LA PRESA DEL MARCHESE

CAPITOLO VI

 

 LA PRESA DEL MARCHESE

 

 Quella sera stessa, un po’ prima della mezzanotte, i filibustieri sgombravano S. Giovanni de Pueblo, temendo un ritorno della squadra spagnuola e si rifugiavano sul continente, prendendo terra alla baia di Caldeira.

 Sbarcavano però rinforzati da un altro famoso filibustiere, Tusley, che aveva preso parte all’ardita navigazione di Davis e che si era poi separato dai francesi per questioni religiose e da centoventi inglesi.

 Questi ultimi erano stati incontrati a poche leghe dal continente, a bordo d’un vascello ancora in ottimo stato. Quantunque riconosciuti per corsari, i filibustieri del conte di Ventimiglia e di Grogner li avevano furiosamente assaliti, per dare una lezione al loro capo e, quantunque montassero dei semplici schifi e delle barcacce sprovviste d’artiglieria, erano montati audacemente all’abbordaggio, impadronendosi facilmente del naviglio.

 È ben vero però che gl’inglesi di Tusley, avendo riconosciuto nei loro assalitori dei loro antichi compagni, non avevano opposto che una debole resistenza.

 I filibustieri del conte, di Grogner e di Lussan, dopo averli tenuti per alcune ore prigionieri, in fondo alla cala e d’averli rampognati un po’, non avevano tardato a rimetterli in libertà, sicché gl’inglesi, colpiti da quel tratto generoso, non avevano rifiutato di unirsi alla partita, promettendo di far causa comune e di non separarsi piú mai dai loro antichi compagni insieme ai quali avevano compiuta la traversata dello stretto di Magellano.

 Dopo ventiquattro ore di riposo, i filibustieri, risoluti ad aiutare il conte di Ventimiglia nella sua impresa, lasciavano la baia di Caldeira, ansiosi di dare l’assalto a Nuova Granata e di sorprendere il marchese di Montelimar prima che avesse avuto ancora il tempo di fuggire.

 Nuova Granata era una delle piú cospicue città che gli spagnuoli possedessero nell’America centrale ed aveva fama di possedere tesori immensi, assorbendo i prodotti ingentissimi delle miniere d’oro del Nicaragua.

 Sorgeva sulle sponde del lago omonimo, in una posizione fortissima, a circa venti leghe dall’Oceano Pacifico ed era difesa nel centro da un forte di forma quadrata, situato su un’altura e munito di tanta artiglieria da poter tenere indietro un esercito.

 I suoi dintorni poi erano pieni di fabbriche di zucchero vastissime, che formavano dei grandi sobborghi.

 Inoltre era circondata da mura e da bastioni pure ben muniti di artiglierie: uno solo aveva venti pezzi.

 La difesa della piazza era poi stata affidata a sei squadroni di cavalleria ed a parecchie compagnie di artiglieria.

 Il 17 d’Aprile del 1687 i filibustieri, dopo d’aver attraversato paludi e boscaglie, antiche quasi quanto la creazione del mondo, comparivano nei dintorni della formidabile piazza.

 Non erano che in trecento e quarantacinque, fra i corsari del conte di Ventimiglia ed i filibustieri di Tusley, di Grogner e di Raveneau de Lussan.

 Lungo la via erano stati avvertiti che gli spagnuoli, informati celermente da diverse spie, si erano preparati alla difesa e che il marchese di Montelimar si era incaricato della difesa del forte centrale; pure quei terribili combattenti non si erano affatto spaventati ed avevano proseguita la loro marcia, sicuri di prendere d’assalto la città, non ostante la sua formidabile artiglieria.

 Gli spagnuoli infatti si erano preparati a riceverli con molto coraggio. Abitanti e soldati avevano occupati gli spalti ed i bastioni, risoluti a difendere strenuamente le loro ricchezze.

 Prima impresa dei filibustieri fu l’incendio dei sobborghi.

 Le immense fabbriche di zucchero bruciarono come zolfanelli, sotto gli sguardi esterrefatti dei cittadini e dei soldati, i quali non osavano esporsi ad un combattimento in aperta campagna, contro quegli uomini che già credevano, in buona fede, d’origine infernale.

