L’ASSALTO A PUEBLO-VIEJO

CAPITOLO IV

 

 L’ASSALTO A PUEBLO-VIEJO

 

 Pochi minuti di ritardo e la stella benigna, che fino allora aveva protetto quei terribili avventurieri, sarebbe tramontata e molto probabilmente per sempre, poiché il marchese di Montelimar non li avrebbe certamente risparmiati, dopo il tiro birbone giuocatogli dal guascone.

 Quei colpi d’archibugio che rintronavano nel vallone, dovevano essere sparati dagli spagnuoli per sbarazzarsi dell’altra piccola partita d’indiani.

 Probabilmente il capo squadrone ed i suoi compagni avevano incontrato a non molta distanza qualche altro drappello di cavalleggieri, mandati in perlustrazione e tutti uniti accorrevano, colla speranza di trovare ancora dinanzi all’enorme roccia i tre avventurieri e di costringerli ad accettare un nuovo combattimento o ad arrendersi.

 – Io credo che messer Belzebú abbia una gran simpatia per noi,

 disse il guascone, il quale correva come un daino per giungere sulle rive del Chagres e trovare un rifugio in mezzo alle immense foreste che coprivano le rive del fiume.

 – O qualche santo ci protegge, di certo, – rispose il basco,

 Se riuscirò a sapere qual è, parola d’onore che gli offrirò due ceri da una piastra ciascuno.

 Pure scambiando qualche parola, trottavano lestamente, scendendo sempre il vallone, il quale accennava a finire.

 Infatti ai loro orecchi giungeva ormai distintamente il fragore prodotto dalle acque del fiume, che si frangevano contro le roccie che coprivano il suo letto.

 In lontananza rimbombavano sempre le archibugiate degli spagnuoli. Pareva che gl’indiani, accresciuti forse di numero, tenessero valorosamente testa.

 Dopo venti minuti i tre avventurieri si gettavano in mezzo alle foreste costeggianti il Chagres.

 Il sole in quel momento stava per tramontare e l’oscurità cominciava a diffondersi sotto le maestose palme.

 – Prendiamo fiato, – disse il guascone. – Non sono un cavallo andaluso e nemmeno un mulo dei Pirenei. Gli spagnuoli ormai non ci raggiungeranno piú.

 – Siamo ancora molto lontani dall’accampamento dei filibustieri del conte? – chiese il fiammingo.

 – Fra tre o quattro ore vi giungeremo, – rispose Mendoza.

 – Non ci smarriremo fra queste foreste?

 – Non abbiamo che da seguire la riva del Chagres. Tutte le precauzioni sono state prese per raggiungerlo.

 – Sono impaziente di vedere il figlio del famoso Corsaro Rosso. Ho udito parlare anch’io moltissimo dei tre fratelli filibustieri.

 – Bastano le chiacchiere, – disse il guascone. – In marcia, amici. Mi hanno detto che le foreste del Chagres sono popolate di brutte bestie ed io colle bestie non ho mai desiderato di aver da fare. Ho sempre preferito gli uomini, perché almeno non saltano come gatti rabbiosi.

 Si erano messi in cammino, seguendo a breve distanza la riva del fiume.

 Mille strani rumori s’alzavano sotto la tenebrosa foresta. Muggivano i pipa , quegli enormi e schifosi rospi, che hanno il dorso tutto bucato per nascondervi i loro piccini, e le parranua ; fischiavano acutamente i grossi batraci nascosti fra le alte erbe del fiume e strepitavano i caimani.

 Il basco, pratico dei luoghi, poiché aveva seguito Morgan a Panama, si era messo alla testa del minuscolo drappello, tenendo la spada in mano.

 Il guascone lo seguiva colla sua draghinassa ed il fiammingo colla sua pistola, non avendo armi da taglio.

 Tutti tre cercavano di non far rumore, non già perché temessero di venire raggiunti dagli spagnuoli, bensí per non attirare l’attenzione delle bestie feroci che potevano aggirarsi per la foresta.

 In quell’epoca i giaguari ed i coguari erano ancora numerosissimi sull’istmo e non esitavano a gettarsi ferocemente sulle persone che osavano attraversare le foreste da loro abitate.

 Marciavano da un paio d’ore, sempre seguendo il Chagres le cui acque, ostacolate dal letto roccioso, muggivano cupamente, quando Mendoza si fermò bruscamente, stendendo la spada in linea ed impugnando la pistola carica.

 – Ancora gl’indiani? – chiese il guascone, alzando la sua draghinassa.

