Capitolo VIII – Fame, sete e pugni

Quantunque la cesta dovesse essere un po’ pesante, specialmente colle bottiglie vuote ed i cocci Surama, la piccola rhani, come se avesse acquistata improvvisamente una forza straordinaria, pari quasi a quella dell’erculeo rajaputo, era tornata a scendere la scala, sempre colla medesima sicurezza di prima. Eppure non doveva vedere, poiché diversamente avrebbe facilmente scorto Kammamuri ed i suoi due compagni.

Per la terza volta ripassò fra gli aiutanti che strepitavano sempre più ferocemente, divorati più che altro dalla sete, poiché dei topi ne avevano cacciati non pochi dentro i loro sacchi spelati, e si fermò nuovamente all’estremità del materasso occupato dal prigioniero, dicendo: «Eccomi».

«Troppo tardi» disse il paria con voce cupa. «Io tutto ho veduto, anche rimanendo qui». «Bevi: vi sono delle bottiglie».

«Sono tutte vuote e quelle che erano piene sono state spezzate. Io vedo la birra scendere nel sotterraneo e non posso berla». «Hai dunque molta sete?»

«Mi pare di morire da un momento all’altro. Non resisto più al supplizio che m’ha imposto quello sciacallo di maharatto». «Va’ a bere quella che scende». «Non vedi, piccola rhani, che sono legato con catene d’acciaio?»

«Che cosa vuoi ancora da me? Io sono stanca. Non mi reggo più e mi pare di avere la testa vuota e piena di nebbia». «Tutto passerà se tu, Altezza, continuerai ad obbedirmi».

«Sono stanca!…» gemette Surama, abbandonando le braccia lungo il corpo. «Io non ho più forza». «Te ne darò io con un lampo dei miei occhi. Apri bene i tuoi e guardami fisso».

«No, ho paura!…» gridò Surama, agitando disperatamente le braccia. «Tu mi fai male». «No, voglio solamente che tu mi obbedisca, Altezza. Apri gli occhi!…»

La rhani si era invece coperta il viso colle piccole mani, coperte di ricchissimi anelli. Ansava, sudava come se una febbre improvvisa l’avesse assalita, o come se sopra la sua testa brillasse l’ardentissimo sole indiano. Pareva che da un momento all’altro dovesse cadere, però ciò non doveva succedere poiché ormai la potente forza magnetica che il paria non cessava di trasmetterle, doveva darle nuove forze. Passò qualche minuto durante il quale la rhani continuò a oscillare ed a sudare copiosamente, così copiosamente anzi, che tutta la sua bella veste azzurra era rimasta macchiata di grosse gocce, poi abbassò le mani che le nascondevano il viso. «Giù!…» aveva detto semplicemente il paria. «Sono io il più forte».

Tosto un lampo fosforescente empì i suoi occhi, saettandolo contro la principessa ormai impotente a difendersi. «Avvicìnati» disse il malandrino, quando credette giunto il momento opportuno. «Non mi farai male?» «No, Altezza, sei troppo bella per farti soffrire, però devi obbedirmi».

Il paria, mezzo morente di sete, parlava con voce quasi ruggente: pareva parlare una belva piuttosto che un uomo. «Comanda» disse Surama. «Spezza le catene che mi tengono avvinto». «Non sarò mai capace».

«Possiedi la forza d’una giovane tigre, Altezza. Te lo dico io: te lo comando. È vero che ti senti più forte?»

«Sì, ma la mia testa è sempre vuota ed i miei occhi non vedono. Sono come abbacinati».

«Non dire sciocchezze, piccola rhani, ed avvicìnati di più a me e tenta di rompere queste maledette catene». «Le mie dita sono troppo piccole». «Saranno robuste come tanaglie».

Surama si curvò sul prigioniero, afferrò le catene e diede un tale strappo, che per il momento il maharatto ed i suoi due compagni, che spiavano sempre, credettero che cedessero. «Più forte» disse il paria. «Non posso».

«Io ti toglierò la nebbia che ingombra il tuo cervello e potrai, questa sera, andare a riposare tranquillamente a fianco del tuo signore».

Surama diede un secondo strappo più poderoso del primo, e fu così violento che sollevò il prigioniero, però le catene indiane non cedettero. Un urlo di furore era sfuggito dalle labbra del magnetizzatore.

«Ah!… Io non posso infonderti la forza d’un elefante!…» gridò. «Ed allora mi obbedirai ancora».