 A mezzodí, dopo la colazione, i filibustieri, divisi in quattro piccole colonne, guidata ognuna dai loro capi, cominciavano l’assalto della città, niente spaventati dalle cannonate che si sparavano, specialmente dal forte difeso dal marchese di Montelimar.

 Parve una furia infernale. I fratelli della Costa – come si chiamavano sempre quei terribili corsari, anche se dal golfo del Messico erano passati nell’Oceano Pacifico, – malgrado la formidabile artiglieria che possedevano gli spagnuoli, montarono intrepidamente all’assalto, servendosi di rozze scale che avevano costruite nelle foreste.

 Non valsero gli sforzi degli abitanti, che si erano uniti ai soldati per difendere le mura ed i bastioni e che combattevano con grande animo, decisi a farsi uccidere piuttosto che arrendersi.

 Alle tre, sembrerebbe impossibile, i trecento cinquanta filibustieri erano padroni della città.

 Non avevano perduto che dodici uomini, mentre avevano fatto una strage orribile degli abitanti e dei cavalleggieri che difendevano i bastioni. Anche la batteria dei venti pezzi era caduta nelle loro mani.

 Se la città era stata conquistata, resisteva però sempre il forte, difeso dal marchese di Montelimar.

 Come abbiamo detto, era un’opera saldissima, difesa e guernita di grossa artiglieria e ben munita di archibugieri e di combattenti.

 Ad ogni intimazione di resa aveva risposto con cannonate, che atterravano le case della città.

 Il conte di Ventimiglia, che aveva sempre combattuto in prima fila, spalleggiato da Mendoza, dal guascone e dal fiammingo ed i tre capi corsari si erano radunati dietro uno dei bastioni, mentre i vecchi bucanieri si sforzavano, senza alcun risultato apprezzabile, di decimare gli artiglieri della fortezza, i quali si tenevano nascosti dietro i grossi merli, in attesa di mitragliare gli assalitori.

 – Signor conte, – disse Grogner, il quale appariva preoccupato. – Vi è proprio necessario il marchese?

 – A me non importano le ricchezze di Granata, – rispose il figlio del Corsaro Rosso. – È quell’uomo che io voglio e sarà la mia parte di saccheggio.

 – Vostro padre non agiva diversamente, – disse Tusley. – Voi siete sempre stati corsari dilettanti, ma che terribili dilettanti!…

 Allora prendiamo d’assalto la fortezza, – disse Raveneau de Lussan, il quale non dubitava mai di nulla. – Come è caduta nelle nostre mani la città, cadrà anche quella.

 – Vi propongo di aspettare la notte, – rispose Grogner. – Mi ricordo che una volta i filibustieri hanno fatto uso, con buon successo, di palle di cotone infilate nelle bacchette dei loro archibugi.

 – Ed io, – disse una voce, – mi ricordo che una volta degli uomini audaci hanno fatto saltare un fortino con qualche barile di polvere.

 Tutti si eran voltati. Era don Barrejo che aveva pronunciato quelle parole.

 – Se volete farvi mitragliare, siete padronissimo, – disse Grogner, un po’ ironicamente.

 – Sono un guascone.

 – Ed io sono di Bordeaux.

 – Ho molto piacere di saperlo, signor Grogner, però devo dirvi che i bordolesi non valgono proprio i guasconi.

 Ciò detto lo spadaccino volse le spalle e si allontanò, per recarsi in cerca di Mendoza e del fiammingo.

 La battaglia intanto continuava furiosissima, fra i filibustieri e la fortezza.

 Tutti i vecchi bucanieri, famosi già per l’esattezza dei loro tiri, erano stati chiamati a raccolta per decimare gli artiglieri spagnuoli e, come prima, non avevano avuto altro successo che quello di provocare un formidabile e pericolosissimo cannoneggiamento.

 Pareva che il marchese di Montelimar avesse giurato di farsi seppellire sotto le rovine della fortezza, piuttosto che ammainare il grande stendardo di Spagna che sventolava orgogliosamente al di sopra della batteria centrale.