 – Non ho mai veduto un indiano cogli occhi fosforescenti – rispose il basco.

 – Allora sarà un gatto rabbioso.

 – Purché non sia un gattone terribile. Signor fiammingo, toglietevi dalla cintura la navaja e preparatevi a servirvene. Se non sarà una spada, potrà egualmente tagliare.

 – Che brutti occhi! – disse il guascone. – È un gatto quello.

 – Io credo invece che sia un giaguaro affamato.

 – Non so che cosa sia un giaguaro affamato perché in Guascogna non ho veduto altro che dei gatti e dei lupi.

 In mezzo alle fitte tenebre accumulate sotto le immense foglie delle palme tacarà , si vedevano scintillare due punti luminosi, i quali avevano degli strani bagliori verdi-giallastri.

 Doveva essere qualche giaguaro o qualche coguaro, il leone americano, in attesa della preda.

 – E dunque, signor Mendoza? – chiese il guascone, vedendo che il basco non si decideva a riprendere le mosse. – Sarebbe ridicolo che un gattaccio, sia pur grosso come un toro, tenga in iscacco tre spadaccini famosi.

 – Non vedete che ci chiude il passo, don Barrejo? – rispose Mendoza.

 – Dategli un calcio. I gatti guasconi, quando vedono una gamba alzata, scappano sempre.

 – Subito, purché mi si dia una pistola carica, essendo le mie vuote. Che diamine!… Una bestia non può fermare tre uomini come noi.

 – Prendete dunque, – rispose il basco, porgendogli l’arma. – Badate però che quel gattaccio, come vi ostinate a chiamarlo, potrebbe strapparvi gli occhi.

 – Uh!… Ne ho visti tanti io in Guascogna, quand’ero ragazzo.

 – Erano diversi da questi.

 – Ora la vedremo.

 Lo spadaccino prese la pistola, mise la draghinassa in linea e s’avanzò con pazza temerità verso i due punti fosforescenti, che non cessavano di brillare fra le tenebre.

 Il basco ed il fiammingo gli avevano tenuto dietro, pronti ad aiutarlo in quella pericolosa impresa.

 Il guascone non aveva percorsi dieci passi, quando un orribile miagolio che terminò in un terribile muggito soffocato, si fece udire.

 – Il gattaccio soffia, – disse don Barrejo. – Deve essere arrabbiato. Ora t’accomodo io!

 Era tutt’altro che un gattaccio! Si trattava d’un vero coguaro, uno dei piú pericolosi animali che si trovino nelle foreste americane, e che per forza e per ferocia non la cedono che ai colossali orsi grigi delle Montagne Rocciose.

 Vengono chiamati le tigri dell’America e possono rivaleggiare con le tigri reali dell’India, quantunque non ne abbiano la mole. Posseggono però una tale forza da trascinare un toro.

 Il guascone, un po’ impressionato dai miagolii feroci della fiera, si era fermato.

 – E dunque, don Barrejo, che cosa facciamo? – chiese Mendoza, il quale rideva sotto i baffi. – Non è un gattone guascone quello lí?

 – Mi pare che soffi un po’ troppo, – rispose l’avventuriero.

 – Dategli un calcio.

 – Ah!… Diamine!… Mi pare che la cosa sia un po’ difficile!

 – Infilatelo.

 – È quello che stavo appunto studiando.

 – Giú un colpo di spada!

 .Aspetto che mi assalga.

 Aveva puntata la pistola e allungata la draghinassa.

 La belva soffiava sempre e ruggiva sordamente, senza muoversi.

 Don Barrejo, seccato di non vederla avanzarsi, fece qualche passo innanzi, gridando:

 – Su, gattaccio, assaggia un po’ la mia draghinassa!

 Il giaguaro si era accovacciato, pronto a slanciarsi.

 Mendoza si era messo a fianco del guascone, temendo che gli toccasse qualche grave disgrazia, mentre il fiammingo impugnava la pistola.

 – Il gattaccio ha paura, – disse don Barrejo. – Diavolo!… Sente l’odore d’un uccisore di gatti.

 Aveva appena pronunciato quelle parole, quando il coguaro spiccò un salto cosí impetuoso da farlo cadere a gambe alzate.

 Mendoza, che gli stava presso, allungò rapidamente la spada, affondandola nelle carni della bestiaccia, mentre il fiammingo, che aveva ancora una pistola carica, sparava a bruciapelo.