«Che cosa vuoi? Fa’ presto… lasciami andare… sono stanca… stanca, e fra poco sarà di ritorno il mio sposo». «Approfitta subito per agire giacché non è ancora rientrato. Mi odi?» «Sì: la tua voce romba nei miei orecchi come colpi di tuono».

«Risali nelle tue stanze, prendi della birra e portamene una bottiglia. Poi prenderai tuo figlio e lo darai da mangiare agli arghilah. Quando si saranno nutriti mi lasceranno dormire». «Mio figlio?…» disse Surama, come se non avesse compreso. «Sì, il tuo Soarez: si chiama così se non m’inganno». «E vuoi farlo morire?» «Voglio dormire: va’, te lo comando!…»

Surama attraversò il sotterraneo, procedendo come una sonnambula, si fermò un momento a guardare i terribili becchi degli arghilah attraverso i quali dovevano passare le tenere carni del suo piccolo Soarez e salì la scala.

«Tu», disse Kammamuri al baniano «seguila e da’ l’allarme. Chiudi poi subito le porte di bronzo affinché la rhani non possa tornare più qui».

Ciò detto si slanciò nel secondo sotterraneo come una belva in furore e piombò addosso al paria tempestandolo di sonori pugni.

Il rajaputo aveva appuntato la sua mezza lancia, sulla cui punta vi erano ancora dei topi, pronto a squarciare il miserabile.

«Non uccidermelo» disse prontamente il maharatto, il quale continuava a picchiare con maggior forza, strappando al prigioniero delle urla acutissime. «La morte è troppo dolce per queste canaglie e poi deve parlare, e per la morte di tutti i cateri, finirà per confessare». «Tu lo accoppi, sahib!» osservò il rajaputo.

«Hai ragione: se continuavo ancora un po’ gli sfondavo tutte le costole. Guarda che bel viso gonfio!…» «Hai dei pugni robusti tu, sahib». «E tu più ancora di me. Non mi fiderei a lasciarti picchiare». «Qualche volta, con un solo pugno, ho abbattuto un zebù». «Ti credo». Poi, volgendosi verso il paria il cui viso era coperto di ecchimosi, gli chiese: «Ne hai abbastanza o devo ricominciare?»

«Che Brahma ti maledica!…» urlò il miserabile, raccogliendo tutte le sue forze per tentare di rompere le catenelle.

«Quel dio non lo conosco», rispose Kammamuri «e non ho da temere che le maledizioni del dio che io adoro». «Ti castigherà anche quello». «Perché?» «Perché hai osato alzare le mani perfino su un bramino».

«Finiscila, imbroglione. Devo ripeterti ogni cinque minuti che tu non sei altro che un paria? La cosa comincia a diventare noiosa». «Vi siete tutti ingannati!…»

«Ah!… Gli uomini della vostra razza si conoscono subito. Ti deciderai ora a parlare? Se aspetti la rhani dovrai attendere un bel po’, poiché noi abbiamo fatto chiudere tutte le porte di bronzo». «Non m’importa: sa che cosa deve fare se vuol dormire».

«Vuoi ancora degli altri pugni, canaglia!…» gridò il maharatto alzando il braccio, pronto a ricominciare. «Sì, così mi ucciderai».

«No, no, tu creperai, se vorrai, dopo che avrai confessato ogni cosa. Miserabile!… Tu hai imposto alla rhani di portare qui suo figlio e di offrirlo agli arghilah per calmare la loro fame e farli rimanere un po’ zitti!… Tu hai il cuore più feroce delle tigri vecchie, delle mangiatrici d’uomini». «Ho sonno». «Dormi pure». «Porta via quei filosofi: io finirò per diventare pazzo».

«Quei cari uccellacci rimarranno qui finché tu, non potendo più resistere né alla fame, né alla sete, né al sonno, ti deciderai a confessare». «Tu vuoi assassinarmi!…» «E tu hai avvelenato tre ministri. Non protestare, è inutile».

Gli volse le spalle, girò al largo dagli arghilah che strepitavano sempre più spaventosamente, e che tentavano di raggiungersi coi poderosi becchi, e risalì nel sotterraneo superiore.

«Tu», disse al rajaputo «rimani qui a guardia del paria. Non t’inquieteranno i filosofi col loro chiasso?»

«I miei orecchi sono a prova di colpi di cannone, sahib» rispose il guerriero. «Non mi daranno nessun fastidio».

«Qualunque cosa accada, non uccidere quell’uomo. Ricòrdati che il maharajah non vuole, almeno per ora, la sua morte».

