LA CACCIA AL CONTE DI VENTIMIGLIA

CAPITOLO XIII

 

 LA CACCIA AL CONTE DI VENTIMIGLIA

 

 Cominciava ad annottare, quando quattro cavalieri che montavano dei bellissimi destrieri andalusi, piccoli di statura, però robustissimi, colle zampe secche e nervose, la testa leggiera ed il ventre stretto, uscivano dalla porta di Siviglia, la piú bella delle sei che contava allora Panama.

 Avevano spada e pistole alla cintura, archibugio appeso all’arcione e le fonde ben gonfie, contenenti probabilmente dei viveri e delle munizioni da guerra.

 Erano il conte ed i suoi tre spadaccini, i quali, dopo essersi provveduti di cavalli e d’armi da fuoco, avevano abbandonato frettolosamente la fonda della bella castigliana per gettarsi sulla via di Guayaquil, prima che venisse loro tesa qualche nuova imboscata da parte del marchese e di don Juan de Sasebo.

 Attraversato il ponte levatoio senza che le guardie vigilanti all’entrata e all’uscita della galleria aperta attraverso il bastione dessero loro alcun impaccio, allentarono le briglie e lanciarono i cavalli al galoppo attraverso la silenziosa campagna.

 Mendoza che già conosceva benissimo quasi tutto l’istmo di Panama che aveva attraversato con Morgan alcuni anni prima, si era subito messo alla testa del drappello, poiché i suoi compagni non sapevano dove si trovasse Guayaquil.

 – Signor conte – disse il guascone, il quale già non poteva star zitto cinque minuti. – Che questa volta riusciremo finalmente? Vostra sorella ci ha fatto correre un bel po’.

 – Io spero di non ritrovare piú sulla mia via né il marchese di Montelimar, né don Juan de Sasebo – rispose il signor di Ventimiglia, il quale, quantunque la sua ferita gli desse non poca noia si manteneva magnificamente in sella.

 – Preferireste trovare invece la buona marchesa? – disse il guascone.

 – Ah, quella sí e ben volentieri, – rispose il conte. Non l’ho mai dimenticata.

 – La rivedrete prima di lasciare l’America?

 – Non farò ritorno in Europa senza prima salutarla.

 – Ed esporvi a qualche nuovo pericolo.

 – A quale, don Barrejo?

 – A quello del matrimonio.

 – Diavolo d’uomo! – esclamò il conte, ridendo. – Vedete bene lontano voi.

 – Sarebbe uno splendido partito, signor conte.

 – Lasciate andare e occupiamoci per ora del marchese. È lui che. in questo momento rappresenta il piú grave pericolo. Sapete che un dubbio mi tormenta da quando sono montato a cavallo?

 – Che quel meticcio mi abbia ingannato? Non lo credo, signor conte, parlava troppo seriamente e poi si sa che il vino fa dir sempre la verità e ne aveva bevuto l’amico ricciuto.

 – Non è ciò che mi tormenta: sono anzi certissimo che mia sorella si trovi a Guayaquil. È un bel po’ che i filibustieri di Grogner e di Raveneau de Lussan minacciano Panama, quindi credo benissimo che abbiano mandata mia sorella in quella città, per sottrarla ai pericoli d’un saccheggio.

 – E allora che cosa temete?

 – Che quel meticcio, per vendicarsi del brutto tiro giuocatogli abbia narrato ogni cosa al marchese ed a don Juan.

 – Tonnerre!…Voi mi avete cacciato una pulce in un orecchio, signor conte. Non avevo pensato a questo.

 In tal caso un inseguimento sarebbe probabile.

 Abbiamo però un buon vantaggio e dei buonissimi cavalli, che ho scelto con molta cura. Quello stupido, con tutto quel vino che aveva bevuto, non può essersi svegliato tanto presto. Forse dorme ancora, mentre noi invece galoppiamo.

 – E spingeremo sempre piú forte. Mi preme giungere a Guayaquil prima che possa giungervi il marchese.

 – Quando vi saremo?

 – Domani sera, mi ha detto Mendoza.

 – Fors’anche prima, signor conte, – disse il basco, che si teneva sempre dinanzi, mentre don Ercole formava la retroguardia.