 Il coguaro, doppiamente ferito, saltò sopra la testa dei suoi feritori e scomparve nella foresta, ruggendo.

 – Corpo di bacco! – esclamò il guascone, il quale si era prontamente alzato. e, per sua fortuna, incolume. – Che gattacci vivono in questo paese? Non sono di quelli che ammazzavo io quando ero ragazzo. L’avete ucciso voi, signor Mendoza?

 – Non lo so, – rispose il basco. – La mia spada è però insanguinata.

 – E la mia palla deve averla ben cacciata nel corpo, – aggiunse il fiammingo. – Scommetterei che l’ho acciecato.

 – Ecco un uomo meraviglioso, – disse don Barrejo. – Io non vedevo quasi piú quel gattaccio, e lui l’ha proprio preso in un occhio. Speriamo allora che essendo cieco non ci secchi piú.

 – Un fiammingo, – disse Mendoza.

 – Che cosa volete dire voi? – chiese il brabantino.

 – Che è un mezzo guascone, se non lo è per intero.

 Don Barrejo ed il brabantino proruppero in una clamorosa risata.

 – E Mendoza è un basco, – disse il primo.

 – Sí, un basco, – ripeté il secondo, con voce grave.

 – Che lavora di gambe per non farsi nuovamente sorprendere dal gattone cieco, – rispose Mendoza, riprendendo la corsa. I due fracassoni credettero bene di seguirlo, non essendo veramente sicuri se il coguaro avesse ancora o no i suoi occhiacci a riflessi giallastri.

 Quella seconda galoppata durò un’altra ventina di minuti, poi Mendoza, che da qualche po’ osservava attentamente la riva del Chagres, si fermò additando ai suoi compagni alcuni fuochi che brillavano sotto gli alberi.

 – Ancora gl’indiani? – chiese il guascone, vedendolo arrestarsi.

 – È l’accampamento del conte, – rispose il basco. – Sono certo di non ingannarmi.

 In quel momento una voce rauca gridò minacciosamente:

 – Chi vive? Rispondi o faccio fuoco.

 – Mendoza, – rispose il basco.

 – Avanti allora, compare.

 Quattro uomini armati d’archibugi e di pistole si erano slanciati fuori da un cespuglio, seguiti da un quinto il quale portava una torcia.

 – Il lupo di mare! – esclamò il capo delle sentinelle. – Hai tardato molto a farti vivo, compare. Si beve bene dunque a Pueblo-Viejo?

 – Benissimo, – disse don Barrejo. – Vi faremo assaggiare un certo Alicante che abbiamo scoperto, che non si beve nemmeno nella vecchia Spagna.

 – Quando?

 – Quando prenderemo d’assalto la città, – rispose il guascone.

 – È vero, compare? – chiese il filibustiere a Mendoza.

 – Chi vivrà vedrà, – si limitò a rispondere il basco, allontanandosi rapidamente per recarsi dal conte di Ventimiglia.

 Nell’attraversare l’accampamento, s’accorse che i filibustieri erano ben piú numerosi di prima. Gruppi d’uomini che prima non aveva mai veduti, chiacchieravano o fumavano attorno ai fuochi, tenendo i loro archibugi fra le gambe.

 – Il signor conte ha ricevuto degli aiuti, – mormorò. – Prendere Pueblo-Viejo sarà per noi un giuoco.

 La tenda del conte s’innalzava in mezzo all’accampamento ed era illuminata anche internamente.

 Mendoza entrò risolutamente, dicendo:

 – Eccomi, capitano.

 – Finalmente! – esclamò il signor di Ventimiglia, il quale stava seduto su un vecchio tronco d’albero, intento ad osservare, alla luce d’una torcia, una specie di carta geografica dei dintorni. – Cominciavo a temere che ti avessero preso od appiccato.

 – Niente affatto, signor conte, – rispose il lupo di mare.

 Quando vi è con me quel demonio di guascone non correrò mai alcun pericolo.

 – Vi è dunque?

 – Sí, il marchese si trova a Pueblo-Viejo. Don Barrejo ha parlato con lui, anzi ha bevuto insieme la cioccolata. Vi spiegherà come, lui stesso piú tardi…

 – E mia sorella si trova presso di lui?

 – Questo non abbiamo potuto saperlo, signor conte. Abbiamo però saputo che fino a poco tempo fa si trovava presso il marchese una bellissima meticcia, giunta non si sa da dove e poi misteriosamente scomparsa.

 Il conte aveva alzato vivamente la testa, mentre una profonda emozione alterava il suo viso.