«Metterò da parte la mia lancia perché non mi venga la tentazione di cacciarla tutta nel corpo di quell’uomo». «Lascia in pace anche i tuoi pugni: pesano come mazze da fucina». «Te lo prometto, sahib» disse il rajaputo sorridendo. «Bada solo che non fugga e bada di non farti magnetizzare». «Io non sono la piccola rhani e perderebbe inutilmente il suo tempo».

«Siamo d’accordo. Io vado a vedere se il maharajah è ritornato dai funerali e vado a vegliare su sua moglie affinché non obbedisca all’ordine infame impostole dal paria. Apri gli occhi e cerca di tapparti gli orecchi».

Essendovi doppie chiavi alle porte di bronzo, gli fu facile aprire quella che il cacciatore di topi aveva chiusa per impedire alla principessa di scendere, e salì negli appartamenti superiori proprio nel momento in cui facevano ritorno al palazzo le guardie, i ministri e moltissime altre persone. Kammamuri si recò subito nel salotto di Yanez e trovò il portoghese che stava parlando con Tremal-Naik e col cacciatore di topi. Doveva essere appena giunto, precedendo il corteo sulla magnifica ratt tirata da sei zebù tutti bianchi, colle corna dorate ed adorne di nastri di seta multicolori.

«So tutto» disse Yanez, avanzandosi verso il maharatto. «Io finirò per far legare quell’uomo alla bocca d’un cannone e mandare in aria la sua carcassa in cento pezzi sanguinanti».

«Voi non lo farete, padrone» rispose Kammamuri. «Quell’uomo deve parlare e vi assicuro che confesserà. Ormai non resiste più». «E continua ad ipnotizzare mia moglie anche stando laggiù nel sotterraneo».

«No, deve averla magnetizzata il primo momento che l’ha veduta» disse Tremal-Naik. «Il malandrino ha capito di aver trovato un ottimo soggetto, impotente a reagire alla potenza fosforescente dei suoi occhi e ne ha subito approfittato». «Che cosa fa la rhani?» chiese Kammamuri.

«Giace sul suo letto, completamente spossata. Io comincio ad essere spaventato».

«Non ha tentato di prendere il piccolo Soarez per darlo in pasto ai filosofi affamati come voleva il paria?»

«Io ed il baniano l’abbiamo arrestata a tempo, ma quando già aveva in braccio mio figlio, e mi è subito caduta dinanzi, come sorpresa da un improvviso svenimento. Far mangiare il mio Soarez dagli arghilah!… Ah!… Che anima nera ha quell’uomo!…» «L’anima della dea Kalì, signor Yanez». «Comincio a crederlo anch’io. E finora non ha confessato nulla?» «No, e si ostina sempre a farsi credere un bramino».

«Che cosa fare?» chiese il portoghese, passeggiando rabbiosamente per la stanza, colle mani affondate nelle tasche e gli occhi lampeggianti d’ira. «Vuoi un consiglio?» disse Tremal-Naik.

«Parla, dimmi qualche cosa, o scendo subito nel sotterraneo e pugnalo quel miserabile».

«Sono anch’io dell’opinione di Kammamuri di non ucciderlo, per ora. Quel miserabile lavora per qualcuno, forse per Sindhia, e c’è il tuo trono in giuoco. Poi portiamo giù la rhani ed imponiamo al paria di liberarla dell’ipnotismo». «E se non obbedisse?»

«Aspetteremo. Tua moglie non può soffrire che delle grandi debolezze e nulla di più». «Vorrei vedere se obbedisce ancora all’ordine del miserabile». «Che cosa vorresti fare?»

«Cercare di svegliarla e lasciarla fare. Sono curioso di sapere come finirà tutta questa storia».

«Mi proverò io» disse Tremal-Naik. «Non avrò certo la potenza del paria e rimarrà sempre a lui soggetta, tuttavia sono certo di svegliarla. Un tempo mi sono dedicato anch’io un po’ al magnetismo». «Ma volevi magnetizzare le tigri della Jungla Nera» disse Kammamuri.

«Qualcuna si è arrestata sotto il mio sguardo improvviso, lasciandomi il tempo di fulminarla». «Seguitemi» disse Yanez, bruscamente. «Cercate di non fare rumore».

Attraversarono tre sale, tutte meravigliosamente decorate e riccamente ammobiliate, ed entrarono in una quarta un po’ più ampia delle altre e che aveva le pareti coperte di seta azzurra, di quell’azzurro che fu chiamato dai cinesi, buoni intenditori di tinte, anche se maldestri pittori, arazzi dopo la pioggia. Tutto intorno vi erano dei divani di seta pure azzurra, con larghi cuscini ricamati in oro, e dei leggeri mobili in legno di rosa, molto artisticamente scolpiti.

