Capitolo X – In cerca della Rhani

Purtroppo l’incendio ormai si era reso completamente padrone dell’imponente e magnifico palazzo dei rajah dell’Assam e pessimamente combattuto da quella decina di pompe sgangherate (che ogni momento cessavano di funzionare, avendo i tubi tutti crivellati forse dai denti dei topi, la piaga dell’India) divorava con maggior furore alimentato dal vento notturno che scendeva dalle non lontane montagne. Se le poderose muraglie di pietra ed i due piani inferiori resistevano, i tetti, le gallerie tutte in legno di palissandro, ed i piani superiori in legno di rosa, bruciavano allegramente, lanciando verso il cielo fiamme spaventevoli.

Ormai i rajaputi, la polizia, la folla, scoraggiati per l’inutilità dei loro sforzi e spaventati dai continui turbini di scintille che uscivano dalle finestre e che si rovesciavano nelle vie mordendo le carni nude degli indiani, avevano rinunciato alla lotta. Solamente verso un angolo del palazzo, dove si trovavano gli appartamenti della rhani, le pompe funzionavano ancora bene o male, ed i rajaputi stesi in grandi catene non cessavano di passarsi grossi secchi d’acqua che poi venivano vuotati dentro la gigantesca fornace.

Tremal-Naik e Kammamuri trovarono il portoghese fra le pompe, coll’eterna sigaretta fra le labbra. Nemmeno la distruzione del suo palazzo lo avevano trattenuto di mescolare alcune boccate di fumo profumato a quello nero e fetente che le finestre vomitavano senza posa. Appariva però estremamente nervoso, Andava, veniva, tornava, lanciando ordini, poi si arrestava, come se tutta la sua straordinaria energia si fosse spezzata. Certamente pensava alla scomparsa di sua moglie, della piccola rhani.

«Ohe, Yanez, amico mio» gli disse Tremal-Naik. «Non ti ho veduto mai così agitato, nemmeno quando combattevi aspre battaglie colla morte dinanzi». Il portoghese gettò via rabbiosamente la sigaretta poi disse: «Capirai: si tratta di mia moglie». «Entro il palazzo non è rimasta?»

«No, te l’ho già detto; è stata veduta uscire pochi minuti prima che scoppiasse l’incendio». «Ma tu non la sorvegliavi?»

«I ministri mi avevano fatto chiamare per importanti affari di stato. Al diavolo tutti gli stati e tutte le loro ruote, che già non funzioneranno mai come vorrebbero i popoli».

«Che sia stata rapita, signor Yanez?» chiese Kammamuri, mentre una superba loggia crollava con immenso fracasso, sollevando turbini di scintille.

«No, io credo che abbia obbedito a qualche ordine dell’uomo che l’ha ipnotizzata».

«Noi sapremo cercare le sue tracce, signor Yanez. Abbiamo Timul sempre con noi».

«Lo so, ed è per questo che non sono troppo impressionato» rispose il portoghese. «È inutile ormai che noi restiamo qui. Lasciamo che il fuoco divori tutto quello che è divorabile ed andiamo a occupare la palazzina di Rampur dove già si è rifugiata la nutrice con Soarez, sotto buona scorta, per impedire qualche altra sgradita sorpresa. Noi, miei cari, navighiamo in mezzo a mille scogliere traditrici».

«Lo sappiamo meglio di te» disse Tremal-Naik. «Abbiamo catturato il capo dei paria che occupavano le cloache, e quello ha già cominciato a parlare». «Ed il bramino è morto arrostito?»

«Oh, no, signor Yanez» disse Kammamuri. «Siamo riusciti ancora a salvarlo. Non sono morti che i filosofi». «Ancora vivo!… Dov’è quella canaglia? Bisogna che lo uccida».

«Ora meno di prima, se vuoi sapere quali sono le persone che avvelenano i tuoi ministri, e che si preparano a strappare la corona alla rhani. Tu, Kammamuri, conduci i due prigionieri nella palazzina di Rampur. Assisteremo ad un confronto emozionante. Vedo che hanno salvato un ratt coi suoi zebù e non tarderemo a raggiungerti».

«Sì, padrone» rispose il bravo maharatto, allontanandosi a gran corsa per raggiungere Sahur.

Una vettura, dalla cupoletta d’oro, tirata da quattro buoi trottatori, era stata salvata insieme con un gran numero di elefanti che occupavano il parco e che i loro conduttori, vedendo le prime scintille, si erano affrettati ad allontanare.