 – Affretta piú che puoi.

 – E la vostra ferita non s’inasprirà?

 – Non occupartene, – rispose il corsaro. – Si rimarginerà piú tardi.

 I quattro cavalli continuavano intanto la loro rapidissima corsa, essendo la strada in ottimo stato e anche molto ampia.

 Lungo i margini magnifici, i filari di enormi palme si stendevano senza interruzione, mentre al di là apparivano delle splendide piantagioni d’indaco e di zucchero.

 A mezzanotte il conte fece mettere i cavalli al passo, per non stancarli troppo, poi verso il tocco ripresero il galoppo, mentre la luna appariva dietro le piante che coronavano una collina.

 Avevano percorso cosí un paio di leghe, senza aver incontrato anima viva, quando Mendoza che aveva l’udito piú acuto di tutti, arrestò bruscamente il suo andaluso, dicendo:

 – Fermi tutti!…

 – Avete veduto qualche gattaccio? – chiese il guascone.

 – Non scherzate, don Barrejo: questo non è il momento.

 Stettero in ascolto e parve loro di udire un lontano fragore.

 – Il galoppo di parecchi cavalli? – chiese il conte, con una certa inquietudine.

 – O è invece il rombo d’una cascata? – disse don Barrejo.

 – A me sembrano cavalli – rispose Mendoza.

 – Che il marchese ci dia la caccia? – domandò il conte.

 – Cosí presto? – disse il guascone. – Poteva aspettare almeno l’alba e starsene comodamente a letto. Che sia un nottambulo costui?

 Tornarono ad ascoltare e ben presto si convinsero che non si trattava d’una cascata, bensí d’un buon numero di cavalli galoppanti sulla strada di Guayaquil.

 – Dobbiamo dare battaglia signor conte? – chiese il guascone, il quale era sempre pronto a menare le mani od a sparare archibugiate.

 – Preferirei cercare un rifugio e lasciar passare il marchese, – rispose il signor di Ventimiglia.

 – E dopo? Se entra in Guayaquil prima di noi, non so se noi potremo poi fare altrettanto. Io vi proporrei di tendergli una imboscata e di fucilare per bene i suoi uomini.

 – E farci prendere? – disse Mendoza. – Non avrà già con sé quattro o cinque uomini di scorta. Si direbbe dal fragore che giunge fino a noi, che è un intero squadrone quello che galoppa.

 – Gettiamoci in mezzo alle piantagioni, – propose don Ercole.

 – Non sono le canne abbastanza alte per nasconderci e poi la luna sorge, – rispose il conte. – Se vi fossero delle macchie!

 – Ah!… Il ponte del diavolo! – esclamò in quel momento Mendoza. – Signor conte, a gran carriera.

 Senza chiedere nessuna spiegazione lanciarono i cavalli ventre a terra, divorando lo spazio con fantastica rapidità.

 Quella corsa furiosa durò una buona mezz’ora, poi Mendoza la rallentò, dicendo:

 – Ci siamo.

 Cinquanta passi piú innanzi vi era un ponte in muratura; assai largo, gettato su un fiume poverissimo d’acqua.

 Mendoza balzò a terra, prese il cavallo per le briglie e s’avanzò rapidamente verso la riva, dicendo:

 – Seguitemi, signor conte.

 – Perché vuoi farci guadare il fiume? – chiese il corsaro.

 Nemmeno sull’altra riva vedo delle macchie bastanti per nasconderci.

 – E la vôlta del ponte, non la contate?… I cavalieri che c’inseguono ci passeranno sopra, senza minimamente sospettare che quelli che cercano si trovano invece sotto.

 – Ohé, compare, diventate molto furbo, a quanto pare, – disse il guascone.

 – Sono anch’io del mar di Biscaglia. Affrettiamoci, signori, anche gli spagnuoli avranno udito il nostro galoppo e avranno precipitata la corsa.

 Scesero la riva e condussero i cavalli sotto il ponte, immergendosi nell’acqua fino alle ginocchia.

 – Avvolgete le teste dei nostri corsieri nelle gualdrappe, – disse il conte. – Potrebbero nitrire e tradirci.

