UN DUELLO TERRIBILE

CAPITOLO II

 

 UN DUELLO TERRIBILE

 

 – Il bacan tarda questa sera.

 – Raddoppia la carica della pipa, mio caro Mendoza. Io vi ho cacciato dentro due dita e ora tira magnificamente. Che differenza ci trovi tu fra i gradini di questa chiesa e quelli del cassero o del castello di prora?

 – Sulla Nuova Castiglia vi è almeno da bere, Martin.

 – Piovono però anche delle bombe, Mendoza; e gli spagnuoli ne hanno di quelle non meno terribili delle nostre.

 – Non dico il contrario, amico; tuttavia mi trovo sempre meglio lassú. Almeno vi sono cannoni per rispondere.

 – E la tua draghinassa la conti per nulla? E le tue pistole sono forse cariche di tabacco? Tu brontoli sempre Mendoza, come un vero marinaio vecchio.

 – Tu dirai peraltro, Martin, che se chiacchiero so anche lavorare bene di spada e di sciabola.

 – Se cosí non fosse, il signor di Ventimiglia, il nipote del famoso Corsaro Nero, non ti avrebbe scelto per accompagnarlo.

 – Tu hai sempre ragione, Martin. È finita la musica?

 – Non l’odo piú.

 – Allora il capitano non tarderà a giungere.

 – Ricarica la pipa.

 – Tira come un camino.

 – Buttati giú e, se hai sonno, dormi. Faccio io il quarto.

 – Tu vuoi burlarti di me, cannoniere. Un vecchio marinaio della Folgore , che ha servito il Corsaro Nero, addormentarsi quando il giovane conte di Ventimiglia corre qualche pericolo? Tu sei pazzo, Martin.

 – Metti tre cariche di tabacco nella pipa.

 – Anche dieci se vuoi, pur di tenere sempre aperti gli occhi per difendere il figlio del povero Corsaro Rosso.

 – Taci, Mendoza. Qualcuno si avvicina.

 I due uomini, che stavano seduti sulla gradinata della vecchia chiesa, si erano alzati di scatto, appoggiando le mani sulle pistole mezzo nascoste nelle fasce di lana rossa che cingevano i loro fianchi.

 Erano due robustissimi uomini di età molto differente. Mentre colui che si chiamava Mendoza contava almeno una cinquantina d’anni, l’altro ne aveva appena la metà. Erano però di forme tozze ambedue, quantunque di statura quasi media, con petti e braccia enormi, e dorsi da bisonti, solidamente piantati.

 Differivano solamente un po’ nella tinta della pelle. Mentre il primo era appena abbronzato, l’altro era nero e non aveva un pelo sul mento, né intorno alle labbra.

 – Viene? – chiese il vecchio. – Tu hai gli occhi migliori dei miei. Non sono un selvaggio come te, io, mio caro Martin.

 – Ecco un’offesa che non mi aspettavo da parte tua.

 – Nega di essere parente di Belzebú. Si dice che il diavolo sia nero.

 – Tu non l’hai mai veduto, Mendoza.

 – E non ho neanche premura di fare la sua conoscenza, – rispose il vecchio. – Lo vedi?

 – Un uomo si dirige verso di noi.

 – Che sia il signor di Ventimiglia?

 – Non sono un leopardo.

 – Eppure tuo padre e tuo nonno conoscevano quelle bellissime bestie, vivendo nei loro paesi.

 In quel momento si udí un leggero fischio, poi un uomo si diresse rapidamente verso la gradinata della vecchia chiesa.

 – Il signor di Ventimiglia! – esclamarono i due marinai, alzandosi. Era infatti il conte de Miranda, o meglio di Ventimiglia, nipote del famoso Corsaro Nero, che s’avvicinava guardandosi di quando in quando dietro le spalle come se temesse di essere seguito da qualcuno.

 – Buona sera, miei bravi – disse. – Quali nuove, Mendoza?

 – Non troppo buone, signor conte – rispose il vecchio filibustiere.

 – Non avete saputo nulla del cavaliere Barquisimeto?

 – Abbiamo interrogato piú di venti persone e ne abbiamo ubriacate altrettante; ma nessuno ha saputo dirci dove si trova il segretario del marchese.

 – Eppure mi hanno assicurato che deve trovarsi qui – disse il signor di Ventimiglia. – Egli solo può dirci i nomi di coloro che hanno pronunciato l’infame sentenza contro il Corsaro Rosso ed il Corsaro Verde e che li hanno fatti impiccare.