Nel mezzo, proprio sotto una di quelle grosse lampade dorate che usavano i mongoli, si trovava il letto della rhani, basso assai, con ricchi cuscini ma senza tende all’ingiro.

La nutrice di Soarez, una indiana delle alte montagne, ancora giovane e bellissima, vegliava sulla padrona cullandosi fra le braccia il piccino. «Non si è ancora svegliata?» chiese Yanez. «No, Altezza, ma guarda come suda. Si direbbe che un fuoco interno la divori».

«Ancora per poco, mia buona Mitane. L’uomo che la fa soffrire è sempre nelle nostre mani, e possiamo ucciderlo da un momento all’altro».

Surama si era gettata sul letto senza spogliarsi, sparpagliandosi intorno alla testa i capelli. Sudava come se una vera corrente infuocata scorresse attraverso alle sue vene e sussultava facendo, di quando in quando, colle mani, dei gesti come per allontanare qualche cosa. «Surama» disse Yanez, con voce imperiosa. «Mi ascolti tu?»

La graziosa principessa, udendo quella voce a lei ben nota, ebbe come un soprassalto, ma i suoi occhi rimasero ostinatamente chiusi. «Lascia che provi io» disse Tremal-Naik. «Io non dispero».

Si curvò sulla leggiadra rhani e le compresse, prima di tutto, le tempie, poi fece scorrere velocemente le sue dita sul collo e sulla fronte, tracciando come dei segni misteriosi. Un grido altissimo sfuggì a Yanez.

Surama aveva aperti gli occhi neri e profondi, gettando all’intorno degli sguardi strani. «Mi vedi tu, Surama?» chiese il portoghese. La rhani, invece di rispondergli, disse con voce debolissima:

«Perché vuoi che io dia mio figlio in pasto agli arghilah? Lo so… tu me lo hai comandato e dovrò obbedire».

Il portoghese scagliò un pugno nell’aria che se fosse piombato sul viso dell’infame paria avrebbe risuonato come un colpo di carabina.

«Che cosa dici tu, Tremal-Naik? È inutile che io vada a consigliarmi coi miei ministri, che sono sempre occupati a vuotarmi la cantina». «Te l’ho detto prima: làsciala fare. Non ci siamo noi?»

«Il miserabile!… Il mio piccolo Soarez attraverso i luridi becchi dei filosofi!… È un demonio quell’uomo?»

Surama, come se in quel momento avesse sentito un lontano richiamo, balzò giù dal letto, si ravviò i capelli, poi mosse diritta verso la nutrice che la guardava spaventata, strappandole dalle braccia il piccino.

«Per tutti i fulmini di Giove!…» esclamò Yanez, spezzando con un pugno un vecchio vaso cinese che valeva tanto oro quanto pesava. «Io non ho mai veduto una cosa simile. Quell’uomo deve morire e prima gli farò strappare gli occhi».

«Aspettiamo ancora, signor Yanez» disse Kammamuri. «Una confessione di quell’uomo può metterci sulle tracce d’una vasta congiura da noi non ancora sospettata. Si tratta della vostra corona e di quella della rhani». «Sia: aspetterò. Seguiamola».

La rhani si era preso fra le braccia il piccino il quale dormiva colla bocca aperta e le dita ben strette, come se già impugnassero tutte le armi del valoroso suo padre, gli gettò sopra una leggera coperta di seta gialla, poi mosse, senza esitare, senza vacillare, cogli occhi sempre spalancati, verso i sotterranei.

Tutti la seguivano camminando sulla punta dei piedi, quantunque fossero ormai più che certi che non vi sarebbe stato un completo risveglio. Surama obbediva proprio ad una possente volontà che ormai la dominava tutta. Apriva le porte di bronzo senza sforzo apparente, scendeva i gradini sempre sicurissima, senza mai arrestarsi, senza mai esitare. Sentiva il possente richiamo del paria. Giunta però dinanzi all’ultima porta che metteva nel sotterraneo dove si trovava il prigioniero, parve facesse o tentasse uno sforzo supremo per dare indietro, ma la chiamata s’imponeva più che mai imperiosa. Si strinse fra le braccia il piccolo Soarez, il quale continuava a dormire, afranto fors’anche dal gran caldo che tramandava la giovane madre, poi entrò risolutamente, passando accanto al rajaputo senza urtarlo.

