Capitolo XI – Notte d’angoscia

Sulla capitale l’uragano infuriava sempre con un crescendo spaventoso.

L’India soffre delle lunghe siccità, però come tutte le regioni quasi equatoriali, di quando in quando, si scatenano, e senza che nulla li faccia prevedere, dei cicloni che nulla hanno da invidiare per violenza a quelli delle Antille, che sono così tristamente famosi.

Il cielo, poco prima limpidissimo, si copre improvvisamente di giganteschi nuvoloni dalla tinta biancastra che soffiano vento attraverso i loro squarci. E non sono già raffiche: sono colpi di vento da spaventare accompagnati da scariche elettriche e da tuoni. È sempre ricordato in India il famoso ciclone del 1866. Il cielo era limpidissimo sopra Calcutta, la grandiosa capitale del Bengala, quando con stupore di tutti gli abitanti si oscurò. Un vento terribile si scatenò, insieme alla pioggia ed ai fulmini, respinse le acque dell’Hugly, che è l’ultimo braccio del Gange, ed in un momento trascinò via ben duecento e quaranta navi, fracassandole le une contro le altre ed annegando gli equipaggi che dalla popolazione non potevano avere nessun aiuto. Crollarono quartieri interi, furono rovesciati imponenti palazzi che pareva dovessero sfidare i secoli, portati via come paglie dei porticati immensi. Tutto andò sottosopra, e ventimila persone, fra indiani ed europei, rimasero sepolte fra le rovine, e ben centomila nelle immense pianure che circondano la capitale, poiché nessun villaggio poté resistere alle furie del ciclone.

«Fosse, quest’uragano, scoppiato almeno prima ed avesse spento, colla sua grande massa d’acqua, il fuoco che divorava il palazzo del maharajah» borbottava Kammamuri, continuando a saltare attraverso i torrenti giallastri che irrompevano da tutte le parti rovesciandosi con un fracasso infernale dentro il fiume nero diventato ormai fiume ben scorrente. Vi era il pericolo di prendersi del cholera. Guai se i tre uomini non fossero stati tutti indiani!… Non avrebbero potuto andare molto lontano fra tutti quei profumi asfissianti.

Ed intanto sopra la superficie della terra i tuoni si succedevano sempre, e si propagavano dentro le cloache, con tale intensità, che i tre uomini certi momenti non erano capaci di udirsi.

«L’ultimo!…» gridò ad un tratto, con voce altissima, il cacciatore di topi, raccogliendosi su se stesso come una tigre per varcare un furibondo getto d’acqua che usciva, rumoreggiando sinistramente, da una larga apertura.

«Che cosa l’ultimo?» chiese Kammamuri, preparandosi anche lui al grande salto. «Non vi sono più sfoghi d’acqua dinanzi a noi, sahib».

«Eppure la banchina è invasa, e pare che quest’acqua venga da un luogo posto forse più in alto. Che il rifugio dei paria sia stato inondato?»

Il cacciatore di topi, invece di rispondere, saltò sopra il torrente, sempre agile come se avesse vent’anni, e cadde sano e salvo dall’altra parte.

Kammamuri ed il cercatore di piste, molto più giovani, lo avevano subito seguito, però si erano subito trovati coll’acqua fino alle ginocchia, e quell’acqua usciva dall’ultimo rifugio dei paria e del famoso bramino.

«Tu mi hai detto che un condotto sbocca in quella rotonda, è vero?» chiese Kammamuri, che sentiva il cuore battere forte forte. «Sì» rispose il cacciatore di topi. «Quest’acqua non viene dal rifugio? Guarda come scende!» «Non spaventarti, sahib. La rotonda è in pendenza e si scaricherà subito». «L’uragano non accenna a finire. Si tratta d’un vero ciclone». «Forse è più il fracasso che altro» rispose il cacciatore di topi. «Ah, povero signor Yanez!… Che notte terribile per lui!»

Si erano dati la mano, per meglio resistere alle acque che sboccavano sempre più furibonde dalla rotonda ormai lontana qualche centinaio di passi. Evitarono a gran fatica un altro corso d’acqua che scendeva da una tenebrosa galleria, e si spinsero rapidamente innanzi, tenendo ben alte le lanterne affinché gli spruzzi non spegnessero le candele.

