LA CORSA AI GALLI

CAPITOLO III

 

 

 LA CORSA AI GALLI

 

 Il giorno dopo, una folla gioconda, vestita di costumi svariati e variopinti, si accalcava nei dintorni del grandioso palazzo dei Montelimar. Vi erano ufficiali, soldati, piantatori, marinai e contadini, e non mancavano nemmeno le señore e le señoritas in abiti elegantissimi, con la graziosa manta sulle alte pettinature, quantunque lo spettacolo che stava per incominciare non dovesse interessarle gran che.

 Si trattava della corsa al gallo, già annunziata dalla marchesa al conte de Miranda, o meglio al conte di Ventimiglia.

 I coloni spagnuoli hanno sempre avuto due grandi passioni: i tori ed i galli! Strano contrasto fra una bestia enorme e temibilissima ed un povero ed innocuo pennuto!

 Eppure non badavano a spendere per possedere dei buoni galli, specialmente quelli destinati a combattersi l’un l’altro, e scommettevano in questo barbaro gioco somme enormi.

 Ma uno dei loro divertimenti favoriti era la corsa al gallo, inventata forse con lo scopo di formare degli abilissimi cavalieri, dei quali si aveva purtroppo molto bisogno per dare la caccia ai bucanieri, i formidabili alleati dei filibustieri, che minacciavano senza tregua le città di terra, mentre gli altri si occupavano di quelle marittime.

 Il giuoco era semplicissimo, tuttavia non mancava di destare un vivissimo interesse fra i numerosi spettatori, sempre pronti a scommettere una piastra come anche mille.

 Su una via diritta scavavano quattro o cinque buche e vi seppellivano altrettanti galli, in modo che tenessero fuori soltanto il collo, tenendo fermi quei poveri volatili con della sabbia e con delle pietre, ma in modo però che non avessero troppo a soffrire.

 I cavalieri che prendevano parte a quello strano divertimento erano obbligati a passare a corsa sfrenata, curvarsi fino a terra e con una mano strapparli.

 Non era una manovra facile, poiché esponeva il cavaliere ad una caduta che poteva avere gravissime conseguenze, anche se salutata da una clamorosa risata da parte degli spettatori. Il premio ordinariamente era un bacio sulla mano o sulla gota della piú bella signora che assisteva al divertimento; galanteria spagnuola che i rudi Yankees del diciottesimo secolo dovevano piú tardi imitare.

 Quattordici cavalieri, montati tutti sui piccoli ed eleganti cavalli andalusi, si erano presentati alla corsa, allineandosi dinanzi al palazzo dei Montelimar. Erano quasi tutti giovanotti, figli di piantatori o di pezzi grossi dell’ammiragliato, ansiosi di baciare le gote della piú bella vedova di San Domingo.

 Spiccava però tra loro il conte de Miranda, sempre vestito di rosso, elegantissimo, che montava un cavallo andaluso tutto nero, dagli occhi ardenti, acquistato la mattina stessa a caro prezzo. Vedendo comparire la marchesa sullo scalone di marmo del palazzo, il conte si era levato il feltro rosso adorno d’una lunghissima piuma e si era chinato sul cavallo.

 La bella vedova rispose con un sorriso e con un grazioso gesto della mano, poi prese subito posto in una specie di tribuna eretta dinanzi ai palazzo, insieme al suo maggiordomo e alle donne della casa.

 Quattro galli erano stati seppelliti, ad una distanza di venti metri l’uno dall’altro. I disgraziati pennuti facevano sforzi disperati per liberarsi da quella incomoda prigionia, allungando il collo e cantando a piena gola, ma le pietre li trattenevano e impedivano loro di fuggire.

 Due giudici di campo, due vecchi ufficiali in ritiro, si erano collocati ai due lati dei cavalieri per regolare la corsa.

 Il pubblico, che era diventato numerosissimo, scommetteva intanto con vero furore e, sia per simpatia, sia per la bella figura, puntava di preferenza sul figlio del Corsaro Rosso.

 Quale terribile sorpresa, se avesse saputo che giocava sul suo piú mortale nemico, su uno di quei tremendi filibustieri che avevano giurato la distruzione delle colonie spagnuole dell’America Centrale!…

 I due giudici di campo, dopo aver esaminato attentamente le bardature dei cavalli, perché non accadesse qualche disgrazia, si erano accostati al palco dove si trovava la marchesa.