 – Che quel furfante abbia fiutato il pericolo e abbia preso il largo? Voi sapete che gli spagnuoli hanno molte spie.

 – È impossibile! La nostra fregata è creduta da tutti una nave spagnuola, spedita qui a proteggere la città contro una sorpresa da parte dei bucanieri e dei filibustieri – rispose il conte. – Se avessero avuto qualche sospetto, i galeoni e le caravelle che si trovavano qui ci avrebbero già dato battaglia. Avete notato nulla di insolito nel porto?

 – No, signor conte. Le navi mercantili hanno caricato tutto il giorno zucchero e caffè, e quelle da guerra non hanno lasciato i loro ancoraggi – rispose Mendoza.

 – Eppure non mi sento affatto tranquillo. Basterebbe la piú lieve imprudenza per farci bombardare dai forti e dalla flotta.

 – Nessuno la commetterà, conte; l’equipaggio è sempre consegnato a bordo e ho fatto collocare delle sentinelle dinanzi alle due scale e perfino dentro le scialuppe.

 – Malgrado ciò, io vorrei andarmene al piú presto. Questa commedia non può durare a lungo, e la mia impresa potrebbe finire qui. Ah, se potessi vedere la marchesa per dieci minuti soli, mi risparmierebbe la fatica di cercare quell’inafferrabile cavaliere. Deve ben sapere qualche cosa dell’infamia commessa da suo cognato.

 Stette un momento silenzioso, poi soggiunse:

 – Non deve essersi coricata: proviamo, miei bravi, tenete pronte le spade e anche le pistole.

 – Sono tre ore, capitano, che aspettiamo la buona occasione per menare le mani – disse Martin.

 – Seguitemi.

 Assicuratisi che la via era deserta, l’attraversarono senza far rumore e si avviarono verso il palazzo dei Montelimar che si trovava a breve distanza. Il conte, invece di avvicinarsi al portone, girò intorno al magnifico giardino, cinto da una cancellata di ferro che si prolungava lungo i fianchi del fabbricato. Guardò in alto e scorse due finestre illuminate.

 – Sono ancora svegliati – mormorò.

 Ad un tratto trasalí.

 Delle note dolcissime, che uscivano dalle due finestre che non erano chiuse, l’avevano colpito.

 Qualcuno suonava il mandolino nel palazzo. Chi? Un servo od una cameriera, no, di certo. Non l’avrebbero osato, se la marchesa si fosse già coricata.

 – Che sia lei? – si disse.

 Si volse verso i due marinai, i quali avevano sguainate le lunghe spade per premunirsi contro una possibile sorpresa, e disse loro:

 – Dobbiamo superare la cancellata.

 – Un gioco da fanciulli per dei marinai – rispose Mendoza.

 – Montiamo all’arrembaggio – disse Martin.

 Il conte s’aggrappò alle sbarre, le salí fino alla cima, lesto come uno scoiattolo, varcò le punte e si lasciò cadere dall’altra parte, in mezzo ad un’aiuola di splendidi fiori. I due marinai erano saltati nel giardino, quasi nello stesso tempo.

 – Oh! c’è da battagliare, qui? – chiese Mendoza.

 – Lascia in pace la tua spada, per ora – rispose il conte di Ventimiglia.

 – Vedremo piú tardi se vi sarà bisogno di un po’ di buon acciaio. Seguitemi senza rumore.

 Attraversarono il giardino, cercando di non fare scricchiolare la ghiaia dei viali, e giunsero sotto le finestre illuminate.

 Il mandolino continuava a suonare una dolcissima signadilla .

 – Non può essere che la marchesa – mormorò il conte. – Questa signadilla è stata suonata stasera durante la festa, e cerca d’imitarla… Che io abbia tanta fortuna?

 Un gigantesco bombax , alto una trentina di metri, col tronco coperto di bitorzoli spinosi, s’alzava di fianco al palazzo, spingendo i suoi rami quasi presso alle finestre illuminate e anche piú sopra.

 – Ecco quello che mi occorreva – mormorò il conte. – Rimanete qui e non state in pensiero. La mia assenza non sarà lunga.

 S’aggrappò con precauzione ai bitorzoli, per non ferirsi le mani, e cominciò a salire, mentre Mendoza e Martin si sdraiavano alla base del tronco, nascondendosi quasi interamente tra le alte erbe che vi crescevano intorno.

