Tremal-Naik (terza parte)

 Era un superbo indiano, alto cinque piedi e sei pollici, color del bronzo. Largo e robusto aveva il petto, muscolose le braccia e le gambe, fieri i lineamenti del volto e regolarissimi. Yanez, che aveva visto cinesi, malesi, giavanesi, africani, indiani, bughisi, macassaresi e tagali, non si ricordava di aver incontrato un uomo di colore così bello e così vigoroso. Non c’era che Sandokan che potesse superarlo.
 Quell’uomo dormiva, ma il suo sonno non era tranquillo. Il petto gli si sollevava affannosamente, la sua ampia e bella fronte si corrugava, le labbra di un rosso vivo, ardente, fremevano e le sue mani, piccole come quelle di una donna, si aprivano e si chiudevano, come se volessero afferrare qualche cosa e stritolarla.
 – Bell’uomo! – esclamò Yanez.
 – Zitto, parla – mormorò il luogotenente.
 Un rauco accento straziante era uscito dalle labbra dell’indiano.
 – Mia! – aveva esclamato.
 La sua faccia, d’un tratto, divenne burrascosa. Una vena che gli solcava la fronte s’ingrossò improvvisamente.
 – Suyodhana – mormorò, con accento d’odio, l’indiano.
 – Tremal-Naik! – disse il luogotenente.
 A quel nome l’indiano si scosse, si alzò di scatto e fissò sul luogotenente uno sguardo che scintillava come quello di un serpente.
 – Che cosa vuoi? – chiese.
 – Un signore vuol vederti.
 L’indiano guardò Yanez che stava qualche passo indietro a Churchill.
 Un sorriso sdegnoso sfiorò le sue labbra mettendo a nudo i denti bianchi come l’avorio.
 – Sono una belva forse? – chiese. – Che…
 Si arrestò e trasalì. Yanez che, come si disse, stava dietro al luogotenente, gli aveva fatto un rapido cenno. Senza dubbio aveva compreso che gli stava dinanzi un amico.
 – Come ti trovi qui dentro? – chiese il portoghese.
 – Come può trovarsi un uomo che nacque e visse libero nellajungla – disse Tremal-Naik con voce triste.
 – È vero che tu sei unthug ?
 – No.
 – Eppure hai strangolato delle persone.
 – E vero, ma non sono unthug .
 – Tu menti.
 Tremal-Naik si alzò digrignando i denti e con gli occhi fiammeggianti; ma un nuovo gesto del portoghese lo calmò.
 – Se tu mi lasciassi alzare il mantellino, ti mostrerei il tatuaggio che distingue ithug .
 – Alzalo, – disse Tremal-Naik.
 – Non accostatevi, milord! – esclamò il luogotenente.
 – Non ho arma alcuna – disse l’indiano. – Se io alzo un braccio, scaricami in petto le tue pistole.
 Yanez s’avvicinò al letto di foglie e si curvò sull’indiano.
 – Kammamuri – mormorò con voce appena distinta. Un rapido lampo brillò negli occhi dell’indiano. Con un gesto alzò il mantellino e raccolse il biglietto contenente le pillole che il portoghese aveva lasciato cadere.
 – L’avete visto il tatuaggio? – chiese il luogotenente che aveva, per precauzione, armato una pistola.
 – Non lo ha – rispose Yanez, raddrizzandosi.
 – Non è unthug dunque?
 – Chi può dirlo? Ithugs hanno tatuaggi in più parti del corpo.
 – Non ne ho – disse Tremal-Naik.
 – Da quanto tempo si trova qui, luogotenente? – chiese Yanez.
 – Da due mesi, milord.
 – Dove lo si condurrà?
 – In qualche penitenziario dell’Australia.
 – Povero diavolo! Usciamo, luogotenente.
 Il marinaio aprì la porta. Yanez ne approfittò per volgersi indietro e fare a Tremal-Naik un ultimo gesto che significava «obbedite».
 – Volete visitare il fortino? – chiese il luogotenente quand’ebbe chiusa e sprangata la porta.
 – Mi pare che non abbia nulla di attraente – rispose Yanez. – Arrivederci dalrajah , signore.
 – Arrivederci, milord.

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