UNA TERRIBILE BATTAGLIA NAVALE

CAPITOLO VIII

 

 UNA TERRIBILE BATTAGLIA NAVALE

 

 Bisogna proprio credere che una fortuna straordinaria proteggesse quegli audaci ladroni di mare, ed un triste destino perseguitasse con ostinazione incredibile i discendenti di quei terribili conquistadores, che con pochi colpi d’archibugio, ma molta audacia, avevano rovesciati i piú potenti imperi dell’America del Nord e del Sud e anche del Centro.

 Prendere d’assalto una città reputata una delle piú solide piazze forti del Nicaragua, sfuggire a duemila e cinquecento soldati, evitare i numerosi agguati e giungere ancora sani e salvi, attraverso un paese infestato da indiani ostili, erano fatti assolutamente stupefacenti, quasi inverosimili: eppure la storia di quella ardita scorreria, fatta da un pugno d’uomini, è sempre lí a provare l’esattezza di quelle imprese strabilianti.

 La fortuna non doveva ancora venir meno a quei formidabili ladri di mare, poiché, ventiquattro ore dopo il loro arrivo sulle coste del Pacifico, li ritroviamo al sicuro all’isola di Taroga in mezzo ad altri filibustieri giunti dai mari del sud con due buone navi di battaglia.

 Le quattro colonne, che durante la ritirata avevano subito perdite piuttosto rilevanti, si trovarono subito rinforzate d’altri duecento uomini, fra inglesi e francesi, non meno risoluti di loro a menar le mani e non meno assetati, piú che di conquiste, d’oro spagnuolo.

 Possedendo, come abbiamo detto, due navi da battaglia, fu deciso, dai quattro capi, in un consiglio tenuto qualche giorno dopo, di tentare innanzi a tutto una spedizione verso Villia, città lontana appena venti leghe da Panama, per provvedersi di viveri, non essendo l’isolotto, coi suoi pochi alberi per la maggior parte infruttiferi, capace di mantenere tanta gente.

 Le due navi, che erano giunte dai mari del sud, avevano consumate tutte le loro provviste, ed i filibustieri che avevano preso d’assalto Nuova Granata, non avevano portato con sé che delle piastre inutili, in quel momento, come i grani di sabbia ammonticchiati intorno a quell’isoletta deserta.

 Prima di tentare un colpo di mano su Panama, volevano essere almeno ben forniti di viveri e anche di munizioni.

 Fu Tusley che s’incaricò dell’impresa. Imbarcatosi con duecento uomini sulle due navi, approda a non molta distanza dalla città, poi muove risolutamente all’assalto ed in poche ore se ne rende padrone, malgrado la fiera resistenza opposta dagli spagnuoli.

 S’impadronisce di trecento prigionieri, di quindicimila piastre, d’un milione e mezzo di merci, e, non ancora soddisfatto di tanta ricchezza, invia un messo all’ alcadedella città che si era salvato nelle boscaglie, per proporgli il riscatto dei prigionieri contro il versamento di cinquantamila piastre.

 L’ alcadefa rispondere che egli non poteva offrire a tali ladroni altro che della polvere e delle palle, e le une e le altre erano pronte, e che in quanto ai prigionieri li abbandonava alla Provvidenza e intanto li avvertiva che stava radunando forze imponenti per ricacciarli nell’Oceano Pacifico.

 A tale risposta Tusley fa incendiare la città, caricano viveri e bottino su due grosse scialuppe che avevano prese sul vicino fiume e cominciano la ritirata.

 Qui però cominciano i primi disastri.

 Trecento spagnuoli, imboscati ad un gomito del fiume, s’impadroniscono delle due scialuppe e trucidano gli equipaggi.

 I filibustieri, che si ritraevano attraverso le boscaglie, a tale nuova mandano altri messi all’ alcade, minacciando di massacrare i trecento prigionieri se non viene loro restituito il bottino e pagato il riscatto.

 Indugiando la risposta, Tusley fa fucilare una parte di quei prigionieri e manda le loro teste a Villia.

 L’ alcade, atterrito, restituisce il bottino e le due barche, e vi aggiunge diecimila piastre per salvare la vita agli altri disgraziati che si trovano nelle mani dei corsari.

 Non dovevano tardare però gli spagnuoli a prendersi a loro volta delle splendide rivincite.

 Sorprendono una partita di filibustieri, composta di trentasei uomini, che si era gettata sulla Boccachica per passare alla sponda orientale del continente e li fanno a pezzi, ad eccezione d’uno solo che viene condotto prigioniero a Panama.