«Ci siamo!…» gridò ad un tratto il cacciatore di topi. «Un ultimo sforzo, e se il cercatore di piste non si sarà ingannato, troveremo la rhani».

Sostenendosi a vicenda, lottando furiosamente colle acque che minacciavano sempre di trascinarli via e di scaraventarli nel fiume puzzolente, entrarono finalmente nella vasta rotonda. Un grido era subito uscito dal petto di Timul. «La rhani!… Non mi ero ingannato!…» «Viva ancora?» chiese Kammamuri, balzando avanti.

«Ma… dove si riposa? Su una enorme tartaruga terrestre, simile a quelle che vivono fra le caverne delle alte montagne dell’Himalaya. Da dove è venuta quella bestia?» «Oh!… Ne ho cacciate molte io» disse il cacciatore di topi.

Tutti e tre si erano precipitati innanzi, senza curarsi delle acque che li investivano e che producevano, entro la rotonda, un baccano assordante, ed avevano subito scoperta la piccola rhani, la quale si era aggrappata ad una testuggine grossa quanto una botte e pesante parecchi quintali.

Nei sottosuoli indiani e nelle caverne delle montagne, non è raro incontrare quei colossali rettili, paurosi d’aspetto, mentre sono affatto innocui, e passano il loro tempo a dormire. Si dice che vivano più di mezzo secolo sempre quasi in uno stato letargico, ciò che non impedisce che ingrassino enormemente. Di che cosa vivono? Chi lo sa? Nei luoghi ove si trovano cibi non si rinvengono, sicché la loro alimentazione è un mistero.

Come abbiamo detto, i tre uomini si erano precipitati sulla tartaruga gigante la quale resisteva tenacemente alla spinta delle acque irrompenti, da un piccolo canale, ed avevano sollevato la rhani.

«Signora!… Signora!…» gridò Kammamuri, mettendosela fra le braccia, affinché non si bagnasse. «Come siete venuta qui?»

La rhani lo fissò con uno sguardo ancora vitreo, e parve che facesse uno sforzo supremo per raccogliere le idee. «Quell’uomo», disse finalmente, «lo ha voluto». «Il miserabile magnetizzatore?» «Sì, lui».

«Ed è stato anche lui, è vero, che vi ha imposto di dare fuoco al palazzo reale?»

«Sì, lui, sempre lui» rispose Surama, con voce stanca. «Oh!… Io ho paura di quell’uomo».

«E non pensavate, Altezza, che potevate bruciare il piccolo Soarez, ed anche il signor Yanez vostro marito?» «Non so… non so… Io dovevo obbedire ed ho obbedito». «E poi, l’infame, vi ha imposto di venire qui a nascondervi?» «Sì». «Come siete giunta senza cadere nel fiume?» «Mi pareva che qualcuno mi guidasse e che talvolta mi sorreggesse».

«Che cos’ha dunque quel vile sciacallo nei suoi occhi?» urlò Kammamuri, digrignando i denti. «Anche questa storia finirà, perché anche l’altro occhio glielo spegnerò io con un colpo di spillo».

La rhani si era abbandonata fra le sue braccia come fosse stata presa da una specie di assopimento, però le sue palpebre erano rimaste alzate.

«Possiamo andare?» chiese Kammamuri, rivolgendosi al cacciatore di topi il quale si era seduto insieme con Timul sul dorso della tartaruga.

«È troppo tardi, sahib!» rispose il baniano. «Dovremo aspettare che tutta quest’acqua si sfoghi, o verremo trascinati tutti nel fiume nero senza alcuna speranza di salvarci». «E l’uragano continua!…»

«Purtroppo, sahib» risposero i due uomini, abbandonando i loro posti e tornando ad immergersi nelle acque fino alle anche. «È un ciclone questo?»

«È straordinario, sahib» disse il baniano. «Di solito hanno lieve durata, mentre questo non accenna a finire. Sali sulla tartaruga e farai riposare meglio la rhani. Questa brava bestia non si muoverà».