 Il guascone, noncurante delle palle che piovevano da tutte le parti, sventrando le case della città, aveva finito per trovare i due compari, i quali, in attesa della decisione che dovevano prendere i quattro capi della filibusteria, si erano seduti sul margine d’un fossato, vuotando tranquillamente una grossa fiasca di vino che avevano scovata in mezzo alle rovine d’una abitazione.

 – Come! – disse don Barrejo, fingendosi indignato. – Si vuotano dei boccali senza di me?

 – Io vi credevo già disteso in qualche cantina, pieno d’Alicante, da scoppiare, – rispose Mendoza. – Non ne avete scoperta alcuna?

 – Con questa gragnuola di bombe che lanciano gli artiglieri del marchese di Montelimar, è troppo pericoloso. Aspettate almeno che sia finita.

 – Se finirà, – disse il fiammingo.

 – E noi che cosa siamo? – gridò il guascone, dopo d’aver dato un lungo bacio alla fiasca. – Siamo o non siamo uomini di guerra? Spetta solamente a noi, giacché i capi sono imbarazzati, a far tacere quei bronzi.

 – Che cosa volete dire, don Barrejo? – chiese Mendoza.

 – Che tre uomini della nostra forza non dovrebbero fermarsi dinanzi ad un forte. Che diamine!… Siamo o non siamo tre terribili fracassoni? Non ho già accettato di diventare un filibustiere per fumare solamente dei sigari e fare delle passeggiate sul mare o sotto i boschi.

 – Questo compare deve avere qualche idea grandiosa, – disse il fiammingo, il quale ad ogni colpo di cannone tracannava una lunghissima sorsata del liquido racchiuso nella fiasca.

 – È superba, amici, – rispose il guascone. – Vi propongo nient’altro che di far saltare il forte.

 – Con noi insieme? – chiese Mendoza.

 – Alto là, camerata!… Io non ho ancora alcun desiderio di prendere il mio passaporto per l’altro mondo.

 – Spiegatevi meglio, don Barrejo, – disse Mendoza.

 – Vi ho detto che giacché il forte non si arrende, noi lo faremo saltare.

 – Tutto d’un pezzo?

 – Non ho questa pretesa. Basterà un angolo.

 – E da quell’angolo saliremo all’attacco, – disse il fiammingo.

 – Benissimo, don Ercole, – rispose il guascone.

 – Quando faremo il colpo? – chiese Mendoza.

 – Questa sera e saremo, io spero, favoriti da un buon uragano. Vi sono delle dense nubi all’orizzonte e cadrà certamente un furioso acquazzone.

 – E la polvere? – chiese Mendoza.

 – Ecco chi ce la procurerà, – rispose il guascone.

 Un uomo s’avanzava lungo il margine del fossato, fischiando tranquillamente, quantunque buon numero di palle cadessero anche oltre il bastione. Era Raveneau de Lussan.

 Vedendo i tre uomini seduti intorno alla fiasca, si fermò, dicendo:

 – È cosí che voi combattete?

 – Signor de Lussan, – disse il guascone, – noi cerchiamo in fondo a questa fiasca la soluzione d’un grande problema.

 – Quale?

 – Quella di darvi nelle mani la fortezza.

 Il gentiluomo guardò attentamente l’avventuriero, poi disse, ridendo:

 – Ah!… Il famoso guascone!… Credevo di vedervi già sui bastioni della fortezza.

 – Adagio, mio caro signore, – rispose don Barrejo, un po’ piccato. – Io non vi ho detto, poco fa, di farla capitolare in dieci minuti. Voi siete?

 – Della Turenna.

 – Io della Guascogna: due dipartimenti che hanno dato sempre dei bravi soldati.

 – Non dico il contrario signor…

 – Per voi sono Gastone de Lussac, per gli altri don Barrejo.

 – Un gentiluomo della Guascogna! – esclamò Raveneau, un po’ sorpreso, tendendogli la destra.

 – Voi già sapete che sulle coste del mar di Biscaglia il sangue azzurro abbonda, – rispose l’avventuriero. Possiamo offrirvi un sorso?

 – Il buon vino non fa mai male e si sa che i guasconi sanno berlo sempre eccellente.

 Prese la fiasca che don Barrejo gli offriva e bevette alcuni sorsi.