 Bastarono pochi secondi al robusto e agilissimo gentiluomo per raggiungere il grosso ramo che rasentava una delle due finestre illuminate.

 Guardò attraverso i vetri socchiusi.

 La finestra prospettava su un elegante gabinetto dalle pareti coperte di arazzi di Granata e ammobiliato elegantemente, quantunque tutti i mobili fossero pesantissimi, come si usava in quell’epoca.

 Un lampadario d’argento, con parecchie candele, lo illuminava vivamente.

 Non vi era però alcuna persona; tuttavia la mandola non aveva cessato di suonare.

 Una cosa colpí subito il giovane conte. Era la veste di seta guernita di smeraldi, che la marchesa aveva indossata durante la festa, e che era stata gettata su un piccolo divano moresco scintillante di ricami d’oro e d’argento.

 Stava per spiccare il salto, quando udí Mendoza chiedere:

 – Chi vive?

 Una voce, che il conte riconobbe subito, rispose:

 – A voi lo domando: che cosa fate qui, bricconi?

 – A noi, bricconi! – gridò Martin.

 – Il conte di Sant’Iago! – mormorò il figlio del Corsaro Rosso, stringendo i denti.

 Non trovandosi che ad un’altezza di quattro metri, l’agile giovane si lasciò cadere dalla pianta. Mendoza e Martin stavano già con le spade in pugno di fronte al capitano degli alabardieri, il quale aveva pure sguainata la sua lama.

 – To’! – esclamò il signor di Sant’Iago con voce beffarda. – Il Conte de Miranda che cade dall’alto! Siete andato a far provvista di frutti di bombax ? Vi avverto che non sono mangiabili e servono soltanto a fare un pessimo cotone.

 – E voi siete venuto qui a fare raccolta di fiori, non è vero? chiese il conte di Ventimiglia, rosso di collera.

 – Può anche darsi; ma almeno io li raccolgo in terra, mentre voi cercate i frutti presso le finestre, senza pensare che se vi scivola un piede potreste rimanere zoppo tutta la vita; un vero peccato per un cosí bel giovane!

 – Mi pare che voi scherziate – disse il conte di Ventimiglia.

 – E se cosí fosse? – chiese il capitano.

 – Penso che questo non sarebbe il posto. Lassú le finestre sono illuminate e mi spiacerebbe che ci vedessero.

 – La marchesa di Montelimar? – chiese il capitano ironicamente. – Se quella signora può impressionarvi, possiamo cercare altrove un posto dove nessuno venga a disturbarci. Oh, lo conosco questo giardino e so anche dove si trova un bellissimo prato che sembra stato preparato appositamente per incrociare due spade!

 – È una sfida che voi mi lanciate?

 – Prendetela come volete; a me importa poco.

 – Dov’è quel prato? – chiese il conte di Ventimiglia con ira…

 – Fretta di morire?

 – Sono ancora vivo, signor di Sant’Iago; e se la vostra mano è lesta, la mia lo è altrettanto.

 – Cosí l’accordo sarà perfetto – rispose il capitano sempre ironico. – Vi avverto però che io la scorsa settimana spacciai un rivale che mi dava noia.

 – Me lo avete già detto, e ciò non produce su di me alcun effetto. Ho battuto piú d’un capitano, ed erano spagnuoli come voi!

 – Che cosa avete detto? – chiese il conte.

 Il figlio del Corsaro Rosso si morse le labbra, irato di essersi lasciato sfuggire quelle parole.

 – Signor conte, – disse il capitano – volete seguirmi fino a quel prato? Là potremo discorrere tranquillamente e anche divertirci.

 – Eccomi! – disse il figlio del Corsaro Rosso.

 – E quegli uomini? – chiese il signor di Sant’Iago, indicando Mendoza e Martin. – Non daranno qualche impiccio, se non a voi, almeno a me?

 – Qualunque cosa debba succedere, questi miei marinai non daranno fastidio a nessuno; vi do la mia parola d’onore.

 – Mi basta: venite, signori. Forse serviranno a qualche cosa – aggiunse poi col suo solito accento beffardo.

 Il capitano si cacciò sotto un boschetto di palme, lo attraversò sempre seguito dal Corsaro e dai due marinai, e sbucò in una piccola prateria coperta da un’erba piuttosto folta e circondata da ogni parte da splendidi palmizi.