Kammamuri montò sul dorso dell’enorme rettile mettendosi sulle ginocchia la rhani sempre assopita.

Dalla piccola galleria, quantunque non fosse larga più di mezzo metro così in altezza come in larghezza, le acque giallastre continuavano ad irrompere e cominciavano a non trovare più sfogo verso l’uscita, incontrandosi probabilmente con altri torrenti che si rovesciavano nel fiume nero.

Il baniano, pratico delle fogne, cominciava ad inquietarsi, poiché vedeva le acque della rotonda salire a poco a poco, ed il ciclone non cessava!… Rombi spaventevoli si propagavano dentro le cloache scuotendo le vecchie volte che pure resistevano da due o tre secoli. Dei franamenti enormi dovevano avvenire lungo le due banchine.

«Che cosa guardi?» chiese Kammamuri, vedendo il baniano abbassarsi e rialzarsi subito facendo un gesto di collera.

«L’acqua sale, sahib» rispose il cacciatore di topi. «Non trova sfogo sufficiente. Noi siamo già immersi fino ai fianchi». «Vi è posto per tutti sulla testuggine» rispose Kammamuri. «Volete salire?» «C’è tempo, sahib: non abbiamo ancora l’acqua fino alla gola». «E temi che il livello aumenti ancora?»

«Non so che cosa dire, sahib. Bisognerebbe che il ciclone si spezzasse, mentre l’odo sempre rombare più intensamente che mai. Ah!… La notte spaventosa!…»

«Che anneghiamo?»

«Vi è la tartaruga, e questa galleggerà e ci porterà senza troppa fatica. Io ringrazio Dio che l’ha mandata qui, e così a tempo, poiché prima non vi era». «Infatti, io non l’ho veduta, e poi i paria l’avrebbero mangiata». «Ne avrebbero fatto un arrosto colossale, sahib». «Aumenta l’acqua?»

«Sì, aumenta» disse Timul, il quale si era aggrappato all’enorme rettile, per resistere alla spinta delle acque. «E anche…» Aveva mandato un grido acuto. «Che cos’hai?» chiese il baniano. «Mi si morde».

«Sono i topi che le acque travolgono. Ecco un altro pericolo che io non avevo previsto, poiché quei roditori vanno sempre a truppe immense».

«Montate sulla tartaruga!…» comandò Kammamuri. «Qui siamo come sopra un piccolo scoglio!…»

I topi cominciavano a giungere nuotando disperatamente, ed essendo sempre affamati, avevano subito tentato di gettarsi sulle gambe dei due indiani, ben disposti a roderle fino all’osso.

Erano topacci bruni, lunghi quasi un piede, cogli occhi nerissimi e scintillanti, i baffi irti, pericolosi quasi quanto i caimani se raccolti in buon numero.

«Badate alle lampade!…» gridò Kammamuri, il quale reggeva sempre la rhani. «Se si spengono siamo perduti».

«Ho portato con me delle candele di ricambio» disse il baniano. «E poi avremo luce ancora per parecchie ore. Non aver paura, sahib».

Aveva impugnato il tarwar, la piccola sciabola ricurva usata dai rajaputi e da quasi tutti gli indiani delle regioni settentrionali, e si era messo a decapitare, con una maestria ed una precisione meravigliosa, i piccoli nemici che tentavano anche loro di cercare rifugio sul largo dorso del rettile. Timul, quantunque non fosse mai stato cacciatore di topi, lo secondava, facendo volare teste a destra ed a sinistra.

La tartaruga intanto aveva ritirata la testa, le zampe e la coda per non farsi divorare viva, però, essendosi abbassata, poteva correre il pericolo di morire asfissiata, non potendo quelle bestie rimanere immerse più di cinque o sei minuti. È vero che, di quando in quando, poteva allungare il collo, abbastanza lungo, per farsi la sua provvista d’aria. L’assalto dei topi cominciava a diventare inquietante. Dalla piccola galleria di scarico giungevano a battaglioni, mandando strida acute, e si gettavano furiosamente contro il rettile, che rappresentava per loro la salvezza prima e poi una scorpacciata colossale di carne viva. I due tarwar del baniano e del giovane cercatore di piste però lavoravano senza posa, per impedire che giungessero fino alla rhani e fino a Kammamuri che non poteva muoversi. Le teste continuavano a saltare, e con una rapidità prodigiosa, specialmente da parte del baniano, già vecchio del mestiere. «E dunque, non ci lasceranno in pace?» chiese Kammamuri.

