LA VILLA DELLA MARCHESA DI MONTELIMAR

CAPITOLO IX

 

 LA VILLA DELLA MARCHESA DI MONTELIMAR

 

 Quantunque esausti per la lunga corsa, i quattro uomini, con uno sforzo supremo, superarono la cinta cadendo in mezzo ad una splendida piantagione di banani che con le loro immense foglie potevano celarli agli sguardi degli inseguitori.

 Buttafuoco, dopo aver dato un rapido sguardo all’intorno e aver ripreso respiro, fece cenno ai suoi amici di seguirlo senza indugio.

 Si cacciò tra le splendide piante e, dopo aver percorso quattro o cinquecento metri, si fermò dinanzi ad un padiglione costruito tutto in pietra e sormontato da un vasto terrazzo.

 – Pel momento nascondiamoci qui – disse. – Gli spagnuoli non oseranno, almeno per questa notte, importunare i servi e i camerieri della marchesa.

 – E noi come verremo accolti dall’intendente della signora? – chiese il conte.

 – Sono conosciuto – rispose Buttafuoco. – Piú volte sono venuto qui a provvedermi di polvere e di piombo dopo il servigio reso alla marchesa. Sono come un amico.

 – E questa è una fortuna! – disse Mendoza. – Se noi ci fossimo presentati, avrebbero potuto prenderci per filibustieri e darci dei buoni pezzi di piombo, invece che dei pranzi e delle colazioni.

 – Forse la marchesa avrà mandato qui qualche corriere per avvertire l’intendente del nostro arrivo – rispose il conte.

 – O sarà venuta in persona – aggiunse Buttafuoco. – Non mi stupirei. Entriamo, e poi penserò io a chiamare l’intendente, se non si è ancora coricato. Per ora non avete nulla da temere.

 Con un poderoso colpo di spalla il bucaniere spalancò la porta ed introdusse i suoi compagni in un’ampia stanza che era ingombra di enormi vasi contenenti delle piante rare.

 – Aspettatemi qui – disse. – Forse troverete della frutta che potrà servirvi da cena. Sento profumo di ananassi.

 – Eccellenti dopo un buon arrosto – disse Mendoza.

 – Contentatevi della frutta per ora – rispose il bucaniere ridendo. – Vi servirà d’antipasto e aguzzerà il vostro appetito.

 Prese il suo archibugio, salutò il conte e uscí cautamente, scomparendo fra le tenebre.

 – Che diavolo! – disse Mendoza. – Quello lí deve avere nelle vene il sangue d’un giaguaro.

 – Se vi fossero in San Domingo cento di quei bucanieri, non so come finirebbero le cinquantine – disse il guascone. – Io non vorrei trovarmi nei panni degli spagnuoli.

 – Eppure siete ancora mezzo spagnuolo.

 – Ho solamente la corazza spagnuola, signor conte – rispose il guascone – e quando sarò a bordo della fregata del signor conte, mi sbarazzerò anche di questa.

 – Se ci giungeremo!

 – Ne dubiti, Mendoza? – chiese il signor di Ventimiglia, un po’ sorpreso del pessimismo del suo marinaio.

 – Che cosa volete? Non vedo la fine di questa avventura.

 – La fine ce la fornirà la marchesa di Montelimar.

 – Non dico che quella non sia una donna prodigio, capitano. Come ci ha salvati una volta, potrebbe farlo ancora.

 – Silenzio, signor conte – disse in quel momento il guascone – Mi pare che si parli di fuori.

 – Saette e lampi! – esclamò Mendoza balzando in piedi – Che gli spagnuoli siano già qui?

 Anche il conte si era slanciato verso la porta sgangherata puntando l’archibugio. Si udivano scricchiolare i sassolini del viale che conduceva al padiglione.

 – Chi vive? – gridò il conte con voce minacciosa.

 – Abbassate il fucile, signor conte – rispose Buttafuoco. – Non spaventate la signora.

 – La signora?…

 – Sí, perché sono proprio io, signor di Ventimiglia – rispose una voce deliziosa e ben nota.

 La marchesa di Montelimar, munita di una torcia, era comparsa sulla soglia, sempre allegra e sempre sorridente, col capo avvolto in una ricchissima manta di seta bianca che faceva spiccare piú vivamente la sua bruna bellezza di andalusa.