 – Mia sorella è la nipote del Gran Cacico del Darien?

 – Può darsi che sia quella.

 – Bisogna che abbia il marchese nelle mie mani.

 – Lo credo anch’io, signor conte.

 – Sai quanti soldati vi sono in città?

 – Due o trecento cavalleggieri e qualche compagnia d’archibugieri.

 – E l’artiglieria?

 – Pochi pezzi.

 – La prenderemo d’assalto prima di mezzodí, – rispose il conte, risolutamente. – Sai che ho ricevuto dei rinforzi?

 – Mi sono accorto della presenza di altri uomini, che qui prima non c’erano.

 – I miei corrieri che ho mandati verso le sponde del Pacifico per avvertire Grogner e Tusley di mandarmi dei rinforzi, hanno incontrato una partita di filibustieri, forte di settantacinque uomini, guidata da un gentiluomo francese, il signor Raveneau de Lussan.

 – E cinquanta ne avete voi, siamo dunque in buon numero, – disse Mendoza.

 – Tu conosci ormai la via?

 – Sí, signor conte.

 – Potremo giungere prima dell’alba sotto le mura di Pueblo-Viejo?

 – Anche piú presto.

 Il conte uscí dalla tenda, estrasse le sue pistole e le scaricò in aria.

 Era quello il segnale della riunione.

 Gli uomini che stavano seduti intorno ai fuochi o di guardia ai quattro angoli dell’accampamento si alzarono frettolosamente e si portarono in massa dinanzi alla tenda, preceduti da un uomo di bassa statura, che indossava una corazza d’acciaio in mezzo alla quale campeggiava uno stemma dorato: era Raveneau de Lussan.

 – Partiamo, conte? – disse il gentiluomo francese, con voce nasale.

 – Sí, signor de Lussan, – rispose il figlio del Corsaro Rosso. Si tratta d’assalire Pueblo-Viejo.

 – E noi la prenderemo, – rispose tranquillamente il filibustiere. I miei uomini cominciavano ad annoiarsi.

 – Spegnete i fuochi ed in marcia, senza perdere tempo. Cerchiamo di sorprendere il marchese nel suo palazzo.

 Dieci minuti dopo, i filibustieri levavano il campo inoltrandosi sotto la grande foresta, preceduti da Mendoza, dal guascone e dal fiammingo.

 Il conte di Ventimiglia veniva subito dopo i tre avventurieri, con Raveneau de Lussan.

 La truppa raggiunse felicemente le rive del Chagres e verso le due del mattino s’inoltrava nel vallone dove aveva avuto luogo lo scontro fra i tre avventurieri ed i cavalleggieri spagnuoli.

 Temendo una sorpresa, il conte mandò innanzi una grossa avanguardia. Se gli spagnuoli si fossero trovati ancora là e avessero occupate le due falde della valle, avrebbero certo dato molto da fare ai filibustieri.

 Fortunatamente, dopo d’aver cacciati gl’indiani, erano ritornati a Pueblo-Viejo, ben lungi dal sospettare la vicinanza d’un cosí grosso numero di nemici.

 Mezz’ora prima che sorgesse il sole, i filibustieri, senza essere stati segnalati dalle cinquantine incaricate di battere ogni notte le foreste vicine alla città, giungevano a pochi tiri d’archibugio da Pueblo-Viejo.

 Come la maggior parte delle piccole città dell’istmo di Panama, anche quel centro, non molto popoloso e piuttosto discosto dai due oceani, non aveva che qualche vecchio bastione ed un fossato facilissimo a varcarsi coll’aiuto di pochi fasci di legna.

 Per filibustieri abituati a dare la scalata perfino alle altissime muraglie dei forti difese da formidabili artiglierie, almeno per quell’epoca, ci voleva ben altro!…

 Il figlio del Corsaro Rosso divise i suoi uomini in due colonne, affidando il comando della meno numerosa al gentiluomo francese e, appena il primo raggio di sole comparve, si spinse risolutamente all’attacco.

 Le sentinelle spagnuole che vegliavano sul bastione, scorgendo quei gruppi d’uomini che s’avanzavano attraverso alle piantagioni di zucchero e di caffè, non avevano indugiato a dare l’allarme ed a sparare parecchi colpi d’archibugio.

 I filibustieri non si erano nemmeno curati di rispondere. Guidati dal conte, da Mendoza, dal guascone, avevano rapidamente attraversato il fossato, ricoprendolo di fascine, poi avevano aperto il fuoco contro le prime case, facendo scappare gli abitanti seminudi.