Si trattava di venti pachidermi fra coomareah e merghee, tutti ammaestrati per le cacce ed anche per la guerra, e che valevano da soli, una volta lanciati, meglio d’un reggimento di rajaputi. Yanez diede un ultimo sguardo al suo palazzo fra le cui mura, colla piccola rhani, aveva passato giorni pieni d’infinita felicità, e che ora il fuoco continuava a divorare, e salì sul ratt insieme a Tremal-Naik. «Alla palazzina di Rampur!…» gridò al conduttore. «Fa’ galoppare!…

Non occorreva che glielo dicesse. Gli zebù, punzecchiati a sangue dal lungo pungolo presero una corsa indiavolata, cercando di raggiungere Sahur il quale ormai, colle sue immense zampacce, aveva avuto subito un tale vantaggio da non scorgerlo più. Solamente in distanza si udivano, di quando in quando, i suoi barriti, che però si affievolivano rapidamente. La folla che ingombrava ancora le vie, si apriva subito dinanzi al ricco carro del maharajah, salutando con deferenza; però quei saluti non sembravano a Tremal-Naik quelli d’un tempo. La popolazione, che aveva salutato con grandi feste la incoronazione della rhani e la cacciata di Sindhia, il pazzo alcoolico, doveva essere stata guastata da chissà quali serpenti usciti forse dalle cloache o più lontano ancora.

Non dovevano però essere rettili. Dovevano essere dei pericolosi congiurati che tramavano alla distruzione dell’impero assamese, come Yanez aveva voluto chiamarlo per impressionare maggiormente le popolazioni vicine, sempre pronte a ribellarsi.

Il ratt, in meno d’un quarto d’ora attraversò la distanza e si fermò dinanzi al villino di Rampur, dove già Sahur stava divorando un ammasso di canne da zucchero e di foglie di ficus religiosa.

Rampur era più che altro un bungalow, non molto elegante, però adatto alle esigenze del clima, con alti tetti in forma di piramide e molte oangas riparate, di giamo, da bellissime stuoie variopinte per mantenere una certa frescura. Ai due lati della costruzione principale si estendevano vaste tettoie dove già si trovavano in salvo gli elefanti sottratti al fuoco. Tutto intorno poi vi erano dei bellissimi giardini, con piante altissime e ricche d’ombra. Kammamuri, giunto prima, aspettava Yanez e Tremal-Naik insieme al cercatore di piste ed al cacciatore di topi.

«Sono al sicuro i briganti?» chiese il “Cacciatore di Serpenti della Jungla Nera”.

«Oh, sì, padrone» rispose il maharatto. «Vi è il rajaputo che veglia su di loro, e quell’uomo fa troppa paura coi suoi pugni che sembrano martelli pronti sempre a sfondare o raddrizzare pentole di rame». «Sono insieme?» «Sì, padrone».

«Andiamo a vedere queste canaglie. Se non mi diranno dove si trova la rhani li farò legare alle bocche dei cannoni. Il bramino è già vissuto troppo» disse Yanez, il quale pareva che avesse perduto la sua solita calma.

Saltarono a terra ed entrarono nel bungalow preceduti da Kammamuri, entrando subito in un salotto a pianterreno che aveva il pavimento in pietra e che era ammobiliato secondo il gusto inglese: una gran tavola d’acajù, un pianoforte, dei mobili leggeri contenenti bicchieri e liquori, e seggioloni enormi, ad alto schienale, lunghi non meno di due metri, fabbricati con legno di rotang.

Appunto su due di quei seggioloni, e ben legati, si trovavano il vecchio paria arrestato nello stagno dei coccodrilli ed il famoso bramino, ormai mezzo morto, poiché pareva che boccheggiasse. «È questo l’uomo che ha parlato?» chiese il portoghese, indicando il vecchio.

«Sì, amico» rispose Tremal-Naik. «Da lui sapremo molto di più che da quel cane che si ostina a farsi credere un bramino».

«Il nostro primo prigioniero però è quasi morente. Kammamuri, fagli inghiottire qualche cosa».

«Non certo della birra, signore. Sarebbe troppo contento il poveraccio, ma non io che ho vegliato tanto tempo su di lui».

Si avvicinò ad un elegante mobile a diversi piani, tutto pieno di bottiglie piuttosto polverose e di bicchieri, e si mise a leggere le etichette.

«Whisky» disse ad un tratto, impadronendosi rapidamente d’una bottiglia dal collo lunghissimo. «Ecco quello che occorre per galvanizzare quel moribondo».

«Che cosa fai?» chiese Tremal-Naik. «Vuoi ammazzare quell’uomo? Tanto valeva che tu lo avessi lasciato nel sotterraneo ad arrostire insieme ai filosofi».

«Ma no, padrone!…» rispose il maharatto, stappando la bottiglia. «Questo sciacallo deve avere degli intestini di coccodrillo. Vedrai come si risveglierà di colpo».