 – Voi, marchesa! – esclamò il conte.

 – Non credevate di trovarmi qui, è vero, signor di Ventimiglia?

 – No, marchesa.

 – Era necessario salvarvi un’altra volta, perciò ho lasciato San Domingo. Gli ospiti che hanno diviso con me la mia tavola, siano pure dei nemici della mia patria, che pur adoro coll’entusiasmo delle donne di Spagna, sono sacri.

 – Avevate dunque saputo che mi davano la caccia?

 – Vi dirò anzi che hanno messo in moto tutte le cinquantine disponibili per catturarvi prima che poteste lasciare l’isola, poiché ormai tutti sanno che siete il figlio del Corsaro Rosso ed il nipote di quegli altri due formidabili corsari che si chiamano il Nero e il Verde.

 – Come hanno potuto indovinarlo? – chiese il conte, il quale appariva preoccupato.

 – Non lo so – rispose la marchesa. – Come vi ho salvato a San Domingo, vi salverò anche qui. Anzi mi diverto in questa caccia all’uomo e vedremo se sarà più astuto il governatore di San Domingo o la marchesa di Montelimar.

 – Voi correte però il pericolo di compromettervi.

 La bella andalusa alzò le spalle, poi, mostrando i suoi magnifici denti scintillanti come perle, disse con un adorabile sorriso:

 – Una Montelimar sarà sempre una Montelimar in qualunque luogo vada. Anzi mi ammirerebbero di piú, quando si sapesse che io ho favorito la vostra fuga. Voi sapete quanto gli spagnuoli siano cavallereschi.

 – È vero – disse il conte. – Vi è però una cosa che mi preoccupa assai.

 – Quale? Parlate, conte…

 – Che sia libera la via che conduce al capo Tiburon? La mia fregata mi aspetta là.

 – Ho degli uomini fedeli con me e li manderò su quella via ad informarsi. E poi troverò ben io un mezzo per farvi passare tranquillamente attraverso le cinquantine. Signor conte, la cena a quest’ora dev’essere pronta; so da questo bravo bucaniere che non avete mangiato nulla da stamane. Come avete accettato un pranzo, accettate anche una cena.

 – Buttafuoco è un uomo veramente meraviglioso! – mormorò Mendoza. – Pensa a tutto!

 La dama uscí accompagnata dal conte e dai suoi uomini.

 Buttafuoco stava fuori di guardia.

 – Nulla, bucaniere? – chiese la marchesa.

 – No, signora – rispose Buttafuoco. – Gli spagnuoli non sono ancora giunti. Forse aspetteranno l’alba per farci una visita.

 – Vengano pure: ho la cantina ben fornita e darò da bere a tutti i soldati. Signor conte, seguitemi.

 Il signor di Ventimiglia porse alla marchesa il braccio e s’incamminarono attraverso la piantagione di banani, da dove passarono in un bellissimo giardino.

 Nel mezzo sorgeva un palazzotto di stile moresco, con ampie gallerie e cupolette e un vasto cortile interno, in cui sussurravano due zampilli d’acqua che mantenevano una deliziosa frescura durante gl’infuocati pomeriggi estivi.

 Sotto un porticato parecchie candele, collocate su doppieri d’argento, illuminavano una tavola riccamente imbandita.

 – Siete una fata, marchesa – disse il conte.

 – Sí, una fata del bosco – rispose la bella andalusa ridendo. – o meglio dei banani, perché qui non si coltivano che quelle deliziose frutta. Signor Buttafuoco, volete farmi l’onore di cenare con noi? Pei vostri compagni ho fatto preparare sul terrazzo di ponente della casa: cosí potranno sorvegliare meglio di lassú le mosse delle cinquantine ed incoraggiare, con la loro presenza, anche i miei uomini.

 Il guascone fece un profondo e corretto inchino, mentre Mendoza si dimenava comicamente, non sapendo far di meglio.

 Ad un cenno della marchesa, due schiavi africani erano comparsi per condurre l’avventuriero ed il lupo di mare al posto loro assegnato.

 – Conte, ceniamo – disse la marchesa, la quale pareva di buonissimo umore, nonostante la presenza delle cinquantine. – L’ora è molto tarda, tuttavia farò del mio meglio per tenervi compagnia.