 I tre spadaccini furono lesti ad obbedire.

 Il galoppo dei cavalli intanto diventava di momento in momento piú fragoroso.

 Gli spagnuoli dovevano aver udito anche quello prodotto dai cavalli dei fuggiaschi e si erano pure lanciati ventre a terra.

 Il conte e Mendoza si erano nascosti dietro la pila del ponte, per meglio accertarsi con chi avevano da fare, mentre il guascone ed il fiammingo trattenevano con mano salda i quattro corsieri.

 – Non devono essere lontani piú di mezzo miglio, – disse il signor di Ventimiglia al fedele basco. Credi tu che sia proprio il marchese?

 – Scommetterei dieci dobloni contro una piastra, signore. Don Barrejo ha fatto male a lasciare libero quel meticcio.

 – Volevi tu che lo scannasse in pieno giorno?

 – Poteva aspettare la sera e portarlo via.

 – A tutto non si pensa sempre… eccoli… non ti far vedere.

 Il mezzo squadrone del marchese di Montelimar, perché era proprio quello che don Juan de Sasebo gli aveva affidato, giungeva a corsa sfrenata, con un fracasso indiavolato.

 Il conte udí distintamente il marchese a gridare:

 – Spronate sempre: non devono essere lontani.

 I cinquanta cavalieri passarono come un uragano sul ponte e scomparvero in mezzo ad un fitto nuvolone di polvere.

 – Grazie, Mendoza, – disse il conte, battendo sulle spalle del basco. – Tu ci hai salvati.

 – Senza dare un colpo di spada né sparare una pistolettata – rispose il filibustiere. – La vostra e anche la mia salvezza non mi è costata troppe fatiche.

 – Ma senza la tua idea a quest’ora saremmo nelle mani del marchese ed avrei forse fatta la fine di mio padre. Per quanto valorosi si possa essere, non si può sostenere l’urto di un mezzo squadrone.

 – Signor conte, – disse il guascone avvicinandosi coi cavalli. – Rimontiamo in sella?

 – Preferisco rimanere qui per qualche ora, cosí i cavalli si riposeranno pienamente. Lasciamo che il marchese corra dietro alle nostre ombre.

 – Temete che ritorni?

 – Chi può dirlo? Non trovandoci su questa via, potrebbe distaccare un manipolo dei suoi cavalieri e rimandarli indietro a perlustrate le piantagioni.

 – Pure io non perderò inutilmente il mio tempo signore. Vi piacciono i gamberi?

 – Diventate pazzo, don Barrejo?

 – Niente affatto, signor conte. Ne ho sorpreso uno attaccato ai miei stivali ed era grosso, chiedetelo a don Ercole che se l’è mangiato vivo, senza dividerlo con me.

 Il fiammingo si limitò a scoppiare in una risata.

 – Ecco che anche i taciturni figli della Fiandra in nostra compagnia diventano allegri e burloni, – disse don Barrejo.

 – Che cosa avete voi nelle vostre vene? – chiese il conte. – Siamo appena sfuggiti a un cosi grave pericolo e scherzate.

 – Che cosa volete, signor conte? Il sangue guascone è cosí. Don Ercole legate i cavalli e cerchiamoci una deliziosa colazione per domani mattina. Io adoro i gamberi, quando però sono dentro il mio ventre.

 L’indiavolato avventuriero, senza pensare che gli spagnuoli potevano tornate da un momento all’altro, accese un pezzo di miccia ed aiutato dal fiammingo si mise a rovistare le pietre che si trovavano sotto il ponte, tuffando le braccia nell’acqua fresca del fiumiciattolo.

 Dovevano abbondare davvero in quel luogo i gamberi, poiché i due compari in meno di mezz’ora empirono le fonde dei quattro cavalli, dopo di averle vuotate di quanto contenevano.

 Alle due del mattino il conte, non udendo piú alcun rumore nei dintorni del corso d’acqua, diede il segnale della partenza.

 Rimontarono la riva non senza qualche fatica e spinsero i cavalli a piccolo trotto sempre pel timore di veder ricomparire da un momento all’altro i cavalieri del marchese.