«Per addormentarsi forse poi per sempre» disse Yanez. «Stappa una bottiglia di birra, e anche se non è fresca, la manderà giù come la più deliziosa delle bevande». Il maharatto scosse la testa.

«No, no» disse poi. «Niente birra e niente acqua, bensì fuoco. Lasciate fare a me, signor Yanez, e vi assicuro che quest’uomo, anche se appena accecato dal terribile vostro pugno, non morrà. Oh!… Sono duri i paria, i più resistenti di tutti gli indiani».

Empì un lungo e sottile bicchiere di cristallo giallo e si avvicinò al bramino il quale si ostinava a tener chiuso l’unico occhio che gli rimaneva. «Bevi, amico» gli disse. «Devi aver ben sete». «Acqua… acqua… birra!…» ruggì il miserabile, aprendo la bocca. «Prendi: ingoia questo».

Il bramino, divorato dalla sete, inghiottì d’un fiato il contenuto del bicchiere, credendolo ben altra cosa. Malgrado le corde che lo tenevano ben legato ai bracciuoli, fece un soprassalto, accompagnato da una orribile smorfia. «Brucio!…» disse, con voce soffocata. «Dell’acqua!…» «Sì, subito, un secchio, se ti decidi una buona volta a parlare». «Non so… non so…»

«E allora manda giù un altro bicchiere di questo delizioso liquore» disse l’implacabile maharatto, tentando di avvicinarglielo alle labbra. Il prigioniero aveva mandato un urlo spaventoso, un vero urlo da belva, e si era rovesciato violentemente indietro, forzando le corde fino a farsele entrare nei polsi. «No!… No!…» ruggì il disgraziato.

«Ed allora, miserabile, mi dirai dove si trova la rhani!…» gridò Yanez, avanzandosi minaccioso. «Ella ha obbedito a qualche tuo comando, poiché deve trovarsi ancora sotto l’influenza del magnetismo». «La rhani… la rhani… chi è?… Dov’è?… Ah!… Mi pare di vederla!…»

«Manda giù anche questo bicchiere e la vedrai meglio» gli disse Kammamuri, avvicinandogli la leggera coppa alle labbra.

Il prigioniero l’addentò rabbiosamente e la spezzò, versandosi addosso tutto il contenuto.

«Si direbbe che quest’uomo ha nel corpo veramente l’anima d’un bramino» disse Tremal-Naik. «Una tale resistenza stupisce. E sono due giorni e due notti che non beve, col caldo intenso che fa».

«Che cosa fare?» si domandò Yanez, cacciandosi le mani nei capelli. «Io voglio che questo miserabile mi dica dove ha mandato la rhani». «Quest’uomo si lascerà morire senza dirvi nulla, Altezza» disse il baniano. «Ma credi tu che le abbia imposto di dare fuoco al palazzo e poi di andarsene?» «Sì, Altezza, poiché vostra moglie è sempre sotto l’influenza del magnetismo». «Dove le avrà imposto di andare? Dove?»

«Noi lo sapremo e ben presto, signor Yanez» disse Kammamuri. «Rimanete qui col mio padrone e col rajaputo, ed intanto interrogate il vecchio paria dalla barba bianca. Da lui saprete certamente molte cose interessanti». «E tu dove vai?»

«Mi prendo Timul ed il cacciatore di topi e torno al palazzo per seguire la pista della rhani. Prima che l’alba sorga voi saprete qualche cosa o rivedrete vostra moglie. Vegliate su questi uomini e su vostro figlio. Ho troppa paura dei tradimenti». «La palazzina è ormai già circondata da una squadra di rajaputi» disse Tremal-Naik, il quale si era avvicinato ad una finestra. «Nessuno oserà avvicinarsi, almeno per ora. Se si tratta di Sindhia, non può aver già radunate tante truppe da gettarsi sulla capitale».

«Andate» disse Yanez che si tormentava la barba, e che passeggiava furiosamente per il salotto, lanciando, di quando in quando, sguardi terribili sul bramino, il quale pareva che si fosse assopito. «Riconducetemi la rhani!… Riconducetemi mia moglie!…»

«Io seguirò le sue tracce, Altezza» disse Timul. «Voi sapete che non mi sono mai ingannato».

Si munirono di lampade, poi i tre uomini lasciarono rapidamente la palazzina montando sul ratt invece che sull’elefante.

Cinquanta o sessanta rajaputi e parecchie guardie di polizia stazionavano al di fuori, armati di carabine e di pistole. Il maharajah poteva quindi vivere tranquillo, poiché nessun uomo, fuorché i ministri, avrebbero potuto rompere la rigorosa sorveglianza. Gli zebù partirono subito a gran trotto verso il palazzo reale, il quale era ormai diventato oscuro, essendosi l’incendio spento contro le massicce pareti di pietra.