 Nessuno si era opposto all’assalto, tanto era stato fulmineo. sicché i filibustieri irruppero attraverso le vie della città a passo di corsa, mentre Raveneau de Lussan s’impadroniva, con non meno fortuna, del vecchio bastione, facendo subito inchiodare i pochi pezzi che lo guarnivano, piú utili del resto a spaventare i tica-tica che saccheggiavano le piantagioni, che uomini cosí risoluti e formidabili, come erano i corsari del golfo del Messico e dell’oceano Pacifico.

 Gli abitanti, svegliati di soprassalto da quelle scariche, scappavano verso la piazza maggiore, dove si ergevano la chiesa che poteva servire da fortezza, e il palazzo del governatore.

 Uomini, donne e fanciulli si spingevano gli uni gli altri carichi delle loro cose piú preziose trovate sotto mano.

 I filibustieri credevano già di avere in loro mano la cittaduzza, quando scorsero dinanzi alla chiesa due squadroni di cavalleggieri colle spade in pugno.

 Erano circa cento cinquanta uomini, ben montati e bene armati e che avrebbero potuto dare del filo da torcere agli assalitori, se questi non fossero stati ritenuti come uomini invincibili perché creduti figli dell’inferno.

 Il figlio del Corsaro Rosso si slanciò risolutamente verso la chiesa, gridando ai suoi uomini:

 – Sotto, amici!

 I filibustieri, i quali già molto contavano sul terrore che ispiravano, dopo le loro strepitose vittorie riportate al di là ed al di qua dell’istmo, fecero una scarica generale.

 I cavalleggieri tentarono una carica disperata, poi volsero i cavalli, fuggendo disordinatamente attraverso le vie della città.

 Parecchi avevano già vuotato l’arcione e giacevano morti o moribondi dinanzi ai gradini della chiesa.

 – Ora quel dannato taverniere farà i conti con me, – disse il guascone. – Se lo trovo, guai a lui!

 Il conte di Ventimiglia prese con sé una dozzina di uomini e si slanciò verso il palazzo del governo, dalle cui finestre non era partito nemmeno un colpo d’archibugio; mentre gli altri, provvedutisi di alcune travi, sfondavano la porta della chiesa per far uscire gli abitanti della città che vi si erano rifugiati cogli oggetti piú preziosi.

 Il guascone, Mendoza ed il fiammingo avevano accompagnato il conte, pronti a sacrificarsi per difenderlo.

 – Per centomila demoni! – esclamò don Barrejo, quando ebbero salito lo scalone. – I colombi sono scappati assieme al falco. Signor conte, non sarà qui che voi scoverete il marchese di Montelimar, il mio carissimo amico. Scommetto che non avrete l’onore di assaggiare la sua squisita cioccolata.

 E conte ed i suoi uomini si erano precipitati attraverso le sale, sfondando i mobili e le porte.

 Non furono trovati che sette alabardieri nascosti in un bugigattolo, sotto un ammasso di fasci di canne da zucchero. Vi era però fra di loro un uomo già conosciuto da Mendoza e dal guascone.

 – Corpo d’un trombone sfiatato! – esclamò don Barrejo. – Il capo della scorta! Ehi, camerata, il conte d’Alcalà vi prega di far udire la vostra voce armoniosa. Ve l’avevo già detto, se non m’inganno, che mi avreste riveduto e molto presto.

 Il capo-ronda, molto avvilito di vedersi ancora dinanzi l’ex-prigioniero, era uscito dal bugigattolo, borbottando e stringendo minacciosamente una specie di misericordia.

 – Interroghiamo quest’uomo, signor conte, – disse don Barrejo. È una vecchia nostra conoscenza.

 – Dov’è il marchese? – gridò il signor di Ventimiglia, il quale appariva esasperato.

 – Da ieri sera, caballeros, egli galoppa sulla via che conduce a Nuova Granata, – rispose il capo-ronda. – I vostri compagni, che si spacciavano per conti e grandi di Spagna, non sono stati troppo furbi e si sono traditi.

 – Burlone! – esclamò il guascone.

 – Quando è partito? – chiese il conte.

 – Prima della mezzanotte. S. E. non è un uomo da cadere facilmente nel laccio e si è messo in salvo per tempo. Nuova Granata non è Pueblo-Viejo e non la prenderete con poche scariche d’archibugi, signor mio.