 – Ecco un bel posto per parlare liberamente – disse volgendosi verso il conte di Ventimiglia.

 – E anche per uccidersi senza che nessuno intervenga, non è vero, capitano? – chiese il figlio del Corsaro Rosso.

 Il conte di Ventimiglia incrociò le braccia e, guardando il conte di Sant’Iago il quale si era esposto ai raggi della luna che allora sorgeva, gli chiese con voce secca:

 – Che cosa volete ora? Ditemelo subito, perché ho molta fretta.

 – Carrai ! Correte molto presto incontro alla morte, voi!

 – Caramba ! Pare che voi vi siate dimenticato d’una cosa, signor capitano!

 – Volete dire?

 – Che il quattordici ha vinto il tredici.

 – Credete di spaventarmi?

 – Niente affatto: mi hanno detto che siete coraggioso.

 – Tagliamo corto, conte.

 – Che cosa desiderate?

 – Darvi un buon colpo di spada – rispose il capitano, con voce rauca.

 – Quando un rivale mi attraversa la via o mi dà ombra, io lo mando a riposare nel cimitero di San Domingo.

 – Siete terribile!

 – Lo proverete fra poco, se non scapperete.

 – Che cosa dite, capitano? Io fuggire dinanzi alla vostra spada? Sono un gentiluomo ed un uomo di guerra, mio caro spaccamonti!

 – Rajo de Sol ! Mi avete insultato! – urlò il conte di Sant’Iago.

 – Pare anche a me.

 – Vi ucciderò al primo attacco!

 – O al ventesimo?

 – Vi burlate di me?

 – Cosí pare – rispose il figlio del Corsaro Rosso, snudando la spada e mettendosi rapidamente in guardia.

 – Lampi e folgori!

 – Folgori e cannonate!

 – È troppo, conte de Miranda.

 – E la luna è splendida! Ci batteremo magnificamente senza aver bisogno né di torce, né di fanali. Signor capitano degli alabardieri di Granata, vi aspetto.

 Il conte di Sant’Iago aveva a sua volta snudato la lunga spada; ma tutto ad un tratto ruppe la guardia, dicendo:

 – Vi siete fatto annunciare col titolo di conte de Miranda: lo siete davvero?

 – Sono un gentiluomo e vi basti questo.

 – Spagnuolo?

 – Che io sia o non sia spagnuolo, non vi deve interessare. D’altronde se vorrete sapere il mio nome, lo troverete inciso sulla lama della mia spada… Ed ora basta, capitano: ho fretta.

 Entrambi si rimisero in guardia, mentre Mendoza e Martin si erano un po’ scostati, per lasciare ai due rivali la maggiore libertà possibile. Il conte di Ventimiglia volgeva le spalle alla luna che si mostrava maestosa al di sopra delle alte palme del giardino: il capitano invece era interamente illuminato.

 Si guardarono l’un l’altro, fissandosi intensamente con ira: poi il capitano, che pareva il piú impaziente, malgrado l’età, fece tre o quattro finte per vedere se l’avversario si smascherava o se tradiva il suo giuoco.

 Il giovane capitano della Nuova Castiglia non si mosse. Stava saldo come una rupe, con la spada in linea, lo sguardo attento.

 – Carrai ! – esclamò l’alabardiere. – Vi giudico già di una buona lama, ma vedremo in seguito se parerete queste botte che sembrano finte.

 Il signor di Ventimiglia non rispose. Non doveva essere certamente alle sue prime armi, a giudicare dalla sua calma.

 – Sfonderò quel muro d’acciaio e di carne – disse il capitano, il quale perdeva la sua calma. – Ecco una buona stoccata! Paratela!

 Era partito a fondo con velocità fulminea, ma il conte con una parata di seconda, altrettanto rapida, aveva scartato la lama del capitano.

 – Carrai ! Che braccio solido, signor de Miranda. Non mi aspettavo una simile resistenza. Il giuoco però è appena cominciato e la luna non tramonterà prima dell’alba.

 Anche questa volta il figlio del Corsaro Rosso non rispose.

 Guardava intensamente la punta della spada del capitano che l’astro notturno faceva scintillare sinistramente.

 – Non siete cortese, conte – disse il signor di Sant’Iago, rimettendosi in guardia. – Sapete che oggi usa battersi, scambiandosi frasi gentili?