«Non preoccuparti, sahib» rispose il baniano, il quale continuava a tagliare e sventrare. «Non toccheranno né la rhani né te. Piuttosto ci faremo mordere noi».

«Anche queste canaglie, oltre l’acqua!… E dopo? Verrà giù la volta e ci schiaccerà tutti?»

«È troppo solida, questa, sahib. Di quella del fognone non risponderei forse, ma di questa sì». «E non poter uscire!… Con quale ansietà ci aspetterà il maharajah!…»

«Il ciclone infuria pure sulla capitale, e potrà aver compreso che noi abbiamo trovato degli ostacoli. Timul, affrettati!… Stanno per divorarci!…»

Un altro battaglione di topacci si era rovesciato nella rotonda, e si era rovesciato all’assalto. Furono ricevuti con otto colpi di pistola che li fecero subito indietreggiare e poi decidere a seguire la corrente e farsi portare via verso il fiume nero, il loro vero posto.

«Avremo un po’ di sosta» disse il baniano, il quale conservava un ammirabile sangue freddo. «Come va la rhani, sahib?» «Dorme sempre, se pur si tratta d’un vero sonno». «Non ha ancora aperti gli occhi?» «No, sono sempre chiusi». «Batte il suo cuore?» «Sì, e anzi violentemente». «Non è fredda?» «No, niente affatto. È tiepida come una colomba». «Allora tutto va bene. Noi la rhani la salveremo a qualunque costo». «Ma non possiamo uscire». «Aspettiamo… chissà, anche le acque si sfogheranno e noi potremo andarcene».

Il baniano parlava con grande calma, e continuava a decapitare topi, sempre validamente aiutato dal giovane cercatore di piste. Le maligne bestie però non giungevano più in grossi gruppi, e cercavano subito di andarsene. Solamente i più affamati si provavano ancora ad assalire la colossale testuggine, facendosi inutilmente massacrare dai tarwar.

Trascorse un’altra mezz’ora durante la quale il tuono non cessò di rombare, poi il livello dell’acqua, già tanto alto da minacciare di soffocare il grosso rettile, si abbassò bruscamente.

«Che cosa è avvenuto?» chiese il maharatto, che si era subito accorto di quella calata.

«Io credo che l’acqua che esce da questa rotonda non sia più ostacolata da qualche torrente che doveva tagliarle il passo» rispose il baniano. «Io comincio a sperare di uscire da qui molto presto, sahib. Ecco, anche i tuoni sono cessati».

«Il ciclone deve essersi spezzato» disse Timul, il quale sorvegliava le lanterne perché gli spruzzi d’acqua non spegnessero le candele. «Ed il fiume puzzolente sarà gonfio?» chiese Kammamuri.

«Certo» rispose il cacciatore di topi, decapitando un paio di rosicchianti che avevano tentato di saltare sul dorso della tartaruga. «Potremo attraversarlo?» «Non vi è la scala?» «E se fosse stata portata via? Dobbiamo pensare a tutto». «Non credo. Le due rive sono abbastanza alte, sahib».

«L’acqua cala!… Cala!…» gridò in quel momento Timul «Dal condotto non ne esce quasi più».

Anche la tartaruga si era accorta di non correre più il pericolo di affogare, poiché puntando le robuste zampe aveva cercato di dirigersi verso l’uscita, ma aveva dovuto ben presto cedere. Il carico da trascinare era troppo enorme.

«Te ne andrai più tardi, brava bestia» disse il baniano. «Noi non ti faremo alcun male, poiché ti dobbiamo della riconoscenza».

Saltò giù dal guscio e constatò con viva gioia, che l’acqua non gli giungeva più che fino alle ginocchia.

«Mi pare che sia giunto il momento di tornarcene alla superficie del suolo. Vuoi che ti aiuti, sahib, tu che porti la rhani?»