La popolazione si ritirava rapidamente, commentando la grave disgrazia toccata al maharajah ed alla rhani, sicché i buoi trottatori potevano inoltrarsi rapidamente senza pericolo di storpiare qualcuno.

«Che cosa dici tu, sahib?» chiese il cacciatore di topi a Kammamuri, il quale appariva piuttosto preoccupato. «Riusciremo noi a scoprire la piccola rhani?»

«Con Timul sì» rispose il maharatto. «Questo giovane gode forse d’un senso che noi non possediamo, e vedrai che ci condurrà al posto sicuro».

«Trovare una traccia in mezzo a delle vie polverose calpestate da centinaia di persone, mi sembra un po’ difficile».

«Timul ha seguite le tracce di non pochi pericolosi malfattori, senza mai perderle, per centinaia di miglia talvolta, ed è sempre riuscito a raggiungerli ed a farli arrestare. Come faccia io non so, come non saprei spiegarmi perché certe persone privilegiate riescano a udire i lontanissimi fragori delle acque scorrenti sotto la crosta terrestre. Sapresti scoprire tu quei torrenti sotterranei, che danno acqua in abbondanza ai pozzi?» «Io no» rispose il baniano. «E nemmeno io». «Tu dunque speri, sahib?» «Molto, ed ho anche un sospetto» disse Kammamuri. «Vuoi dire?»

«Che la rhani non abbia lasciata la città, e che si trovi più vicina a noi di quello che si potrebbe supporre. Ho un’idea fissa che ora tengo tutta per me». «Che potenza aveva negli occhi quell’uomo?» «Ho veduto che faceva perfino indietreggiare i topi affamati, quel caro bramino». «Me lo ricordo, sahib». «Ci siamo» disse in quel momento il giovane cercatore di piste.

Il ratt si era fermato dinanzi alla gigantesca porta del palazzo reale, tutta affumicata sì, ma sempre ben salda sulle sue numerose e magnifiche colonne. L’incendio ormai si era spento, non già per gli sforzi dei maldestri pompieri, bensì per mancanza di materie infiammabili. Tutti i piani superiori, tutte le gallerie, tutti i tetti erano stati distrutti, però il piano terreno era sfuggito al fuoco a causa delle sue pareti e dei suoi pavimenti di pietra. Molti rajaputi e molte guardie si aggiravano intorno al palazzo, respingendo gli ultimi curiosi, fra i quali si potevano trovare dei famosi ladri pronti ad approfittare della disgrazia.

Kammamuri fece chiamare uno dei capi della polizia e dopo aver avuto con lui un breve e rapidissimo colloquio, entrò con Timul nel vasto vestibolo grondante d’acqua per gli ultimi colpi delle pompe. «Una scarpetta sola, sahib» aveva detto il cercatore di piste.

«L’appartamento privato della rhani non ha preso fuoco, quindi invece di una troveremo anche cento babbucce».

Attraversarono correndo due immensi saloni, e giunsero alla porta del salotto di Yanez.

Le volte, in pietra, non avevano ceduto nemmeno sotto l’enorme peso dei piani superiori, però le tappezzerie delle pareti, i magnifici tendaggi, perfino i tappeti erano diventati neri e parevano come carbonizzati da un fuoco lento.

Kammamuri si precipitò attraverso le stanze private della rhani e del maharajah, regnando ancora dentro il gigantesco palazzo una temperatura da forno, e giunse nella stanza bianca. Anche là tutte le tappezzerie, ricamate in oro ed in seta, stavano per cadere ed erano diventate nere. Kammamuri aprì una grande cassa di mogano incrostata d’argento e di madreperla, vi frugò dentro per qualche momento, poi porse al cercatore di piste una scarpettina di marocchino giallo, a punta rialzata, con disegni a vari colori, chiedendogli: «Ti basta?» «Sì, sahib».

«Ora scappiamo, o cuoceremo come pagnotte. Pare proprio di essere entro un gigantesco forno».

Presero la rincorsa, però ad un certo punto il maharatto si arrestò. Si trovava sulla scala che conduceva ai sotterranei che avevano servito di prigione al bramino.

«Voglio vedere che cosa è successo degli arghilah» disse. «Un mezzo minuto ancora possiamo resistere, è vero Timul?»

«Anche cinque, sahib» rispose il giovane indiano, cacciandosi entro un sacchetto di cuoio la piccola scarpa della rhani.

Si slanciarono giù per le scale, spalancando a calci le porte di bronzo che irradiavano un intenso calore, quantunque la fiamma viva non le avesse nemmeno sfiorate, e si affacciarono al secondo sotterraneo.