 Un colpo di spada, che per poco non lo sorprese, fu la risposta del signor di Ventimiglia, colpo appena parato di terza, con solo un secondo di vantaggio.

 – Diavolo! – brontolò il capitano. – Qui non ci vogliono chiacchiere!

 Fece un passo indietro, tastando prima il terreno col piede sinistro per non scivolare, poi prese una guardia di seconda, dicendo:

 – Vi aspetto, conte!

 Il figlio del Corsaro Rosso, messo un po’ in sospetto da quella mossa, si guardò bene dall’attaccare e rimase fermo, con la spada in linea, sempre minacciando il petto del capitano con un colpo d’arresto.

 – Non assalite dunque, signor conte de Miranda?

 – Non ho mai fretta, capitano.

 – V’aspetto da un mezzo minuto.

 – Potete aspettarmi anche mezzo secolo, se cosí vi piace.

 – Ah, per le corna del diavolo!

 Per la terza volta il conte di Ventimiglia stette zitto. Ratto come un lampo si era allungato tutto, facendo due salti innanzi ed era piombato sull’avversario, portandogli un colpo in mezzo al petto. Fu un grande miracolo se anche quella stoccata venne parata dallo schermitore spagnuolo; nondimeno la casacca di seta rimase tagliata per un bel tratto.

 – Caramba ! Vi slanciate, signor conte, e cercate anche di sorprendermi, mentre io vi dico delle galanterie. Due centimetri piú innanzi, e mi toccavate. Un’altra volta ricordatevi che bisogna allungarsi…

 Un grido gli spezzò la frase. La spada del signor di Ventimiglia era nuovamente scattata e la lama era entrata piú di mezza nel petto del capitano. Egli rimase un momento in piedi, trattenendo la lama del conte con la mano sinistra; poi si rovesciò pesantemente a terra, spezzandola. Cinque pollici di acciaio della spada spezzata rimasero conficcati nel suo stomaco, all’altezza della quarta costola di sinistra.

 – Morto? – chiesero ad una voce Mendoza e Martin facendosi innanzi.

 Il conte gettò a terra il troncone della spada e si curvò sul capitano che si contorceva fra gli spasimi d’un’atroce agonia.

 – Forse non siete ferito gravemente, signor di Sant’Iago – gli disse. – Possiamo ancora salvarvi.

 – Credo d’aver avuto il mio conto – rispose il capitano. – Per bacco! Avete la mano piú lesta della mia! Morirò presto e ciò mi rincresce per una sola cosa.

 – Quale?

 – Per non aver avuto il tempo di mandarvi a bordo le mille e cento piastre che mi avete vinto.

 – Non ve ne date pensiero; ditemi invece che cosa possiamo fare per voi.

 – Chiamate i servi della marchesa di Montelimar. Almeno morrò sotto il tetto della donna… che amo e per la quale muoio.

 – Lasciate che cerchi di togliervi prima il pezzo di lama che vi è rimasta nel petto.

 – Mi uccidereste piú presto. No… no… i servi… mandate… correte.

 – Mendoza! Martin! chiamate gente al palazzo!

 I due marinai partirono di corsa; mentre il signor di Ventimiglia, piú commosso di quel che volesse sembrare, teneva alzata la testa del capitano, affinché il sangue non lo soffocasse. Era appena trascorso un minuto, quando si videro dei lumi e degli uomini avanzare attraverso i viali.

 – Signor conte, – disse il figlio del Corsaro Rosso – sono obbligato a lasciarvi. Non voglio che si sappia che sono stato io a ferirvi.

 – Vi ringrazio – rispose il capitano con voce fioca. – Se guarirò, spero che mi accorderete la rivincita.

 – Quando vorrete.

 Si alzò e si allontanò rapidamente, avviandosi verso la cancellata.

 Mendoza e Martin, dopo aver avvertiti i servi della marchesa, si erano a loro volta allontanati, scavalcando i ripari. Quando i valletti giunsero sul prato, il capitano era svenuto, ma teneva le mani serrate strettamente sul pezzo di lama.

 – Il capitano degli alabardieri di Granata! – esclamò il maggiordomo della marchesa, il quale guidava i servi. – È un amico della padrona! Presto, portiamolo al palazzo!