«Non ne ho bisogno» rispose Kammamuri, calandosi a sua volta con grandi precauzioni. «Occupatevi solamente della mia lampada che io non posso portare».

Diedero un ultimo sguardo al gigantesco rettile, che si era messo nuovamente in moto girando intorno alla rotonda, e raggiunsero il canale di scarico, inoltrandosi sulla banchina.

Dentro il fognone si udiva un fragore enorme di acque. Il fiume nero, straordinariamente ingrossato, aveva gettato via la sua pigrizia e scorreva turbinoso, frangendosi e rifrangendosi rabbiosamente contro le due rive. Odori pestilenziali, quasi asfissianti, si alzavano, invadendo tutte le cloache. I tre indiani affrettavano il passo, ansiosi di giungere là dove avevano lasciata la scala, però, di quando in quando, erano costretti a rallentare, in causa di piccole frane cadute dalla vecchia volta e che avevano ingombrata qua e là la banchina.

Dai canali di sfogo continuavano a riversarsi torrenti d’acqua fangosa, non più coll’impeto furibondo di prima, sicché non davano troppe noie ai fuggiaschi i quali si tenevano sempre ben lontani dal fiume nero, e sempre uno dietro l’altro, per essere pronti ad aiutarsi a vicenda.

Come sempre, il cacciatore di topi teneva la testa, e prima di avanzarsi ascoltava il rumoreggiare delle acque, temendo qualche nuova e più violenta inondazione. Kammamuri veniva dopo colla rhani, la quale non si era ancora risvegliata. Ultimo il cercatore di piste, che ormai non aveva più nulla da cercare.

Corsero, con qualche piccola sosta, una buona mezz’ora, e finalmente giunsero là dove si trovava la scala. Le acque del fiume nero non si erano alzate tanto da poterla portare via.

«Ecco una grande fortuna» disse il cacciatore di topi. «Se questo passaggio ci mancava eravamo perduti».

«Farà un po’ caldo ad attraversare questo fiume puzzolente, che esala odori così afissianti» disse Kammamuri. «Tutta quest’acqua muggente spaventa».

«Vuoi darmi per un momento la rhani, sahib? Io sono più pratico di te in queste traversate». «No, io solo la porterò e la consegnerò al maharajah».

«Lascia allora, sahib, che ti preceda colla lanterna. Non dimenticare che manca un gradino». «Non l’ho scordato. Era anzi quell’apertura che mi preoccupava». «Sarò io là pronto ad aiutarti».

Il cacciatore di topi invece di una lampada ne prese due, e si avanzò intrepidamente sulla lunga scala, niente affatto impressionato dal terribile rombo delle acque lanciate a corsa sfrenata. Oh, ne aveva veduto lui delle inondazioni entro quelle immense cloache, e quante volte si era salvato per un puro miracolo.

La pericolosa traversata fu compiuta in meno d’un minuto, ed i tre uomini colla rhani si trovarono sull’altra banchina che conduceva allo sbocco del gran canale, presso la vecchia moschea in rovina.

«Siamo finalmente salvi!…» gridò il baniano. «Scappiamo prima che il fiume straripi».

Si slanciarono a tutta corsa, saltando via, di quando in quando, dei massi di dimensioni sovente enormi, caduti dalla gran volta, da tutto quel rimbombo di tuoni, e scorsero un po’ di luce. Al di fuori albeggiava, ed il ciclone, come si era rapidamente formato, altrettanto rapidamente si era sciolto, non senza aver recato gravi danni ai quartieri poveri, le cui capanne erano state portate via come se fossero fuscelli di paglia. «Il ratt!…» gridò il baniano. «Il ratt!…»

Il bravo conduttore degli zebù non si era affatto allontanato. Si era rifugiato sotto un porticato col suo carro e coi suoi animali, ed aveva atteso pazientemente i cercatori della rhani. «Vi credevo morti» disse conducendo subito fuori il ratt.

«Mentre, come vedi, siamo tornati colla rhani» rispose Kammamuri, salendo sulla graziosa vettura e cacciandosi sotto la cupoletta. «Via!…»

E gli zebù partirono a corsa sfrenata, sbuffando e muggendo, mentre le tenebre cominciavano a diradarsi rapidamente. Fu una volata fulminea, poiché il conduttore, non contento di punzecchiare i poveri animali, torceva crudelmente la coda ai due che erano più vicini al carro.