 Il figlio del Corsaro Rosso e Buttafuoco non si fecero ripetere due volte l’invito ed attaccarono vigorosamente le diverse vivande fredde, condite con molto pimento e assai gustose.

 La marchesa si accontentava di sgretolare coi suoi dentini delle piccole focacce di granoturco, coperte da un fitto strato di siroppo.

 – Direte che noi siamo indiscreti, signora, – disse Buttafuoco – ma in questi due giorni di caccia ostinata non abbiamo avuto il tempo di fare un pasto regolare.

 – Due giorni, barone di…

 – Barone! – esclamò il signor di Ventimiglia, balzando in piedi, mentre il bucaniere faceva alla marchesa un rapido gesto.

 – Perdonate, Buttafuoco – disse la bella andalusa. – Vi avevo, in un momento di distrazione, scambiato per il barone di Giralda.

 Il conte aveva guardato attentamente il bucaniere, il quale era divenuto pallidissimo.

 – Chi siete voi dunque? – gli chiese.

 – Buttafuoco! – rispose l’avventuriero, con un’amarezza cosí profonda che non sfuggí al corsaro.

 – Voi mi nascondete il vostro nome.

 – Il mio l’ho sepolto nell’oceano, sotto la linea equatoriale – rispose il bucaniere con voce cupa, passandosi piú volte una mano sulla fronte, come per tergersi delle stille di sudore freddo.

 – Dicevate, signora marchesa?…

 – Non ricordo… ah… sí… mi avete detto che da due giorni le cinquantine vi danno la caccia.

 – E con molti cani per di piú.

 – E siete riusciti sempre a sfuggire agli agguati? Qui non vi troveranno; non è vero, signor conte?

 – Disperavo di poter raggiungere la vostra fattoria, marchesa – rispose il corsaro. – Non saprei ancora dirvi come siamo passati attraverso le cinquantine.

 La bella andalusa rimase qualche istante come immersa in un profondo pensiero; poi, guardando il conte, gli chiese:

 – Io non so che cosa darei per conoscere quale imperioso motivo ha ricondotto qui, dopo tanti anni, il figlio ed il nipote dei tre formidabili corsari. Un capriccio, qualche vendetta od altro? Non si arriva dall’Europa, né si gioca audacemente la vita, come avete fatto voi, senza un motivo grave. Credo di avervi già dato sufficienti prove di amicizia, perché possiate ritenermi una donna incapace di tradire uno dei vostri segreti e di perdervi.

 – Oh, marchesa! – protestò il signor di Ventimiglia.

 – Forse voi fra ventiquattro ore tornerete ad imbarcarvi sulla vostra fregata – proseguí la bella andalusa con un sospiro – e noi, probabilmente, non ci rivedremo mai piú… ed il bel sogno sarà finito. Parlate; siete fra una gentildonna ed un gentiluomo.

 – Buttafuoco?…

 – Io so chi è! – disse la marchesa.

 – Voi dunque volete conoscere per quale ragione io ho lasciato l’Europa per corseggiare l’America? Non per sete di avventure; non per sete di ricchezza, che io disprezzo altamente, signora, avendo laggiú sulla riviera ligure terre e castelli… è per chiedere a vostro cognato, l’ex governatore di Maracaibo, che cosa ha fatto di mia sorella, della nipote del gran Cacico del Darien!

 – Del Darien! – esclamarono ad una voce la marchesa ed il bucaniere.

 – Mio padre, prima di salpare per l’America insieme ai suoi fratelli, il Corsaro Nero ed il corsaro Verde, per compiere una vendetta, aveva sposato una duchessa del Brabante, la quale morí giovanissima, dopo d’avermi dato alla luce, e perciò non conobbi mai – disse il signor di Ventimiglia con voce triste. – In una delle sue crociere attraverso il golfo, mio padre naufragò e trovò asilo sicuro presso il gran Cacico del Darien, nemico giurato e terribile dei vostri compatrioti, signora marchesa. Ebbe aiuti, onori e gli fu offerta in isposa una principessa del paese, dalla quale ebbe una figlia. Quando mio padre fu sorpreso nei bassifondi di Maracaibo, e fu preso ed appiccato, non come un valoroso marinaio che lottava per una santa causa, ma come un volgare malfattore, aveva con sé quella fanciulla. Che cosa ne ha fatto vostro cognato, il marchese di Montelimar, ex governatore di Maracaibo? Io lo ignoro. Perciò sono venuto qui a chiedergli stretto conto di mia sorella e, se l’ha uccisa, vi giuro, signora, che la lama di Ventimiglia berrà il suo sangue. Allevato alla Corte dei duchi di Savoia, io ho sempre ignorato che mio padre avesse lasciata qui una figlia. Informato qualche anno fa da Morgan, il famoso conquistatore di Panama, ed ora governatore della Giamaica, di questo fatto, da lui conosciuto probabilmente per mezzo di Jolanda sua moglie, la figlia del Corsaro Nero, sono venuto a cercarla. Abbia pur nelle vene sangue indiano, è sempre mia sorella e la troverò, o vivaddio rinnoverò le gesta dei tre corsari e non tornerò in Europa senza prima aver compiuto terribili vendette.