«Corpo di Giove e di Nettuno, di Urano, di Marte e di tutti gli altri pianeti!…» esclamò Yanez. «C’è da aver paura! Dinanzi a dieci tigri non sarei più impressionato!…»

«Tutto finirà, signor Yanez» disse Kammamuri. «Il paria teme assai i pugni, specialmente se sono robusti e picchiano sodo». «Gli sfonderò una ad una tutte le costole». «E allora me lo ucciderete». «Picchierò sui suoi occhi e gli chiuderò per sempre le finestre». «Fate pure, signor Yanez. Vi raccomando solo di non accopparmelo del tutto». «Te lo prometto».

La rhani era intanto entrata nel sotterraneo dove i filosofi schiamazzavano terribilmente. Chissà quale discussione stavano tenendo fra di loro. Forse pensavano, o meglio si chiedevano, perché i fiumi ad un tratto fossero diventati così asciutti da lasciarli morire di sete.

«Taglio il collo a tutti quei ributtanti uccellacci» disse Yanez, estraendo con un moto rapido un affilatissimo tarwar dall’impugnatura d’oro.

«No, mio signore, non rovinate la mia opera» disse Kammamuri, arrestandogli prontamente il braccio. «Questi volatili faranno meraviglie». «In quale modo?» «Lo saprete poi: guardate la rhani».

Surama scendeva lentamente gli ultimi gradini, tenendosi sempre ben stretto al petto il piccino, il quale non si era ancora svegliato malgrado tutto quel fracasso. Yanez le attraversò prontamente il passo quasi dinanzi ai filosofi, i quali, quasi obbedissero anch’essi alla potente volontà del paria, volgevano le teste e spalancavano i giganteschi e fetenti becchi come se aspettassero la tenera preda.

In quel momento il piccino si svegliò, essendosi la rhani bruscamente fermata dinanzi a Yanez, il quale le impediva di procedere. Vedendo tutti quegli uccellacci furibondi, e udendo le loro strida orribili, si aggrappò al collo della rhani, gridando: «Mamma!… Mamma!… Dove mi porti tu?» Poi avendo subito veduto Yanez, gli disse: «Ah!… Papà, portami via o dammi la mia piccola pistola».

Il maharajah lo tolse dolcemente dalle braccia della moglie e lo passò subito a Tremal-Naik, il suo futuro istruttore. Surama, udendo quelle grida del piccino parve che avesse acquistata prontamente la sua volontà, ma ebbe la durata d’un lampo. La chiamata dell’infame paria s’imponeva, sempre più imperiosa.

Non avendo più Soarez da offrire e non potendo forse scorgerlo, prese la copertina di seta gialla e la offrì agli uccellacci.

Uno più lesto l’afferrò e l’assorbì come se fosse qualche cosa di vivente, e cadde subito quasi soffocato. Gli altri facevano sforzi terribili per avventarsi sulla giovane donna e farla a pezzi. Kammamuri e Yanez vegliavano e li respingevano a calci, strappando loro urla spaventevoli. Surama si era fermata: non avanzava più. Il paria, temendo per la propria pelle, le aveva certamente imposto di non avvicinarsi.

«Tremal-Naik» disse Yanez, il quale pareva in preda ad una vivissima emozione. «Passa il piccolo Soarez al rajaputo e bada a mia moglie».

Poi si precipitò, collo slancio d’una tigre, verso il materasso occupato dal prigioniero. Kammamuri si era messo a corrergli dietro, gridandogli: «Non uccidetemelo!… Non ha ancora parlato».

Il paria, vedendo il portoghese gettarglisi addosso coi pugni alzati, lo aveva fissato intrepidamente, tentando forse di magnetizzare anche lui con un supremo sforzo.

«Ah!… Cane!…» urlò Yanez, su cui il terribile e misterioso sguardo non aveva prodotto alcun effetto. «Tu volevi dare agli arghilah mio figlio!… Vile sciacallo, ti uccido!…» «Io non temo la morte». «Che uomo sei tu dunque?» «Un bramino e null’altro».

«Paria!… Paria!… Paria!…» gli urlò per tre volte Yanez, con voce terribile.

«Ed ora a noi. Tu hai ipnotizzata mia moglie la quale ormai non obbedisce più che alla tua volontà ed alle tue imperiose chiamate». «No, Altezza, i miei occhi sono eguali a quelli degli altri».

«Ah!… Sfrontato!…» gridò Kammamuri, balzando avanti anche lui coi pugni alzati, pronto a picchiare ancora. «Sono stati i tuoi sguardi fosforescenti che hanno fatto indietreggiare i topi, e quelle bestie erano affamate, e ti avrebbero fatto a pezzi in pochi istanti». «No, sono fuggiti dinanzi al tintinnio delle mie catenelle».

