I pirati della Malesia (seconda parte)

Del resto la burrasca, dopo d’aver raggiunta la massima intensità, cominciava a scemare. I nuvoloni, qua e là squarciati, lasciavano intravvedere di quando in quando il tremulo luccichìo degli astri. Il vento, dopo d’aver fischiato, urlato, ruggito, si calmava a poco a poco.
 Tuttavia il mare continuava a mantenersi assai agitato. Gigantesche ondate correvano in tutte le direzioni investendo con furia estrema le scogliere e sfasciandovisi sopra con spaventevole fracasso. Il vascello scosso, sbattuto a prua e a poppa, gemeva come un moribondo, lasciandosi portar via pezzi di murate e frammenti della chiglia infranta. Talvolta, anzi, oscillava da prua a poppa così fortemente, da temere che venisse strappato dal banco madreporico e travolto in mezzo ai marosi. Per fortuna stette saldo, ed i marinai, malgrado l’imminente pericolo e le ondate che si rovesciavano in coperta, poterono gustare anche qualche ora di sonno.
 Alle quattro del mattino, verso oriente, il cielo cominciò a schiarirsi. Il sole sorgeva con la rapidità che è propria delle regioni tropicali, annunciato da una tinta rossa magnifica. Il capitano, ritto sulla coffa dell’albero di maestra, con mastro Bill vicino, teneva gli occhi fissi al nord, dove sorgeva, a meno di due miglia, una massa oscura, che doveva essere una terra.
 – Ebbene, capitano – chiese il nostromo che masticava rabbiosamente un pezzo di tabacco, – la conoscete quella terra?
 – Credo di sì. Fa scuro ancora, ma le scogliere che la cingono da tutte le parti mi fanno sospettare che quell’isola sia Mompracem.
 -By God ! – mormorò l’americano facendo una smorfia. – Ci siamo rotte le gambe in un brutto luogo.
 – Lo temo purtroppo, Bill. L’isola non gode buon nome.
 – Dite che è un nido di pirati. È tornata la Tigre della Malesia, capitano.
 – Che? – esclamò Mac Clintock, mentre si sentiva correre per le ossa un brivido. – La Tigre della Malesia tornata a Mompracem?
 – Sì.
 – È impossibile, Bill! Sono parecchi anni che quel terribile individuo è scomparso.
 – Ma vi dico che è tornato. Quattro mesi or sono egli assalì l’Arghilahdi Calcutta, il quale non gli sfuggì che con gran fatica. Un marinaio che aveva conosciuto il sanguinario pirata mi narrò di averlo scorto a prua di unpraho .
 – Allora siamo perduti. Non tarderà ad assalirci.
 -By God ! – urlò il mastro, divenendo di colpo pallidissimo.
 – Che cos’hai?
 – Guardate capitano! Guardate laggiù!…
 – Deiprahos , deiprahos ! – gridò una voce dal ponte.
 Il capitano, non meno pallido del mastro, guardò verso l’isola e scorse quattro legni che doppiavano un capo, lontano appena tre miglia.
 Erano quattro grandiprahos malesi, bassi di scafo, leggerissimi, snelli, con vele di forme allungate sostenute da alberi triangolari.
 Questi legni, che filano con una sorprendente rapidità e che, grazie al bilanciere che hanno sottovento e al sostegno che portano sopravento, sfidano i più tremendi uragani, sono generalmente usati dai pirati malesi, i quali non temono di assalire con essi i più grossi vascelli che s’avventurano nei mari della Malesia.
 Il capitano non lo ignorava, sicché appena li ebbe scorti, s’affrettò a discendere sul ponte. In poche parole informò l’equipaggio del pericolo che li minacciava. Solo un’accanita resistenza poteva salvarli.

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