«Ci siamo» disse Timul, mentre parecchi rajaputi stavano per precipitarsi verso di loro, colle carabine puntate. «Largo a me!…» gridò Kammamuri. «Vi porto la rhani. Dov’è il maharajah?»

«Presso i prigionieri, sahib» rispose il comandante della compagnia, facendo cenno ai suoi uomini di aprire le file. «Sahib» chiese il cacciatore di topi. «Dobbiamo seguirti?» «Per ora no. Se avrò bisogno di voi vi manderò a chiamare».

Si strinse ben bene fra le braccia la rhani e si precipitò dentro il bungalow, passando subito nella sala pianterrena, dove si trovavano i due prigionieri e che era ancora illuminata. Yanez, che stava interrogando, aiutato da Tremal-Naik, il vecchio paria, udendo la porta aprirsi con fracasso, si volse e mandò un grido altissimo.

«Mia moglie!… La mia Surama!… Ah!… Grazie, Kammamuri!… Io cominciavo già a disperare».

Gliela prese dalle braccia, se la strinse al petto e le stampò un bacio in fronte. Al contatto di quelle labbra, la rhani aprì gli occhi e li fissò sul suo sposo.

«Mia Surama!…» esclamò il maharajah, stringendosela al petto. «Dove sei stata? Che cosa ti hanno fatto che sei tutta inzuppata d’acqua? Hai voluto sfidare il ciclone?»

La rhani non rispose. Si guardava intorno, ed attratta da una forza misteriosa, arrestava sempre i suoi occhi sul letto sul quale rantolava il bramino, sempre ben assicurato da robuste corde.

«Per tutti gli dèi dell’India, parla, Surama!…» gridò il portoghese con voce quasi imperiosa. La rhani gli strinse le braccia intorno al collo, poi disse con voce fioca: «Ah!… L’orribile sogno!… È vero che ho sognato, mio signore?»

Kammamuri fece al portoghese un cenno negativo. Non aveva già sognato la povera rhani dell’Assam!

«Oh!… L’orribile sogno!…» ripeté Surama rabbrividendo tutta, e stringendosi sempre più al collo del portoghese. «Quant’acqua ho veduto correre… e poi sono passata attraverso una scala… e poi ho trovato una enorme bestia, una tartaruga». «Hai sognato!» disse Yanez. «Ma sì, mio signore. Come potrei trovarmi qui?» «E non avete veduto, in sogno, anche Kammamuri?» chiese Tremal-Naik.

«No… no… non l’ho veduto, ma mi pareva di udirlo, in lontananza, minacciare il grosso rettile affinché non mi facesse male». «Sei stanca, mia povera Surama, è vero?» chiese Yanez.

«Sì, mio signore, e vorrei riposare qualche ora a fianco del nostro piccolo Soarez».

«La nutrice del piccino ti cambierà, poiché sei tutta bagnata, e ti addormenterà cantandoti qualcuna delle tue canzoni favorite. Vieni, mia piccola rhani: noi abbiamo ancora da fare qui».

Tenendola sempre ben stretta uscì da un’altra porta che metteva negli appartamenti reali, mentre Kammamuri informava rapidamente il suo padrone di quanto era avvenuto. Un minuto dopo il maharajah era di ritorno. Il suo viso era alterato da una collera concentrata, ed i suoi occhi, ordinariamente calmi, mandavano lampi. «Non ha sognato, è vero, Kammamuri?» chiese.

«No, signore, l’abbiamo trovata nella rotonda prima occupata dai paria, aggrappata ad una gigantesca tartaruga». «È dunque sempre quel cane di bramino che le impone la sua volontà?» «Così deve essere».

«Che cosa fare?» chiese Yanez guardando Tremal-Naik, il quale appariva assai preoccupato.

«Se io fossi te, accecherei completamente il miserabile» rispose l’indiano. «Spenti gli occhi anche il fluido misterioso cesserà di agire». «Ma io non voglio che muoia quell’uomo» disse Kammamuri.