«Tu cerchi d’ingannarmi. In quel momento i tuoi occhi sfolgoravano come quelli delle tigri, e resistevo anch’io a gran fatica ai tuoi richiami, o meglio alle tue imposizioni». «Tu hai veduto male, sahib» rispose il paria, con voce pacata.

«Orsù, finiamo questa infame commedia!…» gridò Yanez, esasperato dalla spavalderia del prigioniero. «Ti ho detto di liberare mia moglie dallo sguardo magnetizzato che tu le hai lanciato appena l’hai veduta». «Io nulla posso fare, Altezza». «Insisti?» «Se io non ne ho colpa!» «Dopo tante prove!… Imponile di retrocedere e di tornare nella sua stanza». «Io non posseggo una tale potenza, Altezza». «Comandale!…» urlò Yanez alzando il pugno.

«Voi potete uccidermi, ma io non posso compiere quanto mi chiedete. La piccola rhani deve essere stata ipnotizzata da qualche vostro nemico». «Da quale?» «Da quelli forse che vi hanno avvelenati i ministri».

Era troppo. Il pugno del portoghese, robusto quanto quasi quelli del rajaputo, scese rapido colpendo il miserabile in mezzo al viso. Quando levò la mano vide guizzarsi sotto le dita un occhio. Il paria era stato a metà accecato.

«Voi mi pagherete, Altezza, questo pugno!…» gridò il paria che perdeva sangue in abbondanza dalla vuota occhiaia, sinistramente spalancata. «Qualcuno mi vendicherà, e forse più presto di quello che credete».

«Chi? Sindhia!…» urlò Yanez, il quale era stato prontamente trattenuto da Kammamuri, perché non gli fracassasse completamente il prigioniero. «Non l’ho mai veduto. Io so solo che comandava qui prima di voi e null’altro». «Kammamuri» disse Yanez. «Occupati di questo miserabile».

«E subito, signor Yanez. Il sangue scorre troppo. Che pugno!… È già un po’ troppo rovinato quest’uomo, ed io non voglio che muoia troppo presto».

Mentre Yanez si allontanava spingendo innanzi a sé, dolcemente, la piccola rhani, sempre in preda all’ipnotismo, seguito da Tremal-Naik che portava Soarez, stracciò un fazzoletto, prese al rajaputo la sua fiaschetta piena di tafià, forte quanto l’aguardiente spagnolo, e bagnò abbondantemente i pezzi di cotone, cacciandoli senza misericordia nella vuota occhiaia del paria.

«Taci, tigrotto» disse, udendo l’urlo del disgraziato. «Brucia ma cauterizza e ferma il sangue». «Che Brahma maledica te ed anche il maharajah!…»

«Aspettiamo senza tremare e senza impallidire le sue maledizioni» disse Kammamuri. «Lascia un po’ in pace quel povero dio a cui neanche tu credi». «Io son bramino!…» urlò il prigioniero, raccogliendo le sue ultime forze.

«Continua pure la commedia e noi continueremo a far fioccare pugni sempre più terribili. Anche l’altro tuo occhio un giorno o l’altro finirà fra i becchi di qualche filosofo». «Piuttosto uccidimi!…» «Ah!…» fece Kammamuri.

Nel sotterraneo non erano rimasti che il rajaputo ed il cacciatore di topi, i quali si erano seduti presso il materasso, guardando tranquillamente il prigioniero che ruggiva come un giovane leone.

Kammamuri accese una sigaretta di palma, si sedette sui talloni, poi guardando il miserabile che pareva avesse concentrato nel suo unico occhio tutta la sua strana fosforescenza, gli disse:

«Ho capito finalmente qual è il tuo punto debole. Non vuoi perdere completamente la vista». «Lasciami tranquillo!… Il tuo straccio mi morde la carne».

«Ma farà bene. Fra poco non uscirà più una goccia di sangue dalla finestra sfondata dal maharajah».

«Anche se tu dessi l’altro mio occhio a mangiare ai filosofi, la rhani sa ormai che cosa fare». «Spiègati un po’, vile paria!… Le tue parole sono troppo minacciose».

Il prigioniero, che doveva possedere una forza d’animo più che straordinaria, come d’altronde l’hanno tutti gli indiani, si strinse nelle spalle, poi disse con voce rantolante: «Chi vivrà… vedrà!…»

Kammamuri, il cacciatore di topi ed il rajaputo balzarono in piedi come tre tigri, urlando: «Ti uccidiamo!…»

«Fate!…» rantolò il paria fissandoli coll’occhio che ancora funzionava e che poteva diventare ancora pericoloso.