 Quattro servi sollevarono con precauzione il ferito e lo trasportarono in una stanza a pianterreno, adagiandolo su di un letto, mentre un quinto correva a cercare il medico di famiglia. La bella marchesa di Montelimar, avvolta in una vestaglia di seta azzurra, era subito scesa, e chiedeva al maggiordomo con voce angosciata:

 – Mio Dio, che cosa è successo, Pedro?

 – Hanno ferito gravemente…

 – Il conte de Miranda? – gridò la marchesa impallidendo.

 – No, Signora, il conte di Sant’Iago.

 – Il capitano degli alabardieri?

 – Precisamente

 – Con qualche pistolettata?

 – Con un terribile colpo di spada; ha ancora mezza lama conficcata nel petto.

 – Un duello?

 – Cosí pare.

 – Ed il feritore?

 – Scomparso, signora.

 – E dove si sono battuti?

 – Nel vostro giardino.

 – Quell’uomo cercava sempre di uccidere ed ha avuto il suo conto. Chi può aver vinto la migliore lama del reggimento di Granata? Chi? Non è morto, è vero?

 – Solamente svenuto, ma io credo che non se la caverà.

 – Lascia che lo veda.

 Il maggiordomo si trasse da una parte, ed essa entrò nella stanza dove si trovavano alcuni servi affaccendati a bagnare le labbra e le narici del ferito con aceto, per cercare di farlo rinvenire.

 Il capitano giaceva sul letto con le braccia aperte, il volto cadaverico, la fronte ancora corrugata. Un sibilo, piuttosto che un respiro, gli usciva dalla bocca semiaperta.

 Aveva sempre il pezzo di lama piantato in mezzo al petto, presso il cuore, non avendo nessuno osato levarlo, per timore di provocare una violentissima emorragia.

 Il giubbetto di seta a righe azzurre e rosse, con grandi alamari d’argento, era squarciato per una lunghezza di parecchi pollici, ma nessuna goccia di sangue aveva macchiato la camicia.

 La lama serviva da tampone.

 – Disgraziato! – mormorò la marchesa con voce commossa. – Lo spadaccino che lo ha cosí terribilmente ferito non può essere di San Domingo, poiché tutti avevano pura della spada di quest’uomo… È stato avvertito il medico, Pedro?

 – Sí, signora marchesa – rispose il maggiordomo. – Non tarderà a giungere.

 – Se non viene subito, questo povero conte muore.

 – Eccolo: odo della gente entrare.

 La porta si era aperta ed un vecchio, vestito interamente di seta nera, seguito da un giovane che portava una cassetta, erano comparsi. Erano il medico e il suo aiutante.

 – Signor Escobedo – disse la marchesa, andando incontro al vecchio – Vi raccomando quel signore: è il conte di Sant’Iago. Fate il possibile per strapparlo alla morte.

 – Oh! È il terribile spadaccino, marchesa? – chiese il medico. Quando si tratta di colpi di lama, l’affare è sempre serio. Vediamo.

 S’accostò al letto, mentre il suo aiutante apriva la cassetta contenente parecchi ferri chirurgici, e diede un lungo sguardo al ferito, il quale non aveva ancora ripreso i sensi.

 – Ferita grave, è vero, signor Escobedo? – chiese la marchesa.

 – Una stoccata terribile, marchesa – rispose il medico, facendo una smorfia e tentennando il capo. – Il suo avversario doveva avere un pugno ben solido.

 – Sperate di salvarlo?

 – Non posso darvi una risposta sicura, marchesa. Ritiratevi tutti a lasciatemi solo col mio aiutante. È necessario operare subito.

 La marchesa, il maggiordomo e i servi si affrettarono a sgombrare.

 – Una pinza forte, Maurico – disse il dottore quando furono soli, volgendosi verso l’aiutante.

 – Volete estrarre la lama, dottore?

 – Non posso certo lasciargliela nel petto!

 – Non morrà subito?

 – È quello che purtroppo temo. La punta deve aver offeso gravemente il polmone.

 In quel momento il conte emise un profondo sospiro e alzò le braccia, posando le mani sul pezzo di lama che gli usciva dal petto.

 – Sta per tornare in sé – disse il medico, il quale si era curvato sul ferito.

 Il capitano emise un altro sospiro piú lungo del primo e che terminò con una specie di rantolo, poi alzò lentamente le palpebre e fissò il dottore con uno sguardo velato.

 – Voi… – balbettò.

 – Non parlate, signore.