 – Con chi se n’è andato? Parla, se vuoi salvare la pelle. Sai che i filibustieri non sono molto generosi.

 – Aveva una scorta di otto uomini.

 – Ed una fanciulla?

 -Sí, caballero.

 – Una meticcia, è vero?

 – Come lo sapete voi?

 – Rispondi e non interrogare, – disse il signor di Ventimiglia con voce minacciosa.

 -Sí, una meticcia, – rispose il capo-ronda.

 – Quale posizione occupava quella meticcia nella casa del governatore?

 – Veniva trattata come fosse una parente di S. E.

 – Quanti anni potrà avere?

 – Dai quindici ai sedici.

 Il conte fece mentalmente un rapido calcolo.

 – Non può essere che lei, – mormorò.

 Poi, alzando la voce, rispose:

 – È dunque molto fortificata Nuova Granata?

 -Cosí si dice.

 – Ci sei stato tu?

 – Mai, caballero.

 Il figlio del Corsaro Rosso fece un gesto di dispetto.

 – Poche ore prima e cadevano l’uno e l’altra nelle mie mani, disse.

 Poi volgendosi verso uno dei suoi ufficiali:

 – Incaricatevi della custodia di questi uomini. Possono essermi molto utili piú tardi.

 Lasciò la sala e ridiscese sulla piazza, seguito da Mendoza, dal guascone, dal fiammingo e da una mezza dozzina di filibustieri.

 I corsari del signor di Lussan non erano ancora riusciti a entrare nella chiesa.

 Gli abitanti che stavano dentro difendevano accanitamente le loro ricchezze, che avevano frettolosamente raccolte, e ad ogni intimazione di resa, rispondevano con scariche d’archibugi.

 – Signor di Ventimiglia, – disse il gentiluomo francese, vedendolo comparire. – Questi spagnuoli non intendono di uscire. Volete che faccia saltare la chiesa con una mezza dozzina di barili di polvere?

 – Sarebbe un massacro inutile, – rispose il conte.

 – E se rimangono lí dentro noi non avremo nemmeno una piastra.

 – Io rinuncio alla mia parte.

 – Non rinunceranno però né i miei, né i vostri uomini.

 – Avete fatto dei prigionieri?

 – Appena due dozzine.

 – Mandatene uno nella chiesa ad annunciare agli assalitori che, se non capitolano, ammazzeremo per ora quelli che teniamo nelle nostre mani.

 Mentre il signor di Lussan si preparava a obbedire, Mendoza si avvicinò al guascone ed al fiammingo.

 – Amici, – disse. – Finché questa gente se la sbriga colla chiesa, approfittiamone per andare ad assaggiare il buon vino di quel furfante di taverniere. Se comincia il saccheggio generale della città, noi non troveremo che le botti vuote. Io ne so qualche cosa della sete dei filibustieri… poi la nostra presenza qui non è necessaria. Il conte ed il francese hanno uomini piú che sufficienti per forzare gli assediati alla resa.

 – Tonnerre!- esclamò don Barrejo. – Mi ero dimenticato di quell’amico!… Che sia nascosto nelle sue cantine?

 – Ho qualche speranza di scovarlo in mezzo alle sue botti, – rispose Mendoza.

 – Ed anch’io, – disse il fiammingo.

 – Andiamo, compari, – conchiuse il guascone.

 Approfittando della confusione che regnava sulla piazza, i tre avventurieri presero il largo e, inosservati, si cacciarono entro una viuzza a loro ben nota, che doveva condurli in breve dinanzi alla taverna d’ El Moro.

 Come avevano supposto, la porta era chiusa e regnava un silenzio da tomba.

 – Che l’amico si sia rifugiato in chiesa coi suoi sguatteri? – si chiese il guascone, dopo d’aver appoggiato un orecchio alla toppa.

 Non odo nemmeno quel gattaccio nero miagolare.

 – Buttiamo giú la porta, – disse il fiammingo, il quale, avendo scorto a breve distanza un ammasso di legnami che dovevano servire alla costruzione di una casa, si era impadronito d’una trave.

 – Ecco l’uomo forte della compagnia, – disse don Barrejo, vedendo che il fiammingo non piegava sotto il peso. – D’ora innanzi, giacché non ha mai voluto dirci il suo nome, lo chiameremo don Ercole.

 Afferrarono solidamente la trave, presero la rincorsa e con un colpo solo sventrarono alla lettera la porta della taverna, con un tale rimbombo che parve avessero sparato là dentro una cannonata.