 Quasi nel medesimo tempo sorprendono pure due piccole colonne di filibustieri inglesi, formate di quaranta uomini ciascuna, e le annientano completamente in mezzo alle folte boscaglie dell’istmo.

 Tusley però, quantunque perseguitato da tutte le parti, conduce la sua colonna fino sulle sponde dell’Oceano e giunge felicemente a Taroga, colle sue venticinquemila piastre intatte, le sue merci, i suoi viveri e le sue due navi.

 Quella spedizione non era durata che una quindicina di giorni, durante i quali, i filibustieri rimasti sull’isolotto non erano vissuti che di testuggini marine e di poche frutta, con pochissimo piacere del guascone e dei due suoi compagni, i quali si erano specialmente lamentati della pessima qualità dell’acqua e dell’assenza completa di bottiglie di Xeres e di Alicante da vuotare.

 Ben provvisti di viveri e soprattutto di munizioni, i filibustieri, dopo un nuovo consiglio, decisero di tentare il blocco di Panama, per imporre a quel viceré la consegna della sorella del signor di Ventimiglia e di alcuni prigionieri.

 Dopo quattro giorni dal ritorno di Tusley, i filibustieri s’imbarcarono.

 Non erano però piú numerosi come prima, poiché centoquarant’otto francesi si erano separati dai loro compagni, in causa delle solite questioni religiose, navigando verso settentrione, coll’idea di predare le coste della California.

 Erano però ancora abbastanza bene in forza per farsi temere dagli spagnuoli, tanto piú che erano guidati da quattro valorosissimi capi.

 Avendo saputo da un prigioniero che due grossi velieri spagnuoli erano attesi da Panama provenienti da Lima con un carico di farine e di denaro, i filibustieri decisero innanzi a tutto di abbordarli, prima che giungessero in porto.

 La mancanza di viveri era sempre quella che piú preoccupava quegli uomini, non avendo nessun mezzo di procurarsene, fuorché nel saccheggi, poiché tutte le coste erano guardate e tutte le piantagioni erano state distrutte per molte leghe entro terra.

 Guidavano il primo vascello, il signor di Ventimiglia e Raveneau de Lussan; l’altro Tusley e Grogner.

 Non sarebbe necessario dire che i tre terribili avventurieri avevano preso imbarco sulla nave del conte, ansiosi di aver nuova occasione per menare le loro formidabili draghinasse.

 – Taroga è un’isola di tartarughe, aveva detto don Barrejo, mettendo i piedi sul ponte della nave. Non siamo già venuti in America per provare il filo della spada contro i gusci di quei rettili.

 – Ed io non sono venuto per guardare le sabbie ed ascoltare il rumoreggiare della marea, – aveva aggiunto Mendoza.

 – Ed io non ho lasciato il Brabante per veder arrugginire le mie braccia, – aveva detto il fiammingo.

 E si erano imbarcati lietamente, promettendosi di compiere altre meravigliose imprese e di non perdere per un solo istante di vista il marchese di Montelimar, che era stato affidato alla loro sorveglianza.

 Il primo giorno passò senza incidenti. Le due navi, che non erano molto grosse, né molto armate, avevano navigato sempre in vista dell’isolotto, colla speranza di sorprendere i due velieri provenienti da Lima.

 Il secondo giorno, non avendo incontrato alcun bastimento, avevano fatto un’ardita punta verso Panama, senza però osare accostarsi troppo al porto, non ignorando che il viceré poteva, in poche ore, radunare una squadra considerevole.

 La mattina del terzo, i gabbieri che erano di guardia sulle coffe mandarono il primo grido d’allarme.

 – Vele a levante!

 Il signor di Ventimiglia e Raveneau de Lussan, i quali erano saliti appena allora in coperta, erano stati i primi a precipitarsi verso il castello di prora.

 Quel grido di «vele a levante» non aveva mancato di produrre su di loro una certa sorpresa, poiché non era da quella parte che dovevano avanzarsi i due vascelli provenienti dai mari del sud.

 – Che siano legni che vengono da Panama? si era chiesto il conte.

 – È quello che purtroppo temo, – aveva risposto Raveneau de Lussan. – Gli spagnuoli devono aver le tasche piene di noi e avranno organizzata qualche flottiglia.

 – Che noi prenderemo d’assalto e che affonderemo, – disse Mendoza, il quale non aveva indugiato a raggiungerli, insieme ai suoi due compari.