 – Ora, signor di Raveneau, dovete mettere a nostra disposizione due barili di polvere, – disse il guascone.

 – Per che cosa farne?…

 – Non ve l’ho detto? Noi vogliamo, questa sera, far saltare almeno un pezzo della fortezza.

 – Voi siete pazzi!…

 – Niente affatto, signor Raveneau – disse Mendoza. – Abbiamo compiuto noi tre ben altre imprese.

 – E vi assicuro che domani il marchese sarà nelle mani del conte di Ventimiglia, – aggiunse don Barrejo. – Sapete bene che gli è necessario.

 – Siete della brava gente, – disse il gentiluomo turennese.

 Prima del tramonto, se la fortezza non si sarà resa, avrete i due barili di polvere. Arrivederci presto, signor de Lussac e badate che le palle non risparmiano neanche i guasconi, ve lo assicuro io.

 Ciò detto si allontanò, mentre i tre compari riprendevano la bevuta, senza occuparsi della battaglia che ferveva nel centro della città.

 Mentre una grossa partita di corsari, scelti per lo piú fra gli antichi bucanieri, tenevano occupata la guarnigione del forte, gli altri, dopo d’aver cacciati dalla città gli abitanti, non desiderando fare dei prigionieri, i quali potevano creare piú dei serii imbarazzi che altro, si erano dati al saccheggio.

 Furono però in gran parte delusi, poiché gli abitanti, che erano stati avvertiti dell’avvicinarsi di quei formidabili ladroni, avevano avuto il tempo di sotterrare la maggior parte delle loro piú preziose cose.

 Durante tutta la giornata il cannone non cessò di rombare, sventrando un gran numero di case e mettendo a dura prova l’ostinazione e la bravura dei bucanieri.

 Il marchese di Montelimar, il quale forse aveva saputo della presenza del figlio del Corsaro Rosso fra i filibustieri, difendeva tenacemente la rocca e non si curava di rispondere alle continue intimazioni di resa.

 Nemmeno la minaccia fattagli da Grogner di passare a filo di spada l’intera guarnigione, nel caso che i filibustieri fossero riusciti ad impadronirsi della fortezza, lo aveva scosso.

 Quando il sole scomparve, le artiglierie spagnuole tuonavano piú furiosamente che al mattino, alternando palle e bordate di mitraglia.

 Il cielo era diventato oscurissimo ed enormi nuvole correvano all’impazzata, spinte da un fortissimo vento di ponente.

 In lontananza lampeggiava e rumoreggiava il tuono.

 I tre avventurieri che non avevano lasciato, durante tutte quelle ore, il fossato del bastione, si erano alzati.

 Raveneau de Lussan aveva mantenuta fedelmente la sua parola, facendo portare loro due barilotti di polvere di trenta libbre ciascuno.

 – Compari, – disse il guascone. – Questo è il momento buono per tentare il colpo. Avete le miccie, signor Mendoza?

 – Me ne hanno date una mezza dozzina, – rispose il basco.

 – Don Ercole, voi non avete paura?

 – Un fiammingo!… Che cosa dite, signor mio?

 – Benissimo: andiamo a vedere se possiamo diroccare un pezzo di quella maledetta rocca.

 – E se possiamo anche prendere il marchese.

 – Oh!… Oh!… Don Ercole!… Ora andate troppo innanzi. Vi sono duecento uomini dentro la fortezza e non sarà cosa facile fare i conti con loro, pur essendo noi guasconi, baschi e fiamminghi. Se gli spagnuoli non tirano come i filibustieri, sanno lavorare benissimo di spada e d’alabarda, signor mio. Chi s’incarica dei barilotti?

 – Io, – rispose prontamente il fiammingo.

 – Don Ercole deve essere sempre un Ercole, – disse Mendoza, gravemente.

 Cominciava a gocciolare, quando lasciarono il fossato del bastione.

 Non erano però le gocce che cadono da noi. Rimbalzavano sulla terra come se fossero enormi chicchi di grandine, con un rumore strano, tanto erano grosse.