«Si può vivere anche senza occhi» rispose freddamente Tremal-Naik. «D’altronde il vecchio paria ha confessato abbastanza, quantunque ci manchi sempre il nome dello sconosciuto che sta per scatenare qui una grossa rivoluzione». «Quel nome lo conosce solo il bramino, padrone?» «Sì, Kammamuri».

«Ed allora bisogna che viva ancora, In quanto all’occhio se ne vada pure. Anche senza vederci può parlare».

«Ah, no» disse Yanez. «Che prima svegli Surama. Avrei paura che mia moglie dovesse rimanere sempre sonnolente ed in preda ancora a volontà incomprensibili». «Hai ragione, Yanez» disse Tremal-Naik. «Prima tolga il magnetismo». «Lasciate fare a me allora» disse Kammamuri. Si avvicinò al letto su cui giaceva il bramino o paria che fosse.

Il disgraziato, sfinito dal sonno, dalla fame, e soprattutto dalla sete, si trovava in uno stato deplorevole. L’unico occhio però mandava ancora quei lampi misteriosi, tentando di affascinare anche i tre uomini. Kammamuri prese da una mensola una bottiglia di birra ed un grosso bicchiere, e la stappò davanti al prigioniero, dicendogli: «Se tu imponi alla rhani di svegliarsi, vuoterai questa tazza».

Un sibilo rauco uscì dal petto del prigioniero, ed il suo occhio parve aumentare la sua strana luce. «Mi hai capito?»

Il bramino, che non poteva più resistere all’atroce sete, fece un cenno affermativo. «Comanda dunque alla rhani di alzarsi». «Sì… fat… to…» rantolò.

«Signor Yanez», disse Kammamuri, «andate ad accertarvi. Non mi lascerò ingannare da quest’uomo». Il portoghese uscì quasi correndo, e poco dopo tornava col volto ilare.

«L’incanto è stato spezzato» disse. «Surama è già in piedi e non ricorda più nulla. Da’ da bere a questo miserabile».

Kammamuri accostò la tazza alle labbra del prigioniero, già tutte nere e screpolate, e glielo vuotò in gola. Un vero urlo di belva soddisfatta squarciò il petto del bramino. «Stai meglio ora?» chiese Kammamuri, empiendo ancora il bicchiere. «Ancora… ancora…» «Sì, se però ci dirai per conto di chi agiscono i paria». «Non… lo… so…» «Se sappiamo che eri il loro capo!…» «Chi… lo… ha… detto?…»

«Quel vecchio cacciatore di coccodrilli che sta legato sull’altro letto, e che tu devi ben conoscere» continuò il maharatto. «Quel… cane…» «E ci ha anche detto che tu agivi per conto di Sindhia, l’ex rajah».

Il bramino mandò un vero urlo, e volgendosi verso il vecchio, il quale assisteva impassibile a quella scena, dopo d’aver raccolte tutte le proprie forze mugolò: «Traditore!…»

«Ah!… Ti sei finalmente tradito!…» gridò Yanez, quasi balzando addosso al miserabile. «Ora non negherai più di essere stato tu ad avvelenare i miei ministri. Bagnagli la gola perché possa parlare meglio, mio bravo Kammamuri».

Il maharatto fu pronto a obbedire, ed il prigioniero, divorato da una sete diventata ormai quasi inestinguibile, vuotò avidamente il secondo bicchiere. «Confessi ora?» gli chiese Yanez, impugnando una pistola.

«Mi hanno… tradito… i vili!…» urlò il bramino con un tono di voce che più nulla aveva di umano. «È inutile… che ora neghi… lavoro per Sindhia… e sono stato io ad avvelenare i tuoi ministri… colla bava del bis cobra. Ora… puoi uccidermi… non posso più resistere… ho sonno».

«Vuota prima tutta la bottiglia» disse Kammamuri. «Più tardi ti daremo da mangiare finché vorrai ed avrai altra birra». «E poi… mi ucciderete… è vero?…»

«Né io né la rhani abbiamo ancora decisa la tua sorte» disse Yanez con voce grave, riponendo l’arma nella larga fascia di seta. «Tu, forse, potrai vivere, anche se hai un occhio solo, e diventare ancora ricco, poiché io saprò pagarti meglio del rajah, te lo assicuro. Le casse dello stato sono perfino troppo piene di rupie e di mohr».