 – Signor de Lussan, prepariamoci al combattimento, – disse il conte di Ventimiglia. – Abbiamo uomini decisi a tutto e artiglierie non del tutto in cattivo stato. Mostreremo ancora una volta agli spagnuoli come sanno lottare e morire i forti fratelli della Costa.

 Le trombe avevano suonato.

 – Tutti in coperta!

 I filibustieri, sempre pronti a qualunque cimento, si erano slanciati ai loro posti di combattimento: i vecchi bucanieri in coperta, dietro le brande arrotolate sulle murate, ed i corsari nelle batterie.

 La nave di Tusley e di Grogner aveva subito raggiunta, con una splendida bordata, quella del signor di Ventimiglia, la quale muoveva audacemente incontro alle vele segnalate.

 – Don Barrejo, – disse il basco, il quale provava il filo della sua draghinassa. – Temo che questa volta la faccenda sia piú seria di quella di Pueblo-Viejo e di Nuova Granata. Quelle navi vengono da Panama; ve lo dice un vecchio uomo di mare che conosce i venti meglio che Eolo in persona.

 – I capitani delle fregate, che voi sappiate, hanno sempre una buona riserva di bottiglie? – chiese il guascone, il quale stava pure esaminando la sua draghinassa.

 – Che cosa diavolo mi domandate, don Barrejo? – chiese il basco, non senza un certo stupore.

 – Il signor guascone ha parlato bene, – disse il fiammingo, colla sua solita gravità. – Rispondete alla sua domanda, don Mendoza.

 – Io credo che abbiano piú palle che bottiglie, – disse il basco. – Non escludo però che posseggano una piccola cantina.

 – Non voglio sapere altro, – rispose il guascone. – Andremo ad assaggiare quel vino e vedremo se è piú squisito quello che si trova sepolto nelle cantine o quello navigato.

 Un grido, che scese in quel momento dalla coffa dell’albero maestro, interruppe la loro conversazione.

 – Fregata in vista!…

 – Ve lo dicevo io? – disse Mendoza. Altro che le navi cariche di farina e di denaro provenienti da Lima. Troveremo ferro e piombo.

 – Ma anche una cantina, – aggiunse il guascone.

 Per la terza volta la voce del gabbiere di guardia si fece udire.

 – E due barconi di appoggio!…

 – Quelle non hanno di certo delle bottiglie, – disse il basco. – Conteranno probabilmente un bel numero di corde per appiccarci.

 – Appiccare noi! – gridò il guascone, trinciando l’aria colla sua draghinassa. – Ah!… Ci vuole ben altro per appiccare della gente come noi!…

 – Già, – disse il fiammingo. – Gente come noi.

 I filibustieri si preparavano animosamente alla battaglia, cercando di raggiungere la fregata prima che le barcaccie, pessime veliere, potessero accorrere per appoggiarla.

 Il conte di Ventimiglia, dall’alto del cassero, impartiva con voce squillante gli ordini, mentre Grogner faceva altrettanto sul secondo vascello.

 La fregata, che era di forte tonnellaggio ed armata di una trentina di cannoni, muoveva pure risolutamente contro i corsari, sicurissima di sgominarli con poche bordate.

 Il signor di Ventimiglia, accortosi a tempo che gli spagnuoli muovevano all’arrembaggio con animo risoluto, aveva dato l’ordine alle due navi di scostarsi, per prenderli in mezzo, prima che giungessero le barcaccie, le quali contenevano numerosi combattenti e anche dei grossi pezzi d’artiglieria.

 A mille passi, il combattimento s’impegnò ferocissimo da ambe le parti.

 La fregata tuonava ed avanzava, tentando di disalberare i due legni corsari; questi rispondevano come potevano, non disponendo che di pochissimi pezzi.

 A cinquecento passi, gli spagnuoli i quali si tenevano sicurissimi di aver ben presto ragione di quell’accozzaglia di ladroni di mare, imbrogliano le vele di parrocchetto e di pappafico, per essere piú liberi nella manovra e filare sulla nave del conte di Ventimiglia, la quale era piú vicina, per abbordarla.

 I tamburi rullano fragorosamente sui suoi altissimi ponti ed il grande stendardo di Spagna sventola orgogliosamente al vento.

 I suoi archibugieri ed i suoi alabardieri sono schierati dietro i bastingaggi, pronti a montare all’abbordaggio, mentre dalle due barcaccie partono scariche violentissime, quantunque quasi inefficaci, in causa della distanza.

 – Fra poco qui farà molto caldo, – disse Mendoza, il quale non perdeva di vista la fregata. – Se gli spagnuoli