Il naufragio della Young-India (terza parte)

 Il tre-alberi, sbandato spaventosamente ora sul tribordo ed ora a babordo, aveva un gran da fare a tenere testa agli elementi scatenati. Gemeva come se si lagnasse di quei formidabili colpi di mare che lo coprivano da prua a poppa, atterrando l’equipaggio; s’alzava, traballava, sferzava le acque col suo bompresso, veniva ora respinto a nord e ora respinto a sud, malgrado gli sforzi disperati del timoniere.
 Vi erano momenti in cui i marinai non sapevano se galleggiassero ancora o se stessero colando a picco, tale era la massa d’acqua che balzava sopra le semi-infrante murate.
 Per colmo di sventura, a mezzanotte il vento che soffiava sempre più tremendo da nord, balzò improvvisamente all’ est.
 Non era più possibile lottare. Tirare innanzi col tifone che assaliva a prua era tentare la morte. Quantunque nessun approdo si presentasse sulla via dell’ovest, eccettuate le temute sponde di Mompracem, il capitano Mac Clintock dovette rassegnarsi a porsi alla cappa e fuggire con tutta la celerità che permettevano le poche vele ancor rimaste spiegate.
 Due ore erano scorse da che laYoung-India aveva virato di bordo, inseguita con accanimento senza pari dai marosi che pareva avessero giurato la sua perdita.
 I lampi erano diventati assai rari e l’oscurità tanto fitta da non permettere di vedere a duecento passi di distanza.
 Ad un tratto agli orecchi del capitano giunse quel fragore caratteristico delle onde quando s’infrangono contro le scogliere, fragore che il marinaio sa distinguere anche in mezzo alle più spaventevoli burrasche.
 – Guarda a prua! – tuonò egli, dominando con la voce il fracasso delle onde ed i fischi del vento.
 – Mare rotto! – gridò una voce.
 – I frangenti! Tuoni!…- urlò un’altra voce.
 Il capitano Mac Clintock si avventò a prua aggrappandosi allo straglio del trinchettino per issarsi sulle murate.
 Non si scorgeva nulla; tuttavia tra le raffiche si udiva distintamente il muggire della risacca. Non v’era da ingannarsi. A poche gomene dal tre-alberi s’ergeva una catena di frangenti, forse una diramazione di quelli di Mompracem.
 – Attenti a virare! – urlò egli.
 Mastro Bill, unendo tutte le forze, tirò vivamente a sé la ribolla.
 Quasi nel medesimo istante la nave toccò.
 L’urto però era stato appena sensibile. Solamente una parte della falsa chiglia era stata strappata dalle punte aguzze delle madrepore che formavano le cime dei frangenti. Disgraziatamente il vento soffiava sempre da poppa e le onde spingevano innanzi.
 L’equipaggio, che in quel terribile momento conservava uno straordinario sangue freddo, riuscì a virare di bordo. LaYoung-India poggiò al largo con una bordata di duecento metri, sfuggendo le scogliere attorno alle quali urlavano, come molossi affamati, le onde. Pareva che tutto dovesse andar bene. La sonda, filata in furia, aveva dato a prua quattordici braccia di profondità.
 La speranza di salvare la nave cominciava a nascere nell’animo dell’equipaggio, quando, d’improvviso, il fragore della risacca tornò a farsi udire dritto l’asta di prua.
Il mare si sollevava con maggior violenza di prima segnalando una nuova barriera di frangenti.
 – Poggia tutto, Bill! – tuonò il capitano Mac Clintock.
 – I frangenti sotto prua! – urlò un marinaio che era sceso fino alla dolfiniera del bompresso.
 La sua voce non giunse fino a poppa. Una montagna di acqua si rovesciò sul tribordo respingendo violentemente il tre-alberi a babordo, atterrando l’equipaggio aggrappato ai bracci delle vele e sfondando le imbarcazioni contro le gru.
 S’udì un muggito formidabile, uno schianto come di legni infranti, poi un cozzo spaventevole che fece oscillare gli alberi da poppa a prua.
 LaYoung-India era stata sventrata d’un colpo dalle punte aguzze dei frangenti, e sei marinai, strappati dalle onde, erano stati gettati contro le scogliere.

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