I pirati della Malesia (prima parte)

 Per il disgraziato tre-alberi era suonata l’ultima ora. Incastrato fra due rocce, che sporgevano appena appena le loro punte nere, dentellate in mille guise dall’eterno movimento delle acque, con le coste rotte e la chiglia frantumata, non era più che un rottame impossibile a ripararsi, che presto o tardi il mare avrebbe indubbiamente ridotto in frantumi e disperso.
 Lo spettacolo era grandioso e insieme spaventevole.
 All’intorno il mare spumeggiava furiosamente con mille boati, frangendosi e rifrangendosi sulle scogliere, trascinando seco frammenti di murate, di madieri, di corbetti e di imbarcazioni che si urtavano con mille scricchiolii.
 Sul tre-alberi i superstiti, quasi tutti pazzi di terrore, correvano da prua a poppa mandando mille urla, mille bestemmie, mille invocazioni. Uno s’arrampicava sulle griselle, un altro si spingeva fino alle coffe, un terzo più su, fino alle crocette. Un quarto invece saltellava come se fosse sui carboni ardenti chiamando Dio e la Madonna chi s’affannava a passarsi attraverso al corpo un salva-gente, e chi a preparare un galleggiante per montarvici su, appena la nave si fosse sfasciata.
 Il capitano Mac Clintock e mastro Bill, che ne avevano viste di peggio, erano i soli che conservassero un po’ di calma.
 Visto che il tre-alberi rimaneva immobile, come se fosse stato inchiodato sulle scogliere, si affrettarono a scendere nella stiva.
 Videro subito che non v’era più speranza di rimetterlo a galla, poiché era già zeppo d’acqua.
 – Orsù – disse mastro Bill con voce commossa, – la poveretta ha esalato l’ultimo respiro!
 – Hai ragione, Bill – rispose il capitano ancor più commosso. Questa è la tomba della valorosaYoung-India .
 – E che cosa faremo?
 – Bisogna aspettare l’alba.
 – Resisterà ai colpi di mare?
 – Lo spero. Le scogliere sono penetrate nel ventre come un cuneo nel tronco di un albero. Mi sembra irremovibile.
 – Andiamo a incoraggiare quelli che sono sul ponte. Sono mezzi morti di paura.
 I due lupi di mare risalirono sul ponte. I marinai ed i passeggeri, coi visi sconvolti dal terrore, si precipitarono loro incontro interrogandoli con viva ansietà.
 – Siamo perduti? – chiedevano gli uni.
 – Andiamo a picco? – chiedevano gli altri.
 – C’è speranza di salvarsi?
 – Dove siamo?
 – Calma, ragazzi – disse il capitano. – Non corriamo per ora pericolo alcuno.
 L’indiano Kammamuri, che aveva mostrato di aver tanta fretta d’arrivare a Sarawak, si avvicinò al comandante.
 – Capitano – chiese con voce tranquilla, – andremo a Sarawak?
 Vedi bene che non è possibile, Kammamuri.
 – Ma io devo andarci.
 – Non so cosa dirti. Il vascello è immobile come uno scoglio.
 – Ho il padrone laggiù, capitano.
 – Aspetterà.
 Lo sguardo vivo e scintillante dell’indiano si fece cupo e la sua faccia, che aveva un non so che di feroce, divenne tetra.
 – Kalì li protegge – mormorò.
 – Tutto non è ancora perduto, Kammamuri – disse il capitano.
 – Non affonderemo dunque?
 – Ho detto di no. Orsù, calma, ragazzi. Domani sapremo su quale isola o scogliera abbiamo naufragato e vedremo che cosa si potrà fare. Io garantisco le vostre vite.
 Le parole del capitano fecero buon effetto sugli animi dei marinai, i quali cominciarono a sperare di potersi salvare. Coloro che lavoravano alle zattere abbandonarono il lavoro; quelli inerpicati sugli alberi dopo un po’ d’esitazione si lasciarono scivolare giù. La calma non tardò a regnare sul ponte del vascello naufragato.

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