«Tu, Altezza… non manterrai le tue promesse… d’altronde della vita non m’importa». «Confessa che sei un paria e non un bramino». «Sì, sono un paria, ma figlio d’un capo famoso».

«Che deve essere stato birbante come te, se non di più» disse Tremal-Naik, il quale stava presso al vecchio per impedirgli di parlare e di scolparsi di quel tradimento che non aveva commesso. «Era un gran capo». «Di ladri!…» gridò il vecchio, che non poteva più starsene zitto.

«Anche i ladri formano una casta in India», disse Yanez, «e non vengono considerati dappertutto come dei famosi furfanti. Ciò d’altronde non ci interessa. Ora ne sappiamo abbastanza e pel momento non ci rimane che di fare una visita alla pagoda di Kalikò con un buon nerbo di rajaputi». «Kalikò?» chiese Kammamuri.

«Il vecchio, durante la tua assenza, ci ha dato delle indicazioni preziose e sappiamo dove sorprendere i capi di Sindhia». «È fuggito dunque il rajah?»

«Questo lo dovrai verificare tu. Prima che il sole tramonti partirai e ti recherai in quella città. Mi preme anche che tu ci vada per spedire a Sandokan un telegramma cifrato, per farlo accorrere il più presto possibile con qualche centinaio di malesi. Solo quando vedrò quell’uomo mi sentirò un po’ sicuro». «Eppure tutto il paese sembra calmo, signor Yanez».

«Ah, sì, sembra. Due ore fa abbiamo ricevuto un telegramma da Silkar che quella popolazione è improvvisamente insorta ieri, col pretesto di non voler più pagare le tasse, ed ha abbattuto le insegne della rhani, senza osare, finora, inalzare quelle di Sindhia». «E la guarnigione?»

«Passata a fil di spada. Laggiù noi non abbiamo nemmeno più un soldato per far rispettare il carro dello stato».

Yanez trasse una sigaretta, l’accese colla sua solita flemma, aspirando rapidamente un paio di boccate, poi disse:

«Sindhia vuole misurarsi con me e scatenare nuovamente la guerra fra queste popolazioni che io ho cercato di civilizzare in tutti i modi. Sia!… Vedremo se rimarrò ancora qui trionfante accanto alla mia piccola rhani ed a mio figlio, o se sarò costretto a tornarmene in Malesia. Veramente là mi annoiavo assai meno di qui». Si passò una mano sulla fronte e parve riflettere.

«Non c’è altro da fare» disse poi. «Abbiamo venti elefanti e guerrieri pronti a farsi uccidere per noi, e poi, e dopo di loro ci saranno i montanari di Sadhja, che mi hanno così valorosamente aiutato a dare alla rhani la corona che le spettava». Kammamuri gli additò il prigioniero facendo un gesto minaccioso.

«No», disse Yanez «quell’occhio può esserci utile. Io credo che quell’uomo si deciderà, mediante una buona somma, a mettersi ai nostri servigi. Lascia quindi in pace il tuo tarwar, tigre dei maharatti. Il cacciatore di topi e Timul sono giunti con te?» «Sì, signor Yanez. Credo che siano insieme al rajaputo che vi avevo lasciato».

«Vengano a sorvegliare questi uomini, e tu sali nel mio salotto dove la colazione del mattino deve essere già pronta. Malgrado il ciclone i cuochi non sono stati inoperosi. Per Giove!… Erano tre mesi che non cucinavano più per me e per la rhani».

«Ebbene, vuoi un consiglio?» disse Tremal-Naik. «Vuota bottiglie sigillate e non mangiare che uova».

«Allora lasceremo che la tiffine se la mangino i due cani del Tibet. Avevo dimenticato il pericolo. Andiamo: l’alba è sorta e la notte è stata lunghissima ed assai angosciosa. Prepareremo, fra un uovo e l’altro, il nostro piano di battaglia».

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