I poveri filosofi giacevano tutti al suolo, coi mostruosi becchi aperti, le ali tutte arruffate, e le lunghissime e grosse gambe attortigliate strettamente intorno alle catenelle d’acciaio. Chissà quali sforzi i disgraziati avevano tentati per porsi in salvo, e lasciare quel sotterraneo maledetto entro il quale da due giorni e due notti penavano.

«Bah!…» disse Kammamuri. «L’India è perfino troppo ricca di filosofi alati ed anche non alati. Se occorrerà, ne andrò a cercare degli altri e guarderò che siano dei grandi chiacchieroni. Su, scappiamo, Timul!…» «È tempo!… I topi, sahib, i topi!…» «Corri, corri, Se ci raggiungono ci divoreranno come due biscotti».

I rosicchianti, cacciati dal gran calore, si precipitavano attraverso il sotterraneo, mandando strida altissime e spiccando salti straordinari. Forse il rajaputo od il baniano avevano riaperte le due ultime porte di bronzo che mettevano chissà in quali gallerie, ignorate perfino dal maharajah e dalla rhani, e sbucavano a battaglioni e battaglioni. Fortunatamente vi erano i sei filosofi da divorare, ed arrestarono l’assalto intorno agli uccellacci, lavorando subito di denti e battagliando, come sempre, ferocemente fra di loro. Kammamuri e Timul in pochi salti attraversarono il piano terreno e si fermarono dinanzi al baniano che li aspettava appoggiato al ratt. «Siete arrostiti?» chiese il cacciatore di topi. «Meno di quello che tu possa credere» rispose il maharatto.

Si guardò intorno. Guardie di polizia e rajaputi si erano ritirati sull’opposto marciapiede, tenendo però sempre d’occhio il palazzo reale, entro il quale dovevano trovarsi ancora immensi tesori che potevano far gola ai ladri indiani assai più destri di quelli europei. La via così era rimasta libera, poiché anche gli ultimi cittadini si erano decisi a tornare alle loro case a rassicurare le famiglie.

Timul prese la scarpettina della rhani, la fiutò a lungo, poi si gettò carponi sollevando qua e là colle mani, la polvere od il fango, avendo le pompe agito anche in quel punto. «Devo rimandare il ratt al bungalow?» chiese il baniano. «No, che ci segua lentamente a distanza. Forse ne avremo bisogno». «Per noi?» «Per la rhani».

Il cacciatore di topi fece un gesto di dubbio, tuttavia si affrettò a passare l’ordine al conduttore.

Timul continuava intanto ad avanzare, sempre carponi, reggendo con una mano la lanterna. Due o tre volte si era arrestato come fosse indeciso, poi parve aver scoperta la pista, poiché si mise ad avanzare con maggior rapidità. Era dotato d’un sesto senso quel giovane, per seguire, anche attraverso le vie polverose, le tracce? Bisognava crederlo. Agiva d’altronde come i cani, fiutando di frequente la scarpetta ed il suolo. «Che cosa dici tu di quell’uomo?» chiese il maharatto al baniano. «Che non è meno straordinario del bramino, sahib». «Hai detto proprio il vero». «E tu credi che abbia già scoperta la pista della rhani?»

«Ne sono più che convinto. Ascoltami: alcuni mesi or sono un terribile thug, calato certamente dalle montagne del Bundelkund, dove si trovano ancora nascosti alcuni adoratori della sanguinaria Kalì, commetteva degli atroci delitti, strangolando ogni notte un buon numero di persone e scomparendo come fosse uno spirito. Invano il maharajah aveva messa una forte taglia sulla testa di quell’assassino, ed invano la polizia ed anche i rajaputi percorrevano un buon numero di vie, specialmente di notte, colla speranza di sorprenderlo. Già ventiquattro o venticinque pacifici abitanti, fra cui due donne, erano stati strangolati, quando il miserabile fu sorpreso da due rajaputi presso una pagoda mentre stava per finire la sua ultima vittima, poiché doveva essere veramente l’ultima. Lesto come una giovane tigre fuggì, ma perdette una delle sue scarpe che fu subito portata a Timul. All’indomani noi sapevamo già che il thug aveva lasciata la capitale e che si avviava verso Goalpara, colla speranza di continuare, anche in quella popolosa città, i suoi delitti. Timul, non so come, aveva scoperta la pista, e lo stringeva da vicino, accompagnato da quattro valorosi sikkari, e dopo due giorni e due notti riusciva a scovarlo entro una foresta di palas ed a farlo subito arrestare». «Ciò è stupefacente!…» «Lo dico anch’io». «L’arrestato era proprio il thug che aveva commessi tanti delitti?»

