre! – mormorò Kammamuri. Quale pericolo ancora ci minaccia?
Armò la carabina, strisciò senza far rumore verso gli alberi e guardò.
A trenta passi da lui si muoveva un grosso animale lungo non meno di dodici piedi, di forme pesanti, massiccie. Aveva la pelle irta di protuberanze, la testa grossa e un po’ triangolare, gli orecchi grandi e sulla massa ossea delle nari un corno aguzzo e molto lungo.
Kammamuri riconobbe subito con che razza di nemico aveva a che fare, e si sentì il cuore rimpicciolire per lo spavento.
– Un rinoceronte! – esclamò con un filo di voce. Siamo perduti!…
Non alzò nemmeno la carabina, ben sapendo che la palla si sarebbe schiacciata contro quella pelle grossissima che è più resistente d’una corazza d’acciaio. Poteva bensì colpire il mostro in un occhio, il solo punto vulnerabile, ma la paura di mancare al colpo e di venire sventrato dal terribile corno o schiacciato sotto le mostruose zampe, gli suggerì l’idea di starsene cheto sperando di non venire scoperto.
Il rinoceronte pareva in preda ad una viva irritazione, ciò che succede sovente a questo animale intrattabile, rozzo, brutale e povero d’intelligenza. Si slanciava, come fosse diventato d’un tratto pazzo, con una agilità veramente sorprendente per un essere della sua struttura e si divertiva a spezzare, a frantumare, a disperdere i bambù, facendo delle ampie breccie nella jungla.
Di quando in quando s’arrestava respirando fragorosamente, si avvoltolava per terra come un cignale, agitando pazzamente le tozze gambe e sprofondando fra le erbe il suo corno, per poi risollevarsi e ricominciare daccapo i suoi assalti contro i bambù.
Kammamuri non respirava nemmeno per non attirare l’attenzione del bruto; sudava come riposasse sul coperchio di una caldaia in ebollizione, e stringeva con mano convulsa la carabina, divenuta inutile quanto un bastone di ferro. Egli aveva paura che l’animale se la prendesse cogli alberi e s’avvicinasse allo stagno, scoprendo così Tremal-Naik.
Stette lì qualche tempo, poi riguadagnò il giaciglio del padrone. Sua prima cura fu quella di strappare quanta erba poté e nascondere totalmente il ferito, poi se la svignò accanto ad un “banian” abbastanza grosso, portando seco le armi.
– Non posso fare di più, – disse. – Ad ogni modo, accoglierò il bruto con una scarica generale delle mie armi.
Il rinoceronte continuava a saltellare presso la jungla. Si udiva il terreno tremare sotto il suo peso, i bambù a spezzarsi crepitando e la sua formidabile respirazione paragonabile al suono d’una rauca tromba.
D’improvviso Kammamuri udì il miagolìo della tigre. Si slanciò rapidamente verso lo stagno, guardandosi d’intorno con spavento.
Sull’albero che aveva allora allora abbandonato, scorse la tigre aggrappata ad uno dei rami; i suoi occhi scintillavano come quelli di un gatto e i suoi artigli strappavano la corteccia della pianta.
Puntò rapidamente il fucile verso la fiera, la quale, sgomentata, si slanciò giù per guadagnare la jungla, ma si trovò dinanzi al rinoceronte.
I due formidabili animali si guardarono reciprocamente per qualche istante. La tigre, che forse sapeva di nulla avere da guadagnare in una lotta col brutale colosso, cercò di fuggire, ma non ne ebbe il tempo.
Il rinoceronte aveva fatto udire il suo grido. Abbassò la testaccia mostrando l’aguzzo suo corno e si slanciò furiosamente sulla belva, dimenando rabbiosamente la corta sua coda.
L’urto fu terribile. La tigre aveva fatto un salto immenso, cadendo sulla groppa del colosso, il quale, fatti trenta o quaranta passi, si gettò a terra costringendola a lasciarlo.
– Bravo rinoceronte! – mormorò Kammamuri.
I due nemici s’erano entrambi risollevati, con rapidità fulminea, precipitandosi l’un sull’altro. Il secondo assalto non fu fortunato per la tigre. Il corno del rinoceronte le fracassò il petto lanciandola di poi in aria per più di quaranta metri. Ricadde, cercò di risollevarsi mugolando di dolore e di rabbia e tornò a volare ancor più in alto perdendo torrenti di sangue.
Il rinoceronte non attese nemmeno che ricadesse. Con un terzo colpo della sua terribile arma la sventrò, poi rivoltandola contro terra la schiacciò coi suoi larghi piedi riducendola in un ammasso di carni sanguinolente e di ossa infrante.
Tutto ciò era successo in pochi secondi. Il colosso, soddisfatto, emise due o tre volte il suo sordo fischio, indi rientrò nella jungla a devastare i bambù, senza però allontanarsi dallo stagno.
La sua ritirata giungeva in buon punto, poiché Tremal-Naik, in preda al delirio e ad una violentissima febbre, s’era risvegliato chiamando Kammamuri.
Ciò rendeva la situazione dei due indiani estremamente pericolosa, poiché l’intrattabile animale poteva udire le loro voci e comparire improvvisamente fra gli alberi. Il maharatto sapeva bene che non vi era da illudersi sulle probabilità di salvare la vita, nemmeno colla fuga, poiché tutte le specie di rinoceronti superano nella corsa l’uomo più agile.

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