 – Vorreste vendicare anche la morte di vostro padre? – disse la marchesa, la quale l’aveva ascoltato col piú vivo interesse.

 – Su questo argomento, marchesa, per il momento non posso parlare – disse il conte quasi con ira.

 – Lo leggo nei vostri occhi.

 – Può essere.

 – E questa vostra sorella dove l’anderete a cercare? – disse Buttafuoco, il quale fino allora era rimasto silenzioso.

 – Il marchese di Montelimar me lo dirà – rispose il conte. – Ormai so dove si trova; poi spero d’avere, fra qualche giorno, nelle mie mani il suo segretario. Se non fosse per questo, la mia fregata non mi aspetterebbe al capo Tiburon, a rischio di essere catturata dai galeoni o dalle caravelle spagnuole. Che cosa ne dite, Buttafuoco?

 Il bucaniere approvò con un gesto del capo.

 – Siete soddisfatta, marchesa? – chiese il conte.

 – Forse non quanto desidererei – rispose la bella andalusa.- Credo che non solamente per ritrovare vostra sorella voi abbiate lasciato l’Italia e siate venuto in questi mari lontani.

 – Mio padre ed i suoi fratelli diventarono corsari per compiere delle vendette – rispose il conte con voce sorda. – È probabile che anch’io debba compierne una; ma questa, signora, deve rimanere un segreto fra me e Dio.

 Il bucaniere riempí il bicchiere del conte, dicendo:

 – Bevete, signore: l’ aguardientesopisce e soffoca in me, piú di quello che credete, terribili ricordi: questo delizioso vino di Spagna calmerà i vostri.

 In quello stesso momento in cui il conte, forse convinto dalle parole del misterioso avventuriero, stava per vuotare la tazza, un negro si precipitò nel porticato, col viso sconvolto, la pelle grigiastra, gli occhi di porcellana dilatati, dicendo:

 – Sono qui, signora: sono entrati.

 – Chi? – chiese la marchesa aggrottando la fronte.

 – Una cinquantina intera.

 – Con qual diritto?

 – Ordine del governatore di San Domingo.

 – Comincia a diventare noioso quel signore! – disse la marchesa alzandosi.

 – Amici, non sarebbe prudente che voi rimaneste ancora qui. Ci hanno interrotta una notte deliziosa, ma io no ne ho nessuna colpa… Marto, chiama subito gli uomini che cenano sulla terrazza.

 – Che cosa volere fare, Marchesa? – chiese il bucaniere.

 – Nascondervi.

 – Nella vostra palazzina? Con un ordine del governatore non si tratterranno dal frugarla da cima a fondo.

 La signora di Montelimar ebbe un sorriso.

 – Lasciate fare a me, conte – disse.

 – Avete qualche nascondiglio segreto anche qui?

 – Vi mando nelle mie cantine.

 – Bel luogo! – disse Mendoza che entrava in quel momento, seguito dal guascone.

 – Marto, conduci questi signori nell’ultima cantina, quella che è piena di botti. Gli spagnuoli non giungeranno fin là; rispondo io di tutto, conte.

 I quattro uomini seguirono il servo negro, il quale si era munito di parecchie torce e d’un paniere dove aveva messo i resti della cena.

 Giunti all’estremità dell’ampio cortile Marto aprí una porticina e li fece scendere per una scaletta stretta e umida, e li condusse poi attraverso spaziose cantine piene di botti grossissime.