«Aveva sul petto tatuato il serpente azzurro colla testa di donna, quindi non vi poteva esser dubbio che non fosse un seguace della maledetta dea che non chiede ai suoi adoratori altro che stragi. D’altronde aveva ancora indosso un fazzoletto di seta nera con una piccola palla di piombo cucita ad una estremità, e per di più un vero laccio che gli serviva di cintura. Oh, non negò i suoi delitti, anzi se ne vantò, lamentandosi solo di essere stato disturbato nelle sue operazioni». «E sarà stato appiccato».

«Fu legato alla bocca d’un cannone, ed alla presenza di centomila persone, lanciato in aria a brandelli».

«Ben fatto» disse il cacciatore di topi. «Quei miserabili non meritano alcuna grazia. Se io fossi il maharajah a quest’ora avrei già fatto altrettanto con quel preteso bramino».

«Anche tu? Ma no, ma no!… Deve parlare prima e poi morire. Se vorrà, gli lasceremo la scelta fra il laccio, una scarica di carabine o la bocca d’un cannone!…» «Se non l’avranno già accoppato». «Oh, no!…» «Non mi fiderei delle collere del maharajah, sahib». «Ed invece ha del sangue freddo da vendere. Toh, Timul si è fermato!…»

Il cercatore di piste, che aveva già percorsi più di cinquecento metri, spostando sempre la polvere ed annusando come un vero cane da caccia, si era alzato, e dopo d’aver deposta la lanterna si era messe le mani ai fianchi guardando diritto dinanzi a sé. Kammamuri, che precedeva a piedi il ratt, lo raggiunse e gli diede una spinta, dicendogli: «Saresti stato anche tu ipnotizzato?»

«No, sahib» rispose il giovane, sorridendo. «Qui non ho veduto gli occhi di quell’uomo, e poi ormai non ne ha che uno». «Che cosa cerchi allora?»

«Io credo di aver scoperta già la direzione esatta presa dalla rhani. Ti dico, sahib, che è uscita dalla città».

«Ha lasciato la capitale!…» esclamò Kammamuri, sussultando. «Allora l’hanno rapita».

«No, avrei scoperte altre tracce sospette, mentre intorno a quelle della principessa non ho osservato che dei piedi volgari di popolani». «Non potresti ingannarti?» «No, sahib».

«Dove sarà andata allora?» chiese il cacciatore di topi, non meno impressionato del maharatto. «Che quel furfante le abbia imposto di nascondersi in qualche foresta?»

«Ritroverei sempre la sua traccia» rispose Timul. «Seguitemi pure: ora non ho più bisogno di fiutare la polvere della via. Mi sono orientato». «Hai una bussola nella testa?» disse Kammamuri.

«Io non conosco quella bestia, sahib» rispose il giovane cercatore di piste. «So che guida le navi che attraversano l’Oceano Indiano, ma non ne ho mai veduta una. Chi lo sa? Può darsi che io abbia dentro il cranio una di quelle bestie. Venite: sono sicuro di non smarrirmi più».

«Uomo straordinario!…» esclamò il cacciatore di topi. «Vale il bramino o paria che sia».

Timul raccolse la sua lanterna e si avanzò abbastanza velocemente attraverso un viale immenso che conduceva verso i bastioni meridionali della capitale. Il ratt cogli zebù seguiva il minuscolo drappello, pure illuminato da due grosse lampade cinesi che proiettavano sulla via strani bagliori sanguigni. Per venti buoni minuti il cercatore di piste continuò a marciare non curvandosi che qualche volta per smuovere la polvere, e giunse finalmente nei dintorni della vecchia pagoda, presso la quale sboccava la grande cloaca.

«I miei sospetti si sono avverati!…» gridò Kammamuri. «Anche senza questo impareggiabile cercatore di piste, io sarei riuscito a trovare la rhani». «Non ti comprendo, sahib» disse il cacciatore di topi.

«Io sono quasi certo che il bramino ha imposto alla rhani di andarsi a nascondere in qualche luogo ignorato fors’anche da te, nelle cloache».

«Ignorato da me!… Ah, no, sahib!… Ho cacciato i topi per dieci anni e conosco tutti i passaggi come tutte le rotonde che servono allo scolo delle acque. Se si trova là dentro, la troveremo come puoi essere certo». «E se il bramino le avesse imposto di gettarsi dentro il fiume fangoso?»

«Non spaventarmi, signore» disse il baniano, il quale era diventato grigiastro. «No, no, non è possibile». «Noi non abbiamo ritirate tutte le scale, è vero?» «No, i passaggi esistono ancora fra le due rive». «E se fosse caduta?» «Le persone magnetizzate camminano come noi e senza correre alcun pericolo».

Timul si era fermato dinanzi alla vecchia pagoda, presso la quale sboccava il fiume fetente e fangoso.