 – Don Ercole!… Voi siete l’eroe della giornata… il re della taverna, – disse il guascone. – Perdinci! Che muscoli!… Sareste capace di buttar giú anche una fortezza!…

 – Sono un fiammingo, – rispose serio serio l’avventuriero.

 Sguainarono le draghinasse, temendo un assalto a colpi di spiedo o di casseruole, ed entrarono.

 Non videro scappare che un grosso gatto nero, quello che già il guascone aveva notato. La povera bestia, spaventata da quel colpo di tuono, balzava attraverso le tavole e sui banchi, come se fosse impazzita, rovesciando bicchieri e bottiglie.

 – Quella bestia lí deve avere l’anima di quel brutto gattaccio che abbiamo incontrato sulle rive del Chagres, – disse don Barrejo.

 – Sapete dove si trova la cantina? – chiese Mendoza al fiammingo.

 – La porta è dietro al banco.

 – Prendiamo prima qualche torcia, – disse il guascone.

 – Non occorre, – rispose Mendoza.

 Salí su un tavolo e staccò il lanternone che serviva ad illuminare la sala. L’accese non senza qualche difficoltà, poi si diressero verso la porta che doveva mettere nella cantina.

 Bastò una pedata del guascone per sgangherarla e farla rotolare giú per la scala.

 – Ci sono!… – esclamò Mendoza, alzando il lanternone.

 – Chi? – chiese don Barrejo.

 – Ho udito un grido dalla cantina.

 – Che fortuna!… Ah!… Povero taverniere!… In quali mani stai per cadere!… – disse il guascone. Fate luce, Mendoza!

 Scesero la scala con precauzione, tenendo le draghinasse in linea e giunsero in un’ampio sotterraneo contro le cui pareti s’appoggiavano una dozzina e forse piú di rispettabili e ben panciute botti.

 – Dove si sarà nascosto quel briccone? – disse don Barrejo.

 Una voce s’alzò dietro le fila di botti di destra, gridando:

 – Chi è che osa darmi del briccone?

 – Tonnerre!… Il taverniere!…

 – Ancora quel birbante!… – strillò il proprietario d’ El Moro.Ora ti spillerò sangue!…

 – Amici, fuori le pistole! – comandò il guascone.

 Il taverniere era balzato fuori dal suo nascondiglio, brandendo minacciosamente uno spiedo e dopo di lui erano comparsi, uno ad uno, i suoi quattro sguatteri egualmente armati.

 – Ancora qui, furfante! – urlò l’oste, furioso.

 – Dove si beve del buon vino si torna sempre, – rispose il guascone, puntandogli contro la spada e la pistola.

 – Mi ero immaginato che voi dovevate essere un filibustiere, – disse il taverniere, il quale non osava farsi innanzi, vedendo tre bocche da fuoco spianate.

 – Sono venuto anzi ad avvertirvi che la città è caduta nelle nostre mani e che ogni resistenza è ormai inutile. Siamo in mille!

 – E che cosa volete da me?

 – Assaggiare nuovamente il vostro Alicante ed il vostro Xeres.

 – Il mio vino!…

 – Volete prima che vi ammazzi? – chiese il guascone, cambiando tono. – Rimarremo allora noi padroni assoluti della cantina e le vostre proteste non servirebbero piú a nulla. Volete un consiglio da amico? Andate a sedervi su quelle travi, insieme ai vostri sguatteri, lasciate in pace gli spiedi, buoni per infilzare polli e anitre e non uomini come noi, e non seccateci piú, diversamente noi faremo boum ! E allora andrete a trovare compare Belzebú.

 – Voi mi volete rovinare.

 – Abbiamo rovinata anche l’intera città, quindi potete consolarvi.

 – Io non vi darò una piastra!…

 – Ma che piastra!… È il vostro vino che noi vogliamo. Ci prendete per dei ladri? Sbrigatevi, giú gli spiedi e subito là in fondo. Abbiamo sete noi, tonnerre !

Il povero oste ed i suoi aiutanti, spaventati dall’accento terribile del guascone e reputando ogni resistenza affatto inutile, gettarono gli spiedi e andarono a sedersi sulla trave indicata, la quale si trovava all’estremità opposta della cantina.

 Mendoza posò a terra il lanternone, mentre don Barrejo ed il fiammingo s’impadronivano di alcuni boccali di terracotta ben capaci.

 – Proviamo lo Xeres, prima, – disse il basco. – È quello del famoso doblone.