 La notte era sempre splendidissima, e la luna irradiava le piantagioni sterminate di raggi azzurrini, permettendo cosí ai quattro avventurieri di poter scorgere da lontano i loro nemici.

 Sorvegliavano però attentamente i margini della strada, i quali s’affondavano in certi fossati molto propizi per una imboscata.

 Alle quattro del mattino intrapresero la salita di alcune colline boscose dietro le quali, alla distanza di tre o quattro leghe, doveva trovarsi la salda fortezza di Guayaquil.

 Del marchese e dei suoi cavalieri fino allora nessuna nuova. Avevano continuata la loro corsa verso la città o si erano fermati in qualche luogo per perlustrare le piantagioni?

 Qualche ora piú tardi, raggiunta la cima della prima altura e trovato un piccolo bosco, si accamparono.

 Base della colazione, non importa dirlo, furono i gamberi raccolti dal guascone e dal fiammingo, appena abbrustoliti sulla fiamma e tuttavia trovati da tutti squisitissimi.

 Stavano per cercare un torrente per dissetarsi, quando i quattro cavalli mandarono dei sonori nitriti e si diedero a scalpitare.

 – Amici, in guardia! – gridò il conte, correndo verso il suo destriero e staccando rapidamente l’archibugio. – I nostri andalusi hanno fiutato qualche cosa.

 – Che i cavalli spagnuoli siano come i cani da guardia! – disse il guascone.

 – In arcione! – comandò in quel momento il basco.

 Balzarono in sella e riguadagnarono rapidamente la via, lanciando i cavalli a corsa sfrenata.

 – Che cos’hai veduto dunque, Mendoza, per farci scappare? chiese il conte, quando furono lontani dal boschetto un tiro d’archibugio.

 – Ho veduto degli uomini che salivano nascostamente il fianco della collina. Cercavano di sorprenderci, signore.

 – Erano molti?

 – Non ho avuto il tempo di contarli. Ho scorto degli elmetti e delle canne d’archibugio e nient’altro.

 – Soldati erano di certo, – rispose il conte. – Amici, armatevi e tenetevi pronti.

 – Che i gamberi ci portino sfortuna? – si chiese il guascone. – Se sarà vero, non ne mangerò piú in tutta la mia vita.

 Cavalcavano da dieci minuti, quando un colpo d’archibugio partí dal fossato di destra. Il cavallo di Mendoza spiccò un salto, s’inalberò, poi stramazzò al suolo.

 Quasi nell’istesso tempo una scarica nutrita partiva dall’altro lato della via, atterrando i cavalli del conte e di don Ercole.

 Solo quello del guascone era sfuggito miracolosamente a quella tempesta di palle.

 – Don Barrejo, salvatevi! – gridò il conte il quale era subito balzato in piedi impugnando le pistole. – Ve l’ordino!… Siamo presi!

 Il guascone fece fare al suo cavallo un volteggio fulmineo e quantunque il suo cuore sanguinasse pel dispiacere di non poter aiutare i suoi compagni, fuggí a corsa sfrenata verso Panama, pensando, e con ragione, che avrebbe potuto essere a loro piú utile libero che prigioniero.

 Il brav’uomo in un lampo aveva fatto subito il suo progetto. Correre a Panama, raggiungere Taroga ed avvertire Grogner e Raveneau de Lussan.

 Il conte aveva aspettato a piè fermo gli spagnuoli, mentre Mendoza e don Ercole, rimessisi subito in gambe anche essi, sguainavano le spade.

 Un uomo era sorto dal fossato di destra, mentre una trentina di cavalleggieri apparivano sul margine di sinistra, tenendo gli archibugi montati.

 – Pare che siate preso, signor conte, – disse, con ironia. – La resistenza sarebbe impossibile e vi costerebbe probabilmente la vita.

 – Ah… Voi, signor marchese! – rispose il corsaro, con voce alterata.

 – Una volta per uno: prima io prigioniero dei filibustieri ed ora voi prigioniero degli spagnuoli. Gettate la spada e le pistole.

 Il conte esitava. Se avesse avuto ancora i cavalli vivi, non avrebbe certo tardato a gettarsi furiosamente contro i cavalleggieri spagnuoli, spalleggiato certo vigorosamente dal basco e dal fiammingo.