 I filibustieri si erano affrettati a rifugiarsi nelle case, mentre i venti pezzi della fortezza, non cessavano di tuonare come se volessero gareggiare coi fulmini che squarciavano, di quando in quando, le tempestose nubi gravide di pioggia.

 I tre avventurieri attraversarono il bastione e s’avviarono verso la fortezza, seguendo dei viottoli per non ricevere qualche bordata di mitraglia.

 Un quarto d’ora dopo giungevano sulla spianata.

 Pioveva a dirotto ed i filibustieri avevano sospeso il fuoco. Anche gli spagnuoli non sparavano che qualche raro colpo, tenendosi certi che i loro nemici non avrebbero osato assalirli con una cosí pessima notte.

 Sparavano ancora per avvertirli che vegliavano e che non volevano lasciarsi sorprendere.

 – Siate prudenti, – disse il guascone ai suoi due compagni.

 Collocheremo i barili sull’angolo di ponente della fortezza che mi è parso meno robusto degli altri. Quello che vi raccomando è di non far rumore.

 – Gli spagnuoli stanno fumando dietro ai merli o nelle casematte, disse il fiammingo.

 Solamente dei pazzi come noi potrebbero passeggiare sotto questo acquazzone indiavolato.

 – Vi lagnate?

 – Niente affatto: è un bagno delizioso. La giornata è stata straordinariamente calda.

 – Con quel po’ di vino che abbiamo bevuto! – brontolò Mendoza.

 Protetti dalle tenebre avevano attraversata felicemente la spianata e stavano inerpicandosi su per la scarpata, tenendosi curvi verso terra.

 Ogni quattro o cinque minuti un colpo di cannone echeggiava sopra le loro teste, seguito poco dopo dal fragore di una casa che crollava.

 I tre avventurieri erano però ormai al sicuro. Solamente i fucili avrebbero potuto snidarli, ma gli spagnuoli, che si tenevano dietro alle grosse merlature, non li avevano ancora scorti.

 L’oscurità d’altronde era fittissima, dopo che i lampi erano cessati.

 Arrampicandosi come le capre, il guascone, ed i suoi compagni riuscirono finalmente a raggiungere l’angolo del forte ed a cacciarsi sotto una specie di arcata, la quale sorreggeva una lunetta armata d’un paio di pezzi.

 – Ecco una mina pronta, – disse il guascone, sottovoce.

 Quest’arcata non può resistere all’esplosione di sessanta libbre di polvere.

 – L’intera lunetta cadrà, insieme ai pezzi che regge.

 – Un assalto sarà possibile dopo, almeno da questa parte. Signor Mendoza, preparate le miccie.

 – Gli spagnuoli non vedranno la luce che proietteranno queste miccie? – chiese il corsaro.

 Il guascone, senza badare che poteva prendersi una palla d’archibugio nel cranio, lasciò l’arcata e si spinse fuori, guardando verso i merli che proteggevano la lunetta.

 – Ma che! – disse. – Chi si occupa di noi? Piove e quando piove si ama meglio stare al coperto. Termineremo i nostri affari, senza che nessuno venga ad inquietarci.

 Tornò verso l’arcata dove Mendoza ed il fiammingo stavano preparando la miccia.

 – Siamo al sicuro, – disse loro, – almeno fino a che i barili scoppieranno. Sono bene assicurate le miccie, signor Mendoza?

 – E lo domandate ad un vecchio filibustiere?

 – Date fuoco dunque e poi via di corsa.

 Il basco accese l’esca e dette fuoco alle due funicelle incatramate e cosparse di polvere da sparo.

 Il guascone si assicurò prima che tutto fosse fatto esattamente, poi alzò i tacchi, dicendo:

 – Alla larga!… Non saltiamo insieme alla fortezza.

 Lasciarono l’arcata e si slanciarono a corsa disperata giú per la scarpa.

 Avevano percorsi pochi metri, quando si udí una voce a gridare:

 – All’armi!… I filibustieri!…

 Poi rimbombò un colpo d’archibugio.

 – Gambe! – gridò il guascone, il quale spiccava dei salti straordinarii.

 Sette od otto spari rimbombarono. Gli spagnuoli dovevano però aver sparato a casaccio essendo l’oscurità sempre profondissima.

