La liberazione di Kammamuri (prima parte)

 Mentre Yanez, lavorando con astuzia, preparava la salvezza di Tremal- Naik, il povero Kammamuri, in preda a mille terrori e a mille angosce, tentava vanamente di uscire dalla sua prigione. Non aveva paura di venire appiccato o fucilato come un volgare pirata; temeva di venire sottoposto a qualche spaventevole supplizio e di essere costretto a confessare ogni cosa, compromettendo contemporaneamente la vita del suo padrone, dell’infelice Ada, della Tigre della Malesia, di Yanez e di tutti gl’intrepidi di Mompracem.
 Appena rinchiuso, aveva tentato di saltare dalle finestre, ma le aveva trovate difese da solidissime sbarre di ferro, che era impossibile rompere senza una potente lima o una mazza; poi aveva cercato di sfondare il pavimento, sperando di cadere in una stanza disabitata, ma, dopo essersi rotte le unghie, era stato costretto a rinunciarvi. Da ultimo aveva tentato di strangolare l’indiano che gli aveva portato il cibo, ma, sul punto di riuscire, altri indiani erano accorsi a liberare il compagno.
 Persuaso dell’inutilità dei suoi sforzi, si era accoccolato in un angolo della stanza, risoluto a morire di fame piuttosto che assaggiare i cibi che potevano contenere qualche misterioso narcotico; deciso a lasciarsi strappare le carni a brano a brano piuttosto che pronunciare una sola parola.
 Erano trascorse dieci ore senza che egli si muovesse. Il sole era tramontato, dopo un brevissimo crepuscolo, e le tenebre avevano invaso la stanza: a un tratto, un sibilo lamentoso, seguito da un colpo leggero, ferì suoi orecchi. Si alzò senza far rumore, girando attorno uno sguardo indagatore, e ascoltò attentamente. Non udì più nulla all’infuori delle grida rauche deidayachi e dei malesi che passavano per la piazza.
 Si avvicinò silenziosamente alla finestra e guardò attraverso le sbarre di ferro. Là, presso una gigantescaarenga saccarifera che stendeva la sua ombra su buona parte della piazza, stava un uomo con un gran cappello in testa ed una specie di bastone in mano. Lo riconobbe a prima vista.
 – Padron Yanez – mormorò.
 Sporse un braccio e fece alcuni gesti. Il portoghese alzò le mani e rispose con altri gesti.
 – Ho compreso – disse Kammamuri. – Buon padrone!
 Lasciò la finestra e camminò fino alla parete che gli stava di fronte.
 La osservò attentamente, poi si chinò e raccolse una specie di freccia all’estremità della quale era appesa una pallottola di carta.
 – Qui dentro vi è la salvezza – mormorò. – A quanto pare, padron Yanez sa adoperare bene la cerbottana.
 Spiegò la carta e vi trovò due pillole nere, piccolissime, che mandavano un odore particolare.
 – Veleno o narcotico? – si chiese. – Ah! la carta è scritta.
 Si avvicinò alla finestra e lesse attentamente le seguenti righe:
 Tutto procede di bene in meglio. Tremal-Naik, se non sopraggiungono incidenti imprevisti, domani sera sarà libero. Le pillole che ti unisco, sciolte nell’acqua, addormentano istantaneamente. Cerca il mezzo di addormentare il guardiano e di fuggire. Domani a mezzogiorno ti attendo nei pressi del fortino. Yanez.
 – Buon Yanez – mormorò ilmaharatto commosso. – Pensa a tutto.
 S’appoggiò alle sbarre della finestra e si mise a meditare. Un leggero colpo dato alla porta lo tolse dai suoi pensieri.
 – Eccolo! – esclamò.
 Si avvicinò rapidamente, ma senza far rumore, ad un tavolo sul quale erano, oltre a una zuppiera di riso e a parecchie frutta, due grandi tazze dituwah , e vi gettò dentro le pillole che istantaneamente si sciolsero.
 – Chi è la? – chiese poi.
 – Guardia delrajah – rispose una voce.
 La porta si aprì e un indiano armato di una larga scimitarra e di una lunga pistola col calcio incrostato di madreperla entrò con precauzione. In una mano aveva una lanterna di talco, simile a quelle che usano i cinesi, e nell’altra un paniere pieno di provvigioni. – Non hai fame? – chiese la guardia, vedendo le tazze piene, le frutta intatte e la zuppiera ancora colma.

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