 – E poi assaggeremo anche tutte le altre botti, spero, – aggiunse il fiammingo.

 – Badate di non ubbriacarvi, – disse il guascone. – Non siamo soli qui e quei gattacci che stanno là in fondo potrebbero saltarci addosso.

 Mentre uno tracannava a garganella Xeres e gli altri Porto e Alicante, il povero taverniere si strappava i capelli, strillando.

 – Questi birbanti mi rovinano!

 Né il guascone, né i suoi compagni facevano attenzione ai lamenti ed alle ingiurie del taverniere e dei suoi sguatteri. Continuavano tranquillamente a bere, assaggiando il contenuto di tutte le botti. Dovevano essere dei formidabili bevitori, poiché pareva che ingollassero tanta acqua.

 Ad un certo momento però il guascone il quale si sentiva forse girare un po’ la testa e oscillare le gambe, gettò via il boccale che teneva in mano e che era ancora quasi pieno di Porto, dicendo:

 – Basta, camerati!… Non siamo già delle botti, noi!… Ora verrà la solenne punizione del taverniere.

 – Che cosa volete fare? – urlò l’oste, piú che mai furibondo. Non siete ancora contenti?

 – Vi lasciamo le piastre e dovete averne un buon gruzzolo. E vi lamentate ancora? Non sapete dunque che quando i filibustieri piombano su una città spazzano via tutto? Dovete anzi esserci grati di questa generosità.

 – Volete ammazzarci?

 – Voi no e nemmeno i vostri sguatteri. Sono le vostre botti che pagheranno per la vostra perfida condotta verso gentiluomini della nostra marca. Mendoza, quali credete che siano le botti migliori? Le avete assaggiate tutte?

 – Tutte, – rispose il basco.

 – E voi, don Ercole?

 – Anch’io – disse il fiammingo.

 – Quali sono?

 I due avventurieri, dopo maturo esame, indicarono due enormi recipienti contenenti l’uno dello Xeres ed un altro della Malaga stravecchia.

 Il guascone impugnò due pistole, quindi rispose serio serio:

 – Io, nella mia qualità di presidente del Consiglio di guerra, decreto la morte di queste due botti.

 Ciò detto sparò le due pistole contro i due recipienti, forandoli.

 Due zampilli scaturirono subito, scorrendo pel pavimento.

 Il taverniere aveva mandato un urlo come se gli avessero strappato il cuore ed aveva fatto un salto innanzi, per avventarsi contro quei tre demoni scatenati. Il guascone però era stato pronto a mettere un piede sugli spiedi e ad allungare la sua terribile draghinassa, gridando:

 – Alto là, brav’uomo!… Quest’arma ha sempre sete di sangue umano e beve quando trova l’occasione.

 – Miserabili, mi vuotate le botti e quelle anche che contengono il migliore.

 – A noi piace offrire alla terra sempre del vino di prima qualità affinché ne riproduca di quello piú squisito. Anche la terra qualche volta beve volentieri.

 Mendoza ed il fiammingo ridevano a crepapelle, per niente impressionati della disperazione del taverniere.

 Don Barrejo lasciò che lo Xeres e la vecchia Malaga colassero per parecchi minuti allagando la cantina, poi disse ai compagni:

 – È ora d’andarsene. Se restiamo qui ancora un quarto d’ora saremo piú ubbriachi della terra che beve. Taverniere, addio!

 Mentre il povero oste urlava, come se lo scorticassero vivo ed i suoi quattro sguatteri vomitavano una serqua di maledizioni, i tre avventurieri raccolsero il lanternone e salirono la scala, senza nemmeno occuparsi di rispondere.

 – Andiamo a vedere che cosa succede ora alla chiesa, – disse il guascone quando furono fuori dalla taverna.

 Giungevano già in ritardo. Gli abitanti si erano arresi ed i filibustieri avevano saccheggiata la città, portandosi via quanto oro avevano potuto trovare e si preparavano a ripartire.

 Come!… Si riprende la marcia, signor conte? – chiese Mendoza il quale era riuscito a trovare il signor di Ventimiglia.

 – Andiamo a raggiungere i filibustieri che si trovano all’isola S. Giovanni, – rispose il figlio del Corsaro Rosso. – Senza Grogner e Tusley non potremmo espugnare una piazza forte come è quella di Nuova Granata.

 – È necessario che il marchese non mi sfugga la seconda volta.

 – Fa’ radunare i nostri uomini e andiamo a far conoscenza coll’Oceano Pacifico.

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