«Sahib» disse guardando Kammamuri con due occhi strani. «Questa immensa apertura che rovescia delle acque puzzolenti, dove mette?» «Nelle cloache». «Le conosci tu?» «Le conosce passo per passo il baniano che vi ha soggiornato per anni ed anni». «Ebbene, la rhani è entrata sotto quella volta tenebrosa». «Qui non vi è più polvere, Come fai a saperlo?» «Io la sento» rispose laconicamente il giovane. «Siamo stati degli stupidi» disse Kammamuri, lanciando un pugno in aria. «Perché, sahib?» «Avremmo dovuto condurre con noi i due molossi del Tibet». «Forse che non basto io? Io forse sento più di loro».

Riattizzarono le lampade e si introdussero sotto l’immensa arcata carica di miasmi, seguendo la riva sinistra del fiume nero e fangoso. Timul avanzava ora con maggior precauzione, Si curvava più di frequente sulla larga banchina di pietra, e pareva riflettere a lungo. Esitava? Forse no, ma fra quella oscurità intensa e quei miasmi si sentiva come sperduto.

«E dunque, Timul?» chiese Kammamuri, vedendolo arrestarsi per la decima volta. «Hai perduto la pista?» «No, sahib» rispose il giovane. «Ho sempre la scarpetta della rhani». «E senti sempre?» «Sì, sahib». «Sei un cane umano assolutamente straordinario. Bisogna ammirarti».

Avevano già percorso oltre un chilometro, seguendo sempre il fiume puzzolente, quando si trovarono dinanzi alla scala che il cacciatore di topi, dopo i salti sui tappeti, aveva gettata fra le due rive. Timul si era nuovamente arrestato facendo dei larghi gesti.

«Che cosa c’è di nuovo, dunque?» chiese Kammamuri, armando, per precauzione, le sue pistole a doppia e lunghissima canna. «Hai perduta la traccia forse?» «Vi è un gradino rotto» rispose Timul, il quale pareva assai preoccupato. «Nella scala?» «Sì, sahib».

«Il bambù è troppo solido per cedere sotto il peso d’una persona» disse il cacciatore di topi. «Quando noi abbiamo attraversata questa scala nessun gradino mancava. Come va questa faccenda? Che ci abbiano preparato qualche tradimento?»

Kammamuri stava per rispondere, quando un colpo di tuono, che si ripercosse lugubremente entro le numerose gallerie, si fece udire.

«Sta per scoppiare un uragano» disse il cacciatore di topi. «Me n’ero già accorto. Affrettiamoci, o se la rhani si trova qui correrà il pericolo di morire annegata». «Ma dove è? Dove è?» gridò Kammamuri, facendo un gesto di disperazione.

«Oh, povero maharajah, che triste notte!… Aveva ragione di rimpiangere sempre la sua Mòmpracem!…»

«Passiamo, non perdiamo tempo» disse il baniano, nel momento in cui rintronava un altro colpo di fulmine, seguito subito da mille strani rumori che dovevano essere prodotti dal vento ormai scatenatosi sulla capitale. Timul si gettò sulla scala e la scosse vigorosamente, per vedere se cedeva; poi rassicurato raggiunse il luogo ove era stato strappato o tagliato il gradino. Tutti i tre uomini, in preda ad una crescente ansietà, si erano messi ad osservare. «È stato tagliato» disse finalmente il cacciatore di topi.

«E da chi?» chiese Kammamuri, che si sentiva bagnare la fronte di grossi goccioloni di sudore. «Che qualcuno di quei miserabili, dopo la nostra ritirata, sia ritornato qui?» «O che sia invece rimasto qui?» «A fare che cosa?» «A terminare forse le provviste abbandonate dagli altri». «Sai che comincio ad avere paura?»

«Nemmeno io sono tranquillo, anche perché quest’uragano rende assai difficili le nostre ricerche. Quando gli acquazzoni si rovesciano, il fiume cresce, e tutte le piccole gallerie, anche quelle che si trovano sopra la grande arcata, vomitano acqua con furia incredibile. Guai a chi non conosce i rifugi!…» «Tu però li conosci?» «Sì, sahib». «E saremo al sicuro là?» «Lo spero». «Una parola vaga, amico».

«Mi ci sono rifugiato tante volte, e come vedi, sono ancora vivo quantunque vecchio».

Avevano attraversata la scala e Timul si era gettato a terra, dopo d’aver fiutata ancora una volta la scarpetta della rhani.

«Sì» disse ad un tratto, risollevandosi di colpo. «La rhani è passata di qui. Dove voleva andare?»

«Domandalo a quel cane di bramino o di paria che sia» rispose il maharatto con voce irata.

«Farla scendere qui!… Voleva dunque perderla fra queste gallerie, perché morisse di fame e di sete?»