 – Pronti? – chiese uno.

 – Tutti – risposero ad una voce i quattordici cavalieri, lanciando uno sguardo verso la marchesa di Montelimar.

 – Partite. – disse l’altro.

 I cavalli, vivamente spronati, spiccarono un salto, poi si slanciarono con impeto irrefrenabile.

 Il figlio del Corsaro Rosso aveva subito preso la testa del drappello, tenendo solamente il piede sinistro nella staffa per potersi piú facilmente curvare fino a terra.

 Il suo morello, un cavallo scelto con cura, divorava la via con uno slancio straordinario, lasciandosi dietro di parecchi metri gli avversari.

 Cavalcava cosí splendidamente, da suscitare un vero entusiasmo fra gli spettatori. Uomini e donne applaudivano fragorosamente quando passava davanti a loro, curvo sul collo del destriero, facendo ondeggiare la sua lunghissima piuma rossa. Il giovane cavaliere, giunse cosi addosso al primo gallo, con la velocità d’un uragano, si piegò verso terra, tenendosi con una mano ben fermo al collo del cavallo e, lesto come un cavaliere arabo, afferrato il primo volatile, lo strappò dalla sua buca e lo alzò trionfalmente.

 Un grido di entusiasmo, partito dalla folla, salutò il colpo maestro del cavaliere. Uomini e donne sventolavano i fazzoletti ed agitavano bastoni ed ombrelli, come se avessero assistito ad una corrida de toros . Il giovane rosso in quel momento veniva acclamato come uno dei piú famosi espadas del circo di Siviglia o di Granata.

 Il conte strozzò il gallo e lo gettò ad un gruppo di mendicanti; poi, giunto all’estremità della via, chiusa da uno steccato, fece fare al cavallo un fulmineo volteggio e riprese la corsa di ritorno.

 I cavalieri che lo avevano seguito giungevano in quel momento quasi in gruppo serrato, ma tutti a mani vuote. Nessuno era stato fortunato, in quella prima corsa, ed i galli erano rimasti dentro la loro prigione.

 – Che pessimi cavalieri! – mormorò il conte. – Che spetti a me accoppare tutti questi volatili? La cosa sarebbe noiosa, se la vittoria non valesse un bacio alla piú bella donna di San Domingo.

 Allentò le briglie e riprese la corsa, spronando col piede destro il suo morello, e tenendo come prima il sinistro libero, per potersi curvare con maggiore comodità.

 Poiché aveva sugli avversari un vantaggio di oltre trenta metri, ed era solo, mentre gli altri galoppavano in gruppo, il conte raggiunse in un lampo il secondo gallo e lo strappò.

 Non un grido, ma un vero urlo entusiastico salutò il cavaliere.

 – Viva il conte rosso! – aveva gridato la folla, battendo freneticamente le mani.

 Gli altri cavalieri avevano avuto pure qualche fortuna, poiché due di loro avevano strappato un gallo ciascuno. La vittoria peraltro era rimasta al conte, il quale aveva fatto da solo un doppio colpo.

 Scese da cavallo e s’avvicinò alla marchesa che lo guardava sorridendo, e le mise sulle ginocchia il volatile dicendo:

 – Lo conserverete per mio ricordo, signora; cosí quando io sarò partito vi ricorderete qualche volta di me.

 – Volete dunque partire? – chiese la bella vedova.

 – È probabile che questa sera io non sia piú a San Domingo – rispose il conte.

 – Allora voi accetterete di far colazione con me.

 – Non rifiuto mai la compagnia d’una signora, specialmente quando è bella e amabile come voi.

 – Ah, conte!…

 Si era alzata. Fece con la mano un gesto d’addio ai cavalieri che stavano allineati dinanzi al palco scoperto, e salí lestamente il magnifico scalone di pietra, mentre la folla si disperdeva.

 Il conte di Ventimiglia, l’aveva seguita insieme al maggiordomo e dalle donne di casa.

 La marchesa gli fece attraversare parecchie sale riccamente decorate ed elegantemente ammobiliate, e infine entrò in un salotto da pranzo, non molto vasto, con le pareti coperte di cuoio rosso di Cordova e il soffitto dorato.

 Nel mezzo una tavola era imbandita con posate e piatti d’oro e magnifici trionfi d’argento contenenti le piú svariate frutta dei climi tropicali.