 In un lampo i tre avventurieri scesero la scarpata, attraversarono la spianata e si precipitarono attraverso la prima viuzza che si videro dinanzi, rifugiandosi in una catapecchia disabitata.

 Gli spagnuoli, credendo che i filibustieri tentassero una sorpresa, sparavano furiosamente in tutte le direzioni.

 Cannoni ed archibugi tuonavano con un crescendo spaventoso, bombardando i quartieri della città.

 Lampi vivissimi illuminavano la notte, mentre una immensa nube rossastra s’alzava sulla fortezza, prodotta forse da numerosi falò accesi sulle spianate interne.

 I filibustieri, i quali avevano già scorti i tre terribili avventurieri scendere a corsa disperata la scarpata al balenar delle artiglierie, erano balzati fuori dai loro rifugi, impegnando risolutamente la lotta a colpi d’archibugio, in attesa di montare all’assalto.

 Si erano radunati dietro la cattedrale che s’innalzava sulla piazza maggiore, per essere piú pronti a formare le colonne d’attacco sotto la guida dei rispettivi capi.

 Il guascone, da una finestra della catapecchia, fissava intensamente due piccoli punti luminosi che brillavano sotto l’arcata.

 Erano le miccie dei due barili.

 – Ancora mezzo minuto e la lunetta salterà, – disse al basco che gli stava dietro. – L’arcata protegge le miccie dalla pioggia.

 La batteria centrale continuava sempre piú furiosa i suoi tiri. I filibustieri, non curanti della pioggia che si rovesciava con estrema violenza sulla città, avevano già formate le colonne d’assalto e s’avanzavano attraverso le strette viuzze, stringendo le sciabole d’arrembaggio e cercando di riparare le pistole da quel diluvio.

 Ad un tratto un lampo vivissimo brillò sotto l’ultimo angolo della fortezza, seguito da un rimbombo assordante e da un fragore sinistro.

 I due barili erano scoppiati quasi contemporaneamente, ed avevano mandato all’aria l’arcata, facendo crollare l’intera lunetta.

 Un grido immenso echeggiò subito fra le tenebre, lanciato da centinaia di bocche.

 – All’assalto!

 Le quattro colonne, guidate dal figlio del Corsaro Rosso, da Grogner, da Tusley e dal signor Raveneau de Lussan, si erano slanciate su per le scarpate, urlando ferocemente.

 I tre avventurieri avevano prontamente raggiunto il loro capitano per essere i primi a montare all’attacco.

 La fortezza tuonava con un frastuono orrendo. Tutta la guarnigione era accorsa sugli spalti, affollandosi specialmente verso la lunetta che piú non poteva difenderli.

 L’esplosione di quelle sessanta libbre di polvere aveva prodotto uno squarcio largo parecchi metri, facendo franare il terrazzo ed i due pezzi d’artiglieria che vi si trovavano.

 La colonna del figlio del Corsaro Rosso, composta dei sessanta uomini della fregata e dei tre avventurieri, fu la prima a giungere dinanzi alle rovine della lunetta.

 I filibustieri di Tusley e di Raveneau de Lussan avevano dato l’attacco dall’altra parte, per distogliere una parte delle forze spagnuole e, come usavano sempre, si erano messi a scagliare bombe verso i merli per allontanare i difensori, con poco successo però, in causa della pioggia che continuava a cadere con estrema violenza.

 Il conte che era alla testa della colonna si slanciò risolutamente fra le rovine della lunetta, gridando con voce tuonante:

 – All’assalto, miei valorosi!

 Stava per spingersi in alto, quando un uomo gli si gettò dinanzi, dicendogli:

 – Lasciate che vi faccia scudo, signor conte.

 Era il guascone.

 – Grazie, – rispose il signor di Ventimiglia, – ma il primo devo essere io. Voi passerete dopo di me.

 Scostò colla sinistra il valoroso avventuriero e si precipitò all’attacco, sparando le sue pistole e poi impugnando la spada.

 I tre avventurieri ed i corsari della Folgore lo avevano seguito, pressati dai filibustieri di Grogner, i quali erano pure giunti.

 Una mezza compagnia di alabardieri difendeva l’angolo del forte.