 – Compare, – disse il guascone battendo sulle spalle di Mendoza – giú vi è da bere a crepapelle.

 – E noi berremo! – rispose il filibustiere. – Ne assaggeremo un po’ da tutti quei recipienti. La marchesa non deve bere che del vino delle Canarie o di Alicante.

 Attraversate parecchie cantine, giunsero finalmente nell’ultima, assai lunga e stretta, e anche quella ingombra di botti e di barili.

 – È un paradiso un po’ oscuro, ma pur sempre un paradiso, – disse Mendoza, facendo schioccare la lingua.

 – Passate, signori, – disse il negro – perché devo ostruire l’entrata con dei barili.

 – Non ci seppellirai vivi, spero – disse il guascone.

 – Non abbiate questo timore – rispose l’africano sorridendo.

 Il conte, Buttafuoco e i due avventurieri s’affrettarono a rifugiarsi nella cantina, portando le torce, gli archibugi ed il paniere, mentre Marto spingeva contro l’apertura, molto bassa e molto stretta, una grossa botte, ostruendo e nascondendo completamente il passaggio.

 – Speriamo che questa avventura sia l’ultima! – disse il conte, dopo aver piantata in terra una torcia. – Che ne dite, Buttafuoco?

 – Eh! – rispose il bucaniere, il quale non sembrava molto tranquillo. – Non so se la marchesa potrà resistere ad un ordine scritto dal governatore di San Domingo.

 – Che ci vengano a scovare?

 – Non saprei che cosa rispondere alla vostra domanda, signor conte.

 – Se verranno, ci difenderemo – disse Mendoza. – Qui siamo come in una casamatta.

 – Ma senza uscite – aggiunse il guascone. – Noi siamo come lupi rinchiusi nella loro tana con i cacciatori all’ingiro.

 – In attesa che i cacciatori si mostrino o si ritirino, io avrei una proposta da fare – disse Mendoza.

 – Quale? – chiese il conte.

 – Di terminare la cena, giacché quel bravo pagano dell’Africa ha avuto la buona idea di empire il canestro; e poi di assaggiare il vino di questa botte.

 Sono curiosissimo di sapere quali vini beve la marchesa e quali offre ai suoi ospiti. Vi pare, don Barrejo?

 – Un guascone non rifiuta mai di bere! – rispose l’avventuriero, con sussiego.

 – Signore conte, – disse Buttafuoco, il quale non aveva potuto frenare uno scoppio di risa – dove avete raccolti questi due diavoli?

 – Uno l’ho pescato nel mar di Biscaglia – rispose il signor di Ventimiglia.

 – E me fra i boschi di San Domingo, presso Puerta del Sol aggiunse il guascone. – Ma anch’io ho respirato l’aria salubre del mar di Biscaglia.

 Compare, terminiamo la cena, se il signor conte ce lo permette: io non ho avuto che il tempo di assaggiare una costoletta di cinghiale, coriacea come la carne d’un mulo centenario.

 – Fate pure – disse il signor di Ventimiglia. – Io preferisco, finché gli spagnuoli ci lasciano un po’ di respiro, chiudere gli occhi.

 – Ed io altrettanto – aggiunse il bucaniere. – Se si dovrà impegnare nuovamente la lotta, saremo almeno riposati. Affidiamo a voi la guardia.

 – Un guascone non s’addormenta mai in faccia al nemico – disse don Barrejo.

 – E nemmeno un basco! – aggiunse Mendoza.

 – Si sono ben appaiati – brontolò il bucaniere.

 Il conte si era già coricato fra due botti ed aveva subito chiusi gli occhi. Buttafuoco non tardò ad imitarlo, mentre il filibustiere ed il suo degno compagno si accoccolavano intorno al canestro, pescando e divorando quanto vi era dentro, per nulla preoccupati dell’imminente pericolo che li minacciava.

 – Sapete, don Barrejo, che voi resistete meravigliosamente al sonno? – disse Mendoza, quando non vi fu piú nulla da porre sotto i denti.

 – E che!… Un guascone!…

 – Questi guasconi sono dunque delle macchine?

 – Quasi, compare.

 – Se provassimo la nostra resistenza al vino?