 – Prima di arrendermi, – disse, – voglio sapere da voi, signor marchese, che cosa intendete fare di me e dei miei compagni. Se avete l’intenzione di appiccarmi, come avete impiccato mio padre, vi avverto che vi darò battaglia, checché debba succedere e che il primo uomo che cadrà sarete voi, poiché vi tengo sotto il tiro delle mie pistole.

 – Io non ho alcuna intenzione di farvi del male, signor conte, – rispose il marchese, il quale temeva quei terribili corsari, non meno dei suoi compatriotti. – Io vi condurrò prigioniero a Guayaquil e là attenderete le decisioni che prenderà il presidente dell’Udienza Reale.

 – Il quale decreterà indubbiamente la mia morte e quella dei miei compagni, – rispose il signor di Ventimiglia, con voce beffarda.

 – No, perché la mia autorità pesa sulle decisioni dell’Udienza ed io farò il possibile per ottenere per voi un decreto di espulsione dalle colonie spagnuole dell’America centrale.

 – Voi però dimenticate per quale motivo io ho lasciato l’Europa. Non già per sete di guadagni, avendo terre e castella nella mia patria da non saperne quasi che cosa fare. Io ho attraversato l’Atlantico per ritrovare mia sorella, la figlia del Corsaro Rosso e nipote del Gran Cacico del Darien.

 La fronte del marchese di Montelimar si era oscurata.

 – Sapete voi dove si trova? – chiese dopo qualche istante di silenzio.

 – Sí, a Guayaquil.

 – Perché v’interessate tanto di quella giovane meticcia?

 – Per Bacco!…È mia sorella! – gridò il conte.

 – Sapete che io l’ho sempre tenuta come mia figlia e che ella mi ama come se fossi suo padre?

 – Perché ignora forse che suo padre era un conte di Ventimiglia e che aveva in Europa un fratello.

 – Questo è vero, – rispose il marchese.

 – Che cosa risolvete dunque?

 – Preferirei di non farvela vedere.

 – Allora vi darò battaglia e vi ucciderò, – rispose il conte, con voce risoluta.

 – Non abbiate tanta fretta, signor conte. In questo affare noi potremo benissimo intenderci. Lasceremo alla fanciulla la scelta fra me e voi.

 – Impegnate la vostra parola di gentiluomo?

 – Sull’onore dei Montelimar.

 – Basta cosí, – disse il conte.

 Gettò la spada e le pistole, subito imitato dal fiammingo e da Mendoza.

 Il marchese si era voltato verso i suoi uomini.

 – Date tre cavalli a questi signori, – disse.

 Tre bellissimi morelli andalusi furono condotti. Il conte ed i suoi due spadaccini montarono in arcione, mentre dal margine opposto sbucavano una ventina di cavalleggieri, tutti bene montati e bene armati.

 – Signor conte, – disse il marchese, salendo pure a cavallo. – Vi prego di seguirmi.

 – Badate che conto sulla vostra parola – rispose il signor di Ventimiglia.

 – Vi mostrerò la lealtà dei gentiluomini spagnuoli. D’altronde io non vi odio affatto.

 – Ciò però non vi ha impedito di tentare d’assassinarmi, – rispose il conte, con ironia.

 – Avevo i miei motivi per fare ciò, allora.

 – Avreste ora cambiata idea?

 – Non ve lo posso dire. L’avete conciato bene quello spadaccino che si vantava di essere invulnerabile. .È bensí vero che i Ventimiglia hanno sempre goduto fama d’essere maestri nelle armi.

 In quel momento in lontananza si udirono echeggiare degli spari.

 – Chi fa fuoco? – chiese il corsaro, con apprensione.

 – Saranno cacciatori, – rispose il marchese.

 Mentiva. Era una partita dei suoi cavalleggieri che davano la caccia al bravo guascone.

 Il marchese spronò il suo cavallo ed il mezzo squadrone, diminuito d’una mezza dozzina di cavalieri, riprese, al piccolo trotto, la corsa verso Guayaquil, sorvegliando attentamente i prigionieri.