 Non vi erano che due poltrone l’una accanto all’altra.

 – Signor conte, – disse la marchesa – vi avverto che oggi non ho invitati: cosí potremo parlare liberamente come due buoni amici.

 – Vi ringrazio, marchesa, di questa delicata attenzione.

 – E poi devo chiedervi qualche informazione.

 – A me! – esclamò il corsaro con stupore.

 – A voi! – rispose la marchesa di Montelimar, sulla cui bella fronte era apparsa una leggera ruga.

 – E se vi dicessi che io desideravo vivamente rivedervi, prima di spiegare le vele, per chiedervi anch’io un’informazione, che cosa direste?

 Questa volta fu la marchesa che fece un gesto di sorpresa.

 – A me! – esclamò. – Mi conoscevate voi, conte, prima di gettare le vostre âncore in questo porto?

 – No: avevo solamente udito parlare dei Montelimar.

 – Di mio marito?

 – No, d’un vostro cognato che molti anni or sono doveva coprire la carica di governatore di Maracaibo.

 – Infatti mio marito aveva un fratello governatore.

 – L’avete mai veduto quel Montelimar?

 – Sí, due anni or sono feci la sua conoscenza a Portorico.

 L’entrata di quattro servi negri, i quali portavano le vivande su dei larghi piatti d’argento cesellato e alcuni canestri contenenti polverose bottiglie, fece interrompere la conversazione.

 – Facciamo colazione ora – disse la marchesa al conte. – Gli uomini di mare devono esser dotati d’un buon appetito e spero, signor de Miranda, che farete onore ai miei cuochi.

 – Quando suona la campana del mezzodí i nostri stomachi sono sempre pronti, marchesa. Se vedeste i miei marinai che terribile assalto danno alle tavole!

 – Mi piacerebbe assistervi.

 – Se rimanessi ancora qualche giorno nel porto sarei onoratissimo di ricevervi sulla mia nave. Disgraziatamente dubito di essere ancora qui domani.

 – Ma voi mi diceste che vi avevano mandato per proteggere la città da un assalto combinato fra filibustieri e bucanieri.

 – Questo pericolo non c’è piú, ormai – rispose il conte con aria un po’ imbarazzata. – Mi avevano detto che parecchie navi sospette si erano vedute nelle acque di Jonaires, veleggianti verso il sud: stamane invece sono stato avvertito che si erano allontanate in direzione della Tortue. Andrò appunto a sorvegliare quei paraggi, per accertarmi della cosa.

 – E per calare a fondo quelle navi?

 – Sí, se mi sarà possibile.

 – Sono formidabili quei filibustieri!

 – Montano all’abbordaggio come diavoli, marchesa, e quando sparano una fucilata uccidono sempre.

 Prese una bottiglia, che i servi avevano già stappata, ed empí due bicchieri dicendo:

 – Alla vostra bellezza, marchesa!

 – Alla vostra nave, capitano! – rispose la signora di Montelimar.

 Il conte vuotò il suo bicchiere tutto d’un fiato, fece segno ai servi negri di uscire, poi, guardando fisso la marchesa, riprese:

 – Ed ora, signora, se non vi spiace, riprendiamo la nostra conversazione. Voi mi avete detto d’aver conosciuto vostro cognato a Portorico?

 – È vero, conte.

 – Quando?

 – Due anni or sono.

 – Sapreste dirmi dove si trova ora?

 – A Pueblo-Viejo, mi hanno detto. So che nei dintorni di quella città ha vastissime piantagioni di canna da zucchero.

 – Ah! – fece il conte corrugando la fronte. – Vostro marito vi ha mai parlato dell’esecuzione avvenuta per ordine di vostro cognato, di due famosi corsari che si facevano chiamare l’uno Corsaro Rosso e l’altro il Corsaro Verde, e che erano due gentiluomini italiani?

 La marchesa guardò il conte con una certa ansietà, poi disse:

 – Sí, mi ha parlato spesso di quei due corsari, ma ve n’era anche un altro, che poi scomparve con la figlia del duca Wan Guld.

 – Quello si chiamava il Corsaro Nero – disse il conte – e non fu impiccato come i suoi fratelli. Non sapreste dirmi chi furono quelli che decretarono e che applicarono a quei due gentiluomini la pena di morte?

