La Taverna Cinese (prima parte)

 – Olà! Bell’uomo!
 – Milord!
 – Al diavolo i milord.
 – Sir!…
 – All’inferno i sir.
 – Mastro!…
 – Che ti colga il crampo.
 – Monsieur?… Señor!…
 – Appiccati. Che pranzo è questo?
 – Cinese, señor, cinese come la trattoria.
 – E tu vuoi farmi mangiare alla cinese! Cosa sono queste bestioline che si muovono?
 – Gamberi del Sarawak ubriacati.
 – Vivi?
 – Pescati mezz’ora fa, milord.
 – E tu vuoi ch’io mangi i gamberi vivi? Corpo d’un cannone!
 – Cucina cinese, monsieur.
 – E questo arrosto?
 – Cane giovane, señor.
 – Che cosa? – Cane giovane.
 – Corpo d’una spingarda! E tu vuoi che io mangi del cane? E questo stufato?
 – È gatto, señor.
 – Tuoni e fulmini! Un gatto!
 – Un boccone da mandarino, sir.
 – E questa frittura?
 – Topi fritti nel burro.
 – Cane d’un cinese! Tu vuoi farmi crepare!
 – Cucina cinese, señor.
 – Cucina infernale, vuoi dire. Corpo d’un cannone! Gamberi ubriachi, frittura di topi, cane arrosto e gatto in stufato per pranzo! Se mio fratello fosse qui riderebbe tanto da scoppiare. Orsù, non bisogna essere schifiltosi. Se i cinesi mangiano questa roba, può mangiarla anche un bianco. Animo, portoghese mio!
 Il brav’uomo che così parlava si accomodò sulla sedia di bambù, trasse dalla cintura un magnificokriss coll’impugnatura d’oro ornata di magnifici diamanti, e fece a pezzi il cane arrosto che mandava un profumo appetitoso.
 Fra un boccone e l’altro si mise a osservare il locale nel quale si trovava.
 Era una stanzaccia bassa, colle pareti dipinte a draghi mostruosi, a fiori strani, a lune sorridenti, ad animali che vomitavano fuoco. Tutto all’intorno v’erano sedili e stuoie sulle quali russavano dei cinesi dal volto giallo, il cranio pelato, la coda lunghissima e i baffi pendenti; qua e là, senza ordine, c’erano tavole di tutte le dimensioni, occupate da brutti malesi dalla pelle olivastra e i denti neri e da bellissimidayachi seminudi con le membra coperte di anelli di ottone, armati di pesantiparangs , coltellacci lunghi mezzo metro. Alcuni di quegli uomini masticavano ilsiri , composto di foglie dibetel e di noci d’areca, lanciando sul pavimento sputi sanguigni; altri bevevano grandi vasi diarak o dituwak e altri ancora fumavano lunghe pipe cariche di oppio.
 – Hum – borbottò il nostro uomo sventrando il gatto. – Che brutte facce! Non so come quel briccone di James Brooke riesca a dominare questi birbanti. Deve essere un gran volpone e un…
 Un fischio acuto, che veniva dall’esterno della taverna, gli troncò la parola.
 – Oh! – esclamò.
 Accostò due dita alle labbra e imitò quel fischio.
 – Señor! – gridò il taverniere, occupato a scuoiare un cane grosso appena scannato.
 – Che il tuo Confucio ti impicchi.
 – Ha chiamato, monsieur?
 – Silenzio. Scuoia il tuo cane e lasciami in pace.
 Un indiano alto, di belle forme, quasi nudo, con un laccio di seta stretto attorno alle reni e unkriss sospeso al fianco destro, entrò, girando attorno i suoi grandi occhi neri. Il nostro uomo che stava spolpando una zampa di gatto, scorgendo il nuovo arrivato si alzò, mormorando:
 – Kammamuri!
 Stava per lasciare il suo posto, quando un rapido cenno dell’indiano, accompagnato da uno sguardo supplichevole, lo arrestò:
 – C’è qualche pericolo in aria – tornò a mormorare. – In guardia, amico.
 L’indiano, dopo aver un po’ esitato, si sedette di fronte a lui. Il taverniere accorse.
 – Una tazza dituwak ! – chiese il nuovo avventore.
 – E da mettere sotto i denti?
 – La tua coda
 Il cinese volse le spalle e fece portare una tazza e un vaso dituwak .
 – Spiati? – chiese con un fil di voce l’uomo che gli stava davanti, continuando a divorare.
 L’indiano fece col capo un cenno affermativo.
 – Che appetito, signore! – esclamò poi a voce alta
 – Non mangio da ventiquattro ore, mio caro – rispose il nostro uomo che, come il lettore si sarà immaginato, era il bravo Yanez, l’amico indivisibile della Tigre della Malesia.
 – Venite da lontano?
 – Dall’Europa. Eh! taverniere di casa del diavolo, un po’ dituwak !
 – Vi offro del mio, se non vi spiace – disse Kammamuri.
 – Accettato, giovanotto. Siedi vicino a me a da’ un colpo di dente a tutta questa roba che mi sta dinanzi.
 Ilmaharatto non si fece pregare e si sedette accanto al portoghese mettendosi a mangiare.
 – Possiamo parlare – disse Yanez. – Nessuno può ora sospettare che noi siamo amici. Vi siete salvati tutti?
 – Tutti, padron Yanez – rispose Kammamuri. – Prima che spuntasse l’alba, un’ora dopo la vostra partenza, lasciammo i fitti boschetti della riva e ci rifugiammo in una vasta palude. Ilrajah aveva mandato soldati a perlustrare la foce del fiume, ma non sono riusciti a scoprire le nostre tracce.
 – Sai, Kammamuri, che siamo stati bravi a sfuggire alrajah ?
 – Un mezzo minuto di ritardo e saremmo saltati in aria tutti quanti. Buon per noi che la notte era tanto oscura che quei birbanti non ci videro nuotare verso la riva.
 – La povera Ada ha sofferto nulla?
 – Nulla affatto, padron Yanez. Aiutato da Sambigliong, potei trasportarla a terra con tutta facilità.

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