 Dopo quattro ore la truppa faceva la sua entrata nella città e andava a fermarsi dinanzi ad un palazzotto di bell’aspetto, circondato da un pittoresco giardino ricco di palme altissime e di banani meravigliosi, le cui immense foglie spandevano intorno un’ombra fresca e deliziosa.

 Guayaquil si trovava a circa dieci leghe dall’Oceano Pacifico ed era allora famosa per la singolare sua costruzione, poiché le sue case erano per la maggior parte erette sopra una specie di ponti per salvarle dalle frequenti inondazioni. Per le sue ricchezze, era stimata una delle piú ricche dell’America centrale, essendo essa a capo d’una vasta contrada che possedeva preziose miniere d’oro, d’argento e soprattutto di smeraldi.

 Non contava che qualche decina di migliaia d’abitanti, però era difesa da tre forti giudicati inespugnabili, con una guarnigione di cinquanta uomini ciascuno.

 Il marchese giunto dinanzi al palazzotto balzò a terra invitando il conte a fare altrettanto, poi entrò nel giardino.

 – Dove mi conducete? – chiese il signor di Ventimiglia.

 – A vedere vostra sorella, – rispose il marchese, – giacché desiderate conoscerla. Sarà di certo nel giardino amando l’aria libera.

 Il dolcissimo suono d’una chitarra giunse in quel momento ai loro orecchi.

 – Deve essere Neala, – disse il marchese.

 – È mia sorella che porta questo nome? – chiese il conte il quale appariva assai commosso.

 – Sí, conte.

 Il marchese si diresse verso un piccolo padiglione di stile moresco che occupava un angolo del giardino e che era ombreggiato da tre o quattro immense palme a ventaglio e mostrò al conte una giovane di sedici o diciassette anni, che indossava un semplice accappatoio di piccole trine intessute con pagliuzze d’argento e che stava sonando una piccola chitarra.

 Era una bellissima creatura, alta, slanciata, colla pelle un po’ abbronzata, gli occhi nerissimi dal lampo cupo e selvaggio, coi capelli lunghissimi e pure nerissimi intrecciati graziosamente con fiori rossi.

 Vedendo il marchese si era alzata deponendo la chitarra e atteggiando le labbra ad un grazioso sorriso.

 – Figlia mia – disse il marchese – non mi aspettavi di certo cosí presto.

 – No, – rispose la giovane fissando subito sul figlio del Corsaro Rosso i suoi sguardi.

 – Ti conduco qui un signore che pretende essere tuo fratello e che…

 Il conte lo interruppe bruscamente.

 – Non dite che pretendo, marchese, poiché voi sapete quanto me che mio padre ha sposato la figlia del Gran Cacico del Darien e che questa fanciulla è realmente mia sorella. Io sono nato da padre e da madre bianchi: la seconda moglie di mio padre fu invece una principessa indiana.

 La giovane meticcia continuava a fissare il corsaro con crescente intensità ed aveva fatto un passo innanzi, come attratta da una irresistibile simpatia.

 Era certamente il sangue che segretamente parlava.

 – Figlia mia – riprese il marchese – questo signore che è il Conte di Ventimiglia, vorrebbe strapparti a me e condurti lontano, lontano, in Europa…

 – Nei miei castelli, su un mare piú azzurro dell’Oceano Pacifico, dove l’aria è piú balsamica e piú pura che qui – disse il corsaro. – Io sono bianco e voi siete bruna eppure siete mia sorella perché abbiamo avuto lo stesso padre: il Corsaro Rosso, Conte di Ventimiglia signore di Roccabruna e di Valpenta. Che cosa dice il vostro cuore, Neala? Che cosa dice il vostro sangue? Che cosa pensa il vostro cervello? Io ho lasciato l’Europa per venirvi a cercare, ho sfidato mille pericoli, ho combattuto al di là ed al di qua dell’istmo di Panama per venirvi a dire che siete mia sorella. Chi preferite? Il marchese di Montelimar che vi ha adottata come figlia o vostro fratello? Scegliete.

 Neala rimase per qualche istante ancora silenziosa, poi con uno scatto improvviso si fece addosso al corsaro e gli gettò le braccia al collo, dicendo:

 – Il cuore ed il sangue hanno parlato: io sono vostra sorella e voi siete mio fratello!

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