 – No, ma ve lo potrebbe dire mio cognato. Io allora ero bambina e non abitavo a Maracaibo. Ora vorrei sapere perché v’interessate di quell’avvenimento. Avete conosciuto forse quei terribili filibustieri che fecero tremare per tanti anni le nostre colonie del golfo del Messico?

 – È un segreto che non vi posso svelare, marchesa, – rispose il figlio del Corsaro Rosso, il quale era diventato cupo. – Mi avete detto che vostro cognato deve trovarsi a Pueblo-Viejo; questo può bastarmi per ora. Qui vostro cognato deve possedere dei beni, quindi deve avere un amministratore ed un segretario.

 – Volete parlare del cavaliere Barquisimeto?

 – Precisamente, marchesa.

 – Si trova infatti qui – rispose la marchesa. – Ma deve partire da un momento all’altro sul galeone la Santa Maria che si reca al Messico. Porterà, io credo, le somme ricavate dalle piantagioni di mio cognato.

 – Sulla Santa Maria , avete detto! – esclamò il conte, mentre un lampo vivissimo illuminava i suoi occhi.

 – Me lo disse egli stesso tre giorni fa.

 – Ora ne so piú di quanto desideravo, marchesa; e vi ringrazio delle preziose informazioni che mi avete date.

 – Preziose?

 – Piú di quanto crediate – rispose il conte.

 – Allora me ne darete altrettante voi, spero.

 – È vero: mi avete detto che volevate sapere qualche cosa da me. Parlate, signora; io farò il possibile per accontentarvi.

 La marchesa stette un momento silenziosa, guardando a sua volta intensamente il conte; poi, indicando col dito la spada che il corsaro portava al fianco, gli disse: – Ieri sera, durante la festa, non avevate quella spada. L’impugnatura è diversa. Perché l’avete cambiata?

 – Perché l’altra la perdei mentre mi imbarcavo sulla scialuppa che doveva condurmi sulla mia fregata – rispose il corsaro, arrossendo come una fanciulla.

 – O l’avete lasciata invece nel petto di qualcuno che vi dava noia? – chiese la marchesa con voce grave.

 Il conte di Ventimiglia non potè fare a meno di trasalire.

 – Signora, – disse con voce grave – da buon gentiluomo io non posso mentire e confesso francamente di aver lasciato la punta della mia lama nel petto del conte di Sant’Iago. Vi giuro però sul mio onore che non sono stato io a provocare la contesa.

 – Vi credo, conte; il capitano era un uomo violentissimo ed un grande spadaccino e temevo appunto che vi aspettasse fuori per darvi una stoccata. Mi stupisce invece che l’abbia ricevuta.

 – Perché, marchesa?

 – Tutti lo temevano, perché si sapeva che era una fortissima lama

 – Eh, signora, appartengo ad una famiglia di formidabili spadaccini e molti sono stati spacciati dai conti de Miranda, anche per puntigli d’onore

 – E voi l’avete ucciso!

 – Dovevo ben difendere la mia vita.

 – Da solo!

 – Perché mi fate questa domanda?

 – Perché mi hanno detto che con voi vi erano due uomini.

 – Sí, due miei marinai, i quali, dietro mio ordine, assisterono impassibili al duello. Non avrei certo permesso che s’immischiassero in una faccenda che riguardava me solo. Il capitano era un gentiluomo, non già un bandito che si potesse assalire con tre spade o assassinare a colpi di pistola.

 – Siete coraggioso! – esclamò la marchesa, guardandolo con profonda ammirazione. – Nessun spadaccino avrebbe osato assalire il conte di Sant’Iago.

 – Di San Domingo forse – rispose il conte. – Io non sono nato nelle isole del grande golfo ed ho avuto per maestri uomini d’arme di Spagna, di Francia e soprattutto d’Italia.

 – Sapete che si sospetta di voi?

 – Come autore dell’uccisione del capitano?

 – Sí, conte.

 – Ebbene, che cosa vuol dir ciò? Forse che a San Domingo non è permesso a due gentiluomini di definire una questione a colpi di spada?

 – Non dico di no, ma il duello è avvenuto senza testimoni, e poi…

 – Scusate, marchesa, vi erano i miei marinai. Ed ora continuate.

 – Vorrei chiedervi dove avevate acquistata quella spada che spense il capitano.