«Sì, come lui. Soffre fame e sete e cercava di vendicarsi sulla piccola rhani, il miserabile. Oh, non è ancora morto, e rimpiangerà ben amaramente le sue bricconate e la potenza dei suoi occhi fosforescenti».

Si erano rimessi in cammino sulla larga banchina, tendendo gli orecchi ai grandi fragori che si succedevano sulla superficie del suolo, e che le gallerie ripetevano con maggiore intensità. Vi erano certi momenti, che pareva che tutte le artiglierie della capitale sparassero ad un tempo, tanto era il fracasso.

«Badate che non vi cada qualche masso sulla testa» disse il cacciatore di topi ai suoi compagni. «Quando al di fuori tuona, le vecchie volte qua o là cedono, ed anch’io sono sfuggito miracolosamente, e molte volte, ad una morte sicura».

«Non sono dunque sicure?» chiese Kammamuri, che cominciava già a guardare in alto.

«Sono un po’ vecchie, sahib, ma resisteranno molti e molti anni ancora. I mongoli sapevano costruire».

«Non ti pare che Timul ci guidi nella rotonda dove abbiamo sorpresi i paria ed arrestato il bramino? Io mi ero già immaginato che la rhani dovesse trovarsi in quel luogo. Ci mancherà molto?» «Un quarto d’ora ancora. Il cercatore di piste ora corre».

«Ha paura anche lui dei massi che cadono dall’alto e delle acque, che da un momento all’altro, possono irrompere attraverso alle mille gallerie».

«E ciò preoccupa anche me» disse il cacciatore di topi. «La rotonda sarà certamente l’ultima ad essere inondata, poiché si trova sopra la grande arcata, te lo ricordi, sahib?»

«Io non ho visto che tenebre, e per ciò non ho potuto osservare nulla» rispose il maharatto. «Se tu, che hai abitato qui tanti anni, lo dici, ti credo».

Timul intanto continuava ad affrettare il passo, impressionato anche dai rombi che si propagavano dentro le gallerie come colpi di cannone da marina. Già in certe gallerie che scendevano verso la banchina, si udivano delle acque rumoreggiare. Si raccoglievano per scaraventarsi poi dentro il pigro fiume nero, e dargli un po’ di corsa. Anche dalle volte, di quando in quando, precipitavano dei massi, talvolta di dimensioni enormi, che si spaccavano come se fossero bombe ben cariche di polvere.

Altri dieci minuti erano trascorsi ed i tre uomini correvano sempre, quando la banchina fu invasa bruscamente da un corso d’acqua giallastra carica di sabbie, sbucato dalle piccole gallerie.

«Via!…» urlò il cacciatore di topi. «Stiamo per essere trascinati nel fiume puzzolente».

Si era messo alla testa del minuscolo drappello. Già il cercatore di piste non avrebbe potuto più servire, poiché le orme della rhani dovevano essere distrutte dalle acque che irrompevano con furia crescente. Correvano come nilgò, le antilopi indiane, spiccando dei lunghi salti, quando qualche torrente irrompeva su di loro.

Tutta la immensa città sotterranea scrosciava. Le acque, scese nei raccoglitoi e nelle rotonde cercavano uno sfogo verso il fiume fangoso.

«Non perdetemi di vista o siete perduti!…» gridò il baniano, alzando la lanterna più che poteva. «La rhani non può essere che nella rotonda. Ora ne sono convinto!»

E correvano, correvano, coll’acqua talvolta fino alle caviglie, qualche volta fino ai fianchi, badando di non farsi trascinare fino al fiume fangoso, dal quale non sarebbero certamente usciti più vivi. E le acque rombavano sempre, abbasso, in alto, impazienti di scatenarsi, mentre i tuoni continuavano a succedersi con spaventosa intensità, facendo tremare le vecchie volte della gigantesca galleria.

«Ci siamo!…» gridò ad un tratto il baniano, dopo d’aver spiccato un gran salto al di sopra di un impetuoso torrente, sbucato furiosamente da un condotto laterale.

«Dove?» chiese Kammamuri che faceva sforzi disperati per tenere dietro a quell’indemoniato cacciatore di topi, che correva come un giovanotto di vent’anni. «Alla rotonda dove abbiamo fatto prigioniero il bramino». «Che sia già stata invasa dalle acque?»

«Vi è un condotto che si scarica anche là dentro, tuttavia l’acqua non salirà a tale altezza da annegare una persona». «E se la rhani si fosse addormentata?»

«Ora sei tu, sahib, che vuoi spaventarmi. Dormire con tutto questo fracasso di acque e di tuoni!… Sarà un po’ difficile».

Kammamuri si asciugò per la seconda volta il sudore che gli bagnava la fronte, poi disse con voce spezzata: «Presto!… Presto!…»

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