Già i pugni roteavano sulla sua testa, quando il maharatto si ricordò di non volere assolutamente, almeno per il momento, la morte del miserabile.

«Lasciatelo stare» disse. «È già abbastanza fracassato. Un altro pugno e Parvati, la dea della morte, se lo porterà via. Quest’uomo è straordinario. Chi l’ha vomitato? L’inferno?» «Brahma» rispose il prigioniero. «Va’ a raccontarlo a Kalì e non a noi». «Dammi da bere… non posso più parlare…»

«Io ti darò da bere anche tutta l’acqua che i fiumi dell’India travolgono, ma solamente quando avrai confessato».

«Lasciami morire… non ne posso più… caccia via quei sinistri uccelli che sembra aspettino il mio cadavere… per affondare i loro becchi nei miei intestini». «Vuoi parlare? Perché hai avvelenati i ministri? Per conto di chi hai agito?» «Non… so… nulla… acqua… acqua… berrei il Gange intero». «Lo aspetterai un bel po’».

Il maharatto trasse il suo orologio d’argento, grosso quanto una cipolla, contò un po’ stentatamente le ore, poi disse:

«Mezzogiorno di già: è l’ora del pranzo. Lasciamolo riposare tranquillo e andiamo soprattutto a vuotare un bel numero di bottiglie di ottima birra». «Birra…»

«Sì, sì, birra, e ne vuoteremo anche un barile perché le cantine del maharajah ne sono sempre abbondantemente provviste».

Il disgraziato agitò le labbra come se volesse dire qualche cosa, poi si abbandonò come se una sincope l’avesse sorpreso. «Che muoia?» chiese il rajaputo.

«Ma che!… Le grida orribili di quei maledetti uccellacci lo faranno ritornare presto in sé. Odi? Ora muggiscono come se fossero diventati tori. Ah!… Che strani volatili!…»

«Sono furibondi, sahib» disse il cacciatore di topi. «Dài loro da bere e diventeranno tranquilli». «Acqua?… Né pel paria né pei filosofi» disse il crudele maharatto. «Finiranno per mangiarsi gli uni cogli altri per succhiarsi almeno il sangue».

«Spezzino le catene se sono capaci. Sono quelle dei molossi, e puoi immaginarti come sono solide».

Aprì la bocca mostrando due file di denti da fare invidia ad un giovane coccodrillo, poi disse: «Sento del vuoto dentro di me. Andiamo a colmarlo».

«E quest’uomo?» chiese il rajaputo, vedendo che il paria aveva riaperto l’occhio.

«Lasciamolo discorrere con Brahma o discutere coi filosofi» rispose Kammamuri, ridendo. «Oh, parlerà!… Sì, deve parlare; lo voglio, e se non confesserà, io non sarò più un maharatto. Via, a pranzo».

Attraversarono il sotterraneo, picchiando pugni sulle teste calve degli uccellacci che tentavano di farli a brani, e salirono dove si trovavano i piccoli letti da campo.

Due valletti avevano già portato due grossi canestri pieni di volatili arrostiti, di carne fredda, di ciambelle al burro, di banane e di noci di cocco ricche di fresco latte.

«Mandiamole al paria» disse il cacciatore di topi con ironia. «Deve aver fame, e una noce di cocco la sorbirebbe volentieri».

«Le vuoteremo noi» disse Kammamuri, sedendosi intorno alle ceste. «Làscialo soffrire finché si deciderà a parlare». «E tu speri sempre, sahib, che da un momento all’altro la sua lingua parli?» «Vedrai».

«Ad un simile supplizio non resisterei nemmeno io» disse il rajaputo. «Quei dannati filosofi mi hanno sfondato i timpani degli orecchi che i grossi cannoni inglesi avevano sempre rispettati». «Eppure odi ancora» disse Kammamuri, preparandosi ad assalire la colazione.

Stava tagliando una grossa anitra bramina scoperta sotto le focacce, quando Tremal-Naik comparve seguito da un giovane indiano di forse vent’anni, robusto come un battelliere del Gange e dagli occhi intelligentissimi. «Timul, il cercatore di piste!…» esclamò subito il maharatto. Guardò Tremal-Naik con un po’ di ansietà, chiedendogli: «Ci sono novità, padrone? La rhani?»

«Dorme tranquilla a fianco di Soarez», rispose il vecchio “Cacciatore di Belve feroci della Jungla Nera”. «Tuttavia Yanez è inquieto di questo prolungato magnetismo».

«Ed io non meno di lui, padrone» rispose Kammamuri. «Il miserabile paria mi ha detto che ormai la rhani sa che cosa deve fare, e che non ha più bisogno dei suoi occhi».