 Il conte si era alzato e guardava la marchesa con inquietudine.

 – Mi avete fatto una domanda che potrebbe avere…

 Si interruppe bruscamente vedendo entrare il maggiordomo della marchesa.

 – Che cosa volete? – chiese la signora di Montelimar un po’ seccata da quella improvvisa comparsa.

 – Perdonate, signora – rispose il maggiordomo. – Vi sono nella stanza vicina due marinai che insistono per comunicare al signor conte una grave notizia.

 – Un bianco e un meticcio? – chiese il capitano della Nuova Castiglia .

 – Sí, signor conte, e poi…

 – Continuate – disse la marchesa.

 – Vi è anche giú un capitano degli alabardieri, accompagnato da venti uomini, che domanda di visitare il palazzo.

 – Per quale motivo?

 – Ha un mandato di arresto.

 – Per chi?

 – Per il signor conte – rispose il maggiordomo dopo una breve esitazione.

 Il conte spiccò un salto e portò la destra sulla guardia della spada.

 – Dovranno fare i conti con questa lama! – gridò. – Dite al capitano degli alabardieri che attenda dieci minuti, perché la marchesa di Montelimar possa finire tranquillamente la sua colazione e, se insiste, fatelo bastonare dai servi… Mendoza! Martin!

 I due marinai, udendo quella chiamata, si precipitarono nel salotto, spingendo da una parte il povero maggiordomo e sguainando le spade.

 – Conte! – esclamò la marchesa, la quale era diventata pallidissima.

 – Che cosa significa ciò?

 – Ve lo dirò subito, signora – rispose il corsaro. – Permettetemi

 d’interrogare prima i miei uomini… Per me si tratta di vita o di morte.

 – Che cosa dite?

 – Fra mezzo minuto, marchesa. Parla tu, Mendoza!

 – Signor conte, pare che si preparino a prenderci, o per lo meno ad arrembarci – rispose il vecchio marinaio. – Tutti i galeoni e le caravelle da qualche ora prendono posizione dinanzi all’uscita del porto, come se avessero intenzione di impedirci di guadagnare il largo. Qualcuno deve aver tradito il nostro segreto.

 – Che cosa ha fatto il mio tenente?

 – Il signor Verra ha fatto caricare i cannoni, per essere pronto a mitragliare galeoni e caravelle, ed ha comandato a tutti i marinai di armarsi. Non abbiamo a fondo che una sola ancora.

 – Benissimo: è un brav’uomo che non si lascia mai cogliere di sorpresa. Ah, i marinai genovesi! Nessuno può eguagliarli.

 – Conte, – gridò la marchesa – che cosa dite voi?

 – Un momento ancora, signora – rispose il fiero giovane. – Mendoza, sono tutti a bordo i miei uomini?

 – Tutti, capitano.

 – Siamo in ottanta e faremo sudare freddo quelli che vorranno impedirci di prendere il largo… Ora a voi, signora di Montelimar. Io ho vinto la corsa al gallo e voi mi siete debitrice d’un bacio. Permettete dunque che io ne deponga uno sulle vostre belle mani. Sarà certamente il primo e l’ultimo, poiché, se non accade un miracolo, fra pochi minuti scomparirà anche l’ultimo conte di Ventimiglia, di Roccabruna e di Valpenta!

 – Di Ventimiglia, avete detto? – esclamò la marchesa.

 – Sí, signora, io sono il figlio di quel Corsaro Rosso che i vostri compatrioti hanno appiccato!

 La marchesa stette muta per qualche istante, in preda ad una vivissima emozione.

 – Signor conte, – disse – io non lascerò arrestare sotto i miei occhi, nel mio palazzo, un gentiluomo come voi.

 – Che cosa volete fare, signora?

 – Salvarvi!

 – In qual modo?

 – Seguitemi tutti e, soprattutto, fate presto. Il capitano degli alabardieri sarà irritato per questa lunga attesa.

 Aprí la porta del salotto e introdusse i tre corsari in una stanza da letto, la sua probabilmente, a giudicare dalla ricchezza della mobilia, e s’avviò ad un caminetto che era chiuso da una lastra di bronzo lavorata a cesello. Mise una mano su uno dei tanti fiori che la ornavano e premette rapidamente. La lastra subito scattò, aprendosi: Tosto apparvero dei gradini che conducevano in alto.