 – Era quello che volevo proporvi. Quel brutto negro si è dimenticato di mettere delle bottiglie nel canestro. Ma non valeva la pena che s’incomodasse; non siamo qui in una cantina marchionale? Sono qualche volta una bestia, compare – disse l’avventuriero. – Quantunque guascone!…

 – Eh, qualche volta anche noi diventiamo bestioni; ma io rimedio subito…

 – Guardate che bella pancia ha quel bottale!… Scommetterei che contiene dello Xeres.

 – No, dell’Alicante.

 – Ma che!… Xeres.

 – Me ne intendo io di vini di Spagna!

 – Anche senza assaggiarli?… Compare!… Voi siete un uomo meraviglioso!… Scommettiamo uno dei vostri dobloni?

 – Vada per il doblone, – rispose don Barrejo, – Si troverà meglio nelle vostre tasche che in quelle degli spagnuoli. Spillate, compare, vedremo chi avrà ragione.

 Mendoza, che aveva già adocchiato un grosso boccale di terra, nascosto sotto una trave e che serviva probabilmente ai cantinieri per gustare il vino della marchesa all’insaputa dell’intendente, andò a spillare il panciuto recipiente, facendo uscire un bel rivoletto color dell’ambra.

 – Caramba ! – esclamò il marinaio. – Voi avete una fortuna indiavolata, signor Barrejo. Questo è vero Alicante!… Che i guasconi abbiano anche un fiuto meraviglioso?

 – Non manca nulla a noi, caro compare! Avete perduto il doblone.

 – Che vi pagherò quando saremo a bordo della fregata, se ci riusciremo.

 Il guascone fece una smorfia, poi alzò le spalle.

 – Bah, – disse – mi consolerò con questo deliziosissimo Alicante. Sentite che profumo, compare? La signora marchesa di Montelimar sa dove fare i suoi acquisti. Su, bevete e passate. Volete farmi morire di sete?

 – No, prima al vincitore! – rispose serio Mendoza, porgendo la brocca.

 Il guascone l’afferrò, allargò per bene le gambe e si mise a bere a garganella, senza nemmeno prendere respiro.

 – Carrai ! – esclamò il filibustiere, facendo un gesto di spavento; – Volete ubriacarvi, don Barrejo?

 – Bah!… Un guascone?… – rispose l’avventuriero staccando per un momento le labbra.

 – Al diavolo tutti i guasconi!… Io mi attaccherò alla botte e vedremo chi berrà piú a lungo.

 Il degno lupo di mare imboccò lo spinello e per parecchi minuti nella cantina non si udí altro rumore che quello prodotto dal gorgoglio del vino che passava attraverso le gole dei due formidabili bevitori.

 Chi sa quanto quel leggero rumore sarebbe continuato, se un improvviso sussurrio di voci, che proveniva dalle ampie cantine, non l’avesse interrotto. Il guascone aveva lasciato cadere il boccale senza averne veduto il fondo, mentre Mendoza chiudeva rapidamente la cannella della botte, dicendo precipitosamente al compagno:

 – Spegnete la fiaccola.

 Il guascone si affrettò ad obbedire.

 – Che stiano per scoprirci? – chiese il lupo di mare.

 – Della gente scende nelle cantine, – rispose don Barrejo, accostandosi alle botti che ostruivano l’entrata. – Vedo delle torcie brillare.

 – Sacco rotto!… Che questa bevuta di Alicante ci porti sfortuna?… Era proprio Alicante, è vero, don Barrejo?

 – Per Bacco!… E del piú fino, – rispose l’avventuriero. – Peccato che siano venuti a guastarci la bevuta. Potevano aspettare un momento, diavolo!… Svegliamo il conte?

 – Non credo che pel momento sia necessario, – rispose Mendoza. – Aspettiamo di vedere quello che succede. Forse avremo ancora l’occasione di riprendere la nostra bevuta senza incomodi testimoni. Ventre di foca!… Sono proprio gli spagnuoli. Guardate, don Barrejo.

 S’avvicinarono entrambi alle botti che occupavano, anzi che nascondevano la porta e spinsero gli sguardi attraverso le fessure lasciate dai grossi recipienti che Marto aveva fatti rotolare.

 Quattro servi della marchesa, tutti schiavi negri, guidati da Marto in persona, erano entrati nella cantina, seguiti da una dozzina di archibugieri spagnuoli i quali portavano delle torcie.