«Ah!… Vile sciacallo quel traditore, o meglio quell’avvelenatore, che trama contro noi tutti. Comincio ad aver paura».

«Vuoi, padrone, che gli faccia mangiare l’altro occhio da qualche arghilah? Glielo assorbirebbero come l’uovo di un uccello».

«No, non ancora. Yanez a quest’ora l’avrebbe fatto legare alla bocca d’un cannone e lo avrebbe fatto saltare ben alto in cento e più pezzi, ma io non ho voluto. Quel paria ci darà la chiave delle terribili vendette che si compiono certamente in nome di Sindhia. Quell’uomo dev’essere fuggito da Calcutta per tentare la riconquista della corona dell’Assam, che ha insanguinata non meno abbondantemente di suo fratello. M’ingannerò, ma sotto i nostri piedi vi sono delle mine pronte a scoppiare. La nostra razza, checché faccia la Young-India, non saprà mai apprezzare i benefìci della civiltà. Qui non ci vuole che fame, cholera ed esecuzioni in massa».

«Ed è il nostro male» disse Kammamuri, facendo largo al padrone ed al cercatore di piste. «Perché hai condotto Timul?» chiese, dopo tagliati i cibi. «Ho un’idea». «Quale, padrone?»

«Di recarmi allo stagno dei coccodrilli con una mezza compagnia di rajaputi, e di fare una retata di tutti quei paria che abbiamo scovato nelle cloache».

«Quegli uomini non sapranno niente, padrone» disse Kammamuri. «È il bramino che è alla testa di tutti e che sa tutto». «Chi lo sa!… Talvolta si può avere un colpo di fortuna».

Si erano messi a mangiare, serviti da due giovani valletti di bellissime forme e dai lineamenti fini che indicavano la loro discendenza dalle alte caste, facendo però più onore alle bottiglie di birra fresca ed ai banani, che al resto. Il clima dell’India non è indicato pei forti mangiatori, i quali devono ben presto rinunciare alle carni. Bevono invece molto per rimettersi dall’enorme perdita di sudore che è continua.

«Dunque tu dicevi, padrone», riprese Kammamuri, accendendo una delle sue solite sigarette di palma a tabacco rosso, «che vorresti fare una sorpresa a quei misteriosi cacciatori di coccodrilli?»

«Sì, mio caro Kammamuri, e vorrei averti in mia compagnia. Il rajaputo ed il baniano sorveglieranno, durante la tua assenza, il prigioniero».

«È che diffido terribilmente di quell’uomo e non vorrei lasciarlo nemmeno per cinque minuti».

«Se è mezzo morto!… Orsù, l’elefante favorito di Yanez, il bravo Sahur, ci aspetta alla porta del palazzo. I rajaputi sono già partiti e li troveremo sulle rive delle acque morte». «Come vuoi, padrone». «D’altronde torneremo assai presto». «Prima di sera?» «Lo spero».

«Andiamo, padrone. Veramente sarei anch’io curioso di sorprendere quei misteriosi individui, diventati cacciatori di coccodrilli forse per non essere inquietati, giacché sono dei benemeriti». «Lo vedremo se lo saranno realmente» disse Tremal-Naik. Si erano alzati, dopo d’aver vuotato un ultimo bicchiere di birra.

«Non perdete d’occhio un solo momento il prigioniero» disse Kammamuri al cacciatore di topi ed al rajaputo. «Conta su di noi, sahib» risposero i due valorosi.

«Soprattutto non dategli né da bere né da mangiare. I vostri pugni poi, per ora, lasciateli in riposo».

Prese le sue pistole e seguì Tremal-Naik attraverso gli immensi saloni del palazzo reale. Timul, il cercatore di piste, li accompagnava. Dinanzi al gran portone, sorretto da dodici colossali colonne di pietra verde, Sahur, il bravo elefante, cominciava a dare segni d’impazienza, lanciando, di quando in quando, un formidabile barrito che si ripercuoteva come un colpo di tuono entro le spaziose sale del palazzo.

Il cornac aveva gettata la scala di corda, poi aveva ripreso il suo posto fra gli orecchi del pachiderma. I tre uomini salirono sulla cassa, riparata da una leggiadra cupoletta dorata, irta di grosse foglie di banani, per attenuare il calore che in quel momento avvampava intenso, avvicinandosi il mezzogiorno. «Quando sono partiti i rajaputi?» chiese Tremal-Naik al cornac. «Da circa un’ora». «Va bene, giungeremo in buon punto. Lancia Sahur».

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