 – È un passaggio segreto, aperto nello spessore della muraglia – disse la marchesa – e da tutti ignorato. Conduce ad una delle piccole torricelle che s’innalzano sul tetto. Salite e aspettatemi lassú piú tardi.

 – Il bacio, marchesa – disse il conte.

 La bella signora gli porse la mano.

 Il corsaro vi depose un bacio, poi si slanciò su per la scaletta, seguito da Mendoza e da Martin.

 La marchesa rinchiuse la lastra, mormorando: – Povero giovane! Uccidere un cosí valorose gentiluomo? No, non voglio; anche essendo un nemico del mio paese, io lo salverò, checché debba accadermi. Non voglio che si dica che un Montelimar ha tradito un suo ospite.

 Chiuse la porta ed entrò nel salotto, mettendosi a centellinare una tazzina di cioccolata, sforzandosi di parere perfettamente tranquilla.

 Un momento dopo il maggiordomo entrava, annunziando il capitano Pinzon.

 – Passi pure – rispose la marchesa continuando a sorseggiare la cioccolata.

 Il capitano degli alabardieri, un soldataccio con due enormi baffi grigiastri e gli occhi vivissimi, entrò togliendosi il cappello di feltro.

 – A quale onore debbo la vostra visita? – chiese la marchesa, sempre tranquilla, additandogli una poltrona. – Spero che accetterete un po’ di cioccolata che viene dal Guatemala, dal paese cioè che produce la piú eccellente cioccolata del mondo.

 Il capitano rimase un po’ sorpreso, poi disse: – Perdonate, signora, se vi disturbo; ma sono stato mandato dal governatore della città.

 – Per arrestarmi? – chiese la bella vedova ridendo.

 – Non voi, ma una persona che poco fa deve aver fatto colazione qui, con voi.

 – Eh, che cosa dite, capitano? – esclamò la marchesa aggrottando la fronte e alzandosi di scatto.

 – Arrestare chi?

 – Quel conte che si veste tutto di rosso.

 – Lui! Un gentiluomo?

 – Un bandito, signora!

 – Lui? È impossibile!

 – È un Ventimiglia, un parente di quei terribili corsari che con Pierre le Grand, con Laurent, con Wan Horn e con l’Olonese, hanno espugnato tante città del Golfo del Messico.

 – Oh, mio Dio! – esclamò la marchesa, lasciandosi cadere sulla poltrona.

 – Se vi foste ingannati?

 – Abbiamo la prova che è certamente un Ventimiglia.

 – In quale modo avete potuto ottenerla?

 – La lama che era rimasta infissa nel petto del conte di Sant’Iago portava inciso il nome del suo uccisore.

 – Allora avrete già distrutta la sua fregata?

 – Non ancora, marchesa – rispose il capitano. – Aspetteremo che la notte cali per abbordarla. Dov’è quel signore?

 – È già partito.

 – Partito? – esclamò il capitano diventando livido.

 – Mi ha lasciato mezz’ora fa, dopo aver fatto colazione con me, dicendomi che andava a fare una passeggiata nel giardino.

 Il capitano si diede un pugno sulla corazza.

 – Che egli mi abbia veduto attraversare le cancellate del giardino? – sí domandò, tirandosi furiosamente i baffi. – Fuggito! Ma dove? Si sarà probabilmente nascosto in qualche luogo… Diaz!

 Un sergente degli alabardieri, a quella chiamata, entrò nel salotto.

 – Prendi dieci uomini e va a frugare il giardino del palazzo. Forse il corsaro è ancora là.

 – Subito, capitano – disse il sergente, uscendo rapidamente.

 – Signora marchesa, – disse il capo del drappello, quando furono nuovamente soli – io ho l’ordine di visitare minutamente le vostre stanze.

 – Fate pure, capitano i rispose la bella vedova. – Ma sono certissima che non lo troverete nel mio palazzo.

 – Eppure io sono sicuro, signora, di poterlo scovare in qualche luogo – rispose il capitano. – Dalla città non può uscire, perché tutte le porte sono bene guardate; imbarcarsi nemmeno, perché sulle calate abbiamo mandato parecchi drappelli di soldati, e la sua nave sta per essere circondata dai galeoni e dalle caravelle. È ora di finirla con questi Ventimiglia e noi la finiremo. Signora, vado a visitare il palazzo.

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