 Il conte si scagliò risolutamente fra le alabarde, aprendosi il passo a gran colpi di spada ed impegnò la lotta, spalleggiato vigorosamente dai suoi uomini.

 Il passaggio era stretto, sicché combattevano male tanto gli spagnuoli quanto i filibustieri, anche perché né gli uni né gli altri potevano far uso degli archibugi con quell’acquazzone furioso che non accennava a cessare e che bagnava le polveri.

 Il conte, che combatteva disperatamente, facendo impeto contro gli avversarii, validamente appoggiato dalle draghinasse dei tre fracassoni, le quali tagliavano le aste delle alabarde come se fossero fuscelli di paglia, riuscí finalmente ad aprire il passo ai corsari ed a sbucare sul terrazzo.

 Gli spagnuoli, quantunque scoraggiati, si ressero ancora per parecchi minuti, disputando ferocemente il terreno palmo a palmo; poi, sopraffatti dal numero, poiché anche i filibustieri di Grogner erano montati all’assalto, si ripiegarono confusamente verso l’ampio piazzale del forte, tentando d’arrestare quella valanga umana a colpi di cannone.

 Anche quelli che difendevano le merlature di ponente, contro gli infruttuosi attacchi delle genti di Tusley e di Raveneau de Lussan, erano accorsi per prendere parte alla lotta, incoraggiatí dalla presenza del marchese di Montelimar.

 Una mischia sanguinosa s’impegnò davanti al castello centrale, con perdite gravissime da ambe le parti, mischia che ebbe però la durata di brevi istanti, poiché i filibustieri delle due altre colonne ne avevano subito approfittato per scalare i merli ed invadere la piazza.

 Presi di fronte e alle spalle, gli spagnuoli, giudicando ormai inutile ogni resistenza, gettarono le armi.

 I filibustieri, resi feroci da tanta resistenza, stavano per precipitarsi sui disgraziati e passarli a fil di spada, quando il conte di Ventimiglia intervenne.

 – Si ringuainino le spade e le sciabole d’arrembaggio! – gridò, con voce tuonante. – Dove combatte un Ventimiglia non si assassina della gente inerme!… Giú le armi!… È il figlio del Corsaro Rosso che ve lo ordina!…

 – Obbedite! – gridò Raveneau de Lussan ai suoi uomini.

 Uno spagnuolo che aveva il vestito macchiato di sangue, si era fatto largo fra i suoi soldati e si era avanzato verso il conte, seguito da un altro che portava una lanterna staccata dalla batteria.

 – Mi avete preso, signor di Ventimiglia, – disse, con voce un po’ aspra. – Che cosa volete fare ora di me?

 – Chi siete voi? – chiese il figlio del Corsaro Rosso.

 – Il marchese di Montelimar.

 Il conte aveva mandato un grido, fissando attentamente il gentiluomo.

 – Che cosa volete ora da me? – seguitò il marchese, incrociando le braccia. – Avevo già saputo che mi cercavate.

 – Questo non è né il luogo, né il momento, – rispose il conte.

 – Volete favorire nel mio gabinetto?

 – Sono pronto a seguirvi.

 Grogner si avvicinò al conte, dicendogli:

 – Non vi fidate di questa gente.

 – Sono un gentiluomo, – rispose il marchese con fierezza.

 – E poi, noi lo accompagneremo, – disse il guascone.

 – Signor Grogner, – disse il conte, – occupatevi dei prigionieri e saccheggiate quanto credete che possa essere utile ai vostri uomini.

 – Come volete, conte, – rispose il filibustiere.

 – Sono ai vostri ordini, marchese, – disse il signor di Ventimiglia.

 Il gentiluomo spagnuolo sorrise tristamente; poi, preceduto dal soldato che portava la lanterna, entrò nel castello del forte, seguito dal figlio del Corsaro Rosso e dai tre avventurieri, mentre i corsari si rifugiavano nelle casematte, in attesa che l’acquazzone cessasse, conducendo con loro i prigionieri.

 Il marchese attraversò parecchi androni ingombri di barili di polvere e di piramidi di palle, poi aperse una porta, dicendo:

 – Entrate, conte: qui non avrete nulla da temere.

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