 Un sorriso contorse le labbra del conte.

 – Sono… un uomo… di guerra… – disse con voce spezzata. – Sono finito… è vero?…

 Il dottore scosse il capo senza rispondere.

 – Quanti minuti… ho… di vita? Parlate… lo voglio.

 – Potreste vivere anche un paio d’ore, se non vi levo il pezzo di spada.

 – E levandolo?… ditelo!

 – Pochi minuti forse, signor conte.

 – Mi… basteranno… per vendicarmi… Ascoltatemi…

 – Se parlate troppo vi ucciderete anche piú presto.

 Un altro sorriso comparve sulle smorte labbra del capitano.

 – Ascoltatemi… – disse con suprema energia. – Sulla lama… vi è inciso… un nome… quello del mio avversario… Voglio conoscerlo… prima di morire.

 – Bisognerebbe levarvela dal petto.

 Il conte fece un cenno affermativo.

 – Lo volete proprio? – chiese il dottore.

 – Già… morrò… egualmente.

 – Maurico, le pinze.

 L’aiutante portò due piccolissime tenaglie, un pacco di cotone e delle fasce, per arrestare subito il sangue che sarebbe sgorgato dalla ferita.

 – Presto… – mormorò il conte.

 Il medico afferrò la lama e la trasse, a piccole scosse, dal corpo. Il conte aveva stretto le labbra per non gridare. Dall’alterazione del viso e dal sudore vischioso che gli copriva la fronte, si capiva quanto doveva soffrire.

 Fortunatamente quella dolorosissima operazione non durò che pochi secondi: subito dalla ferita sgorgò un getto di sangue che l’aiutante fermò con delle bende.

 – Il nome… il nome… – balbettò il capitano con voce spenta – presto… muoio…

 Il dottore pulí la lama lorda di sangue con un asciugamano, e vide apparire delle lettere incise sull’acciaio, sormontate da una piccola corona di conte.

 – Enrico di Ventimiglia – lesse.

 Il capitano, nonostante la sua estrema debolezza ed il dolore che lo tormentava, si era quasi alzato a sedere, esclamando con voce rauca:

 – Ventimiglia!… Un nome di corsari: il Rosso… il Verde… il Nero… Un Ventimiglia! Tradimento!

 – Conte, vi uccidete! – gridò il medico.

 – Ascoltate… ascoltate… la fregata… giunta ieri… è corsara… la comanda quello vestito di rosso… correte dal governatore… avvertitelo… fatela abbordare… presto… la città è in pericolo… Muoio… ma vendicheranno la mia morte… Ah!

 Il capitano era ricaduto sui guanciali. Rantolava ed impallidiva a vista d’occhio.

 Il sangue filtrava attraverso le filacce e le bende arrossando la camicia e la giubba. Ad un tratto una spuma sanguigna comparve sulle labbra del disgraziato, poi le palpebre si abbassarono lentamente sugli occhi già spenti. Il capitano degli alabardieri di Granata era morto.

 – Maestro, – disse l’aiutante al medico, il quale teneva sempre in mano il pezzo di lama – che cosa farete ora?

 – Andrò ad avvertire subito il governatore. I Ventimiglia sono stati i piú tremendi corsari del golfo del Messico. Qualche loro figlio o parente è ricomparso in queste acque. Guai a noi se non si catturasse!… Non ne parlare con nessuno, nemmeno con la marchesa.

 – Sarò muto, maestro.

 – Tu andrai ad avvertire il colonnello del reggimento di quanto è accaduto, perché venga trasportato in caserma, questo povero conte.

 – E voi?

 – Corro dal governatore.

 Avvolse nell’asciugamano la lama, poi aprí la porta. La marchesa di Montelimar, in preda ad una visibile commozione, aspettava nella sala vicina insieme al maggiordomo e alle sue cameriere.

 – Dunque, dottore? – chiese.

 – È morto, marchesa – rispose Escobedo. – La ferita era terribile.

 – E non vi ha detto chi lo ha ucciso?

 – Non ha potuto parlare; deve aver avuto un duello, perché non aveva piú la spada nella guaina.

 – E ora?

 – Penso io a tutto. Prima dell’alba il capitano sarà portato nella caserma o nel suo appartamento. Si potrebbe malignare sul conto vostro, se lo lasciassimo qui.

 – È quello che temevo.

 – Buona notte, marchesa. M’incarico io di ogni cosa.

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