 – Ohé, compare, – disse Barrejo, – va bene essere guasconi e baschi, ma mi pare che la faccenda diventi un po’ seria.

 – Forse meno di quello che credete, – rispose Mendoza. – Non vedete che invece di frugare le cantine s’attaccano alle botti? Scommetterei un mezzo doblone contro cento che quei bravi armigeri sono piú assetati di noi!…

 – E allora noi li imiteremo.

 – Adagio, signor guascone. Non scherziamo troppo con questo delizioso Alicante, specialmente in questi momenti.

 Potrebbero interrompere la loro bevuta e venire a scoprirci e non so che cosa succederebbe allora con troppo vino in corpo. Invece di bucare gli spagnuoli, potremmo bucare le botti.

 – E causare una inondazione.

 – È vero, signor guascone.

 – Ammiro la vostra prudenza.

 – State zitto e vediamo che cosa sta per succedere.

 Gli archibugieri del governatore di San Domingo pareva che avessero affatto dimenticato lo scopo principale della loro escursione nelle cantine della marchesa.

 I servi, guidati da Marto, avevano tratto di sotto le travi che reggevano le monumentali botti, dei grossi boccali e si erano affrettati a riempirli ed i soldati, che forse mai si erano trovati in mezzo a tanta abbondanza, vi avevano dato dentro, bevendo furiosamente Porto, Alicante, Xeres e Madera.

 Perfino il sergente che li guidava, afferrato un boccale e dopo essersi seduto su una trave, si era messo a trangugiare a lunghi sorsi il contenuto.

 – Compare, – disse don Barrejo, che da qualche istante si dimenava come avesse il diavolo in corpo. – E noi assisteremo come due statue ad una simile festa?

 – Avete ragione, signor guascone, – rispose Mendoza. – Quella gente non si occupa che delle botti e siccome noi non siamo botti da spillare non verranno di certo ad importunarci.

 – Voi continuate coll’Alicante, io darò l’assaggio a qualche altro recipiente. Vedremo chi sarà piú fortunato.

 – Io, di certo.

 – Un doblone che troverò di meglio io, invece.

 – Vada! – disse Mendoza. – Già non pagherò nemmeno questo.

 I due compari, che ormai erano legati da una profonda amicizia, stavano per riprendere la bevuta, quando una sorda imprecazione li arrestò.

 Buttafuoco che aveva un udito finissimo e che era abituato a dormire con un solo occhio, si era lasciato scivolare giú dalle botti, chiedendo con voce sommessa:

 – Che cosa succede? Perché avete spenta la fiaccola?

 – Gli spagnuoli ci cercano – aveva risposto Mendoza.

 – Sono già discesi?

 – Sí, ma pare che cerchino piú le botti che noi, – disse il guascone. – Potevate continuare il vostro sonno. E poi non vegliamo forse noi?

 – Parlavate di dar l’assalto anche voi al buon vino.

 – Tanto per scacciare la noia e l’umidità, signor Buttafuoco, – rispose Mendoza.

 – Per ora lasciate in pace le botti, – rispose il bucaniere. – Sono troppo pericolose in certi momenti. Vi rifarete piú tardi.

 – E questo è parlare da saggio, capitano, – disse quel volpone di guascone.

 Buttafuoco si accostò alla porticina e guardò a lungo,

 – La marchesa li ha giuocati, – disse finalmente. – Possiamo aspettare tranquillamente che quei soldati abbiano bevuto.

 La bevuta degli archibugieri del governatore di San Domingo durò una buona mezz’ora, poi tutti se ne andarono, piú o meno malfermi in gambe, e le cantine ridiventarono silenziose e tenebrose.

 – Possiamo attaccare? – chiese Mendoza.

 – Che cosa? – chiese Buttafuoco.

 – Le botti anche noi?

 – Andate al diavolo!… Io riprendo il mio sonno.

 – E noi la guardia, – rispose il guascone.

 – Badate di non addormentarvi davvero di fronte al nemico.

 – Oh!… Mai, signore.

 E mentre il bucaniere, ormai pienamente rassicurato di non rivedere piú gli spagnuoli nelle cantine, riprendeva il suo sonno, i due compari, non meno tranquilli di non correre piú alcun pericolo, ricominciavano i loro assaggi dei vini della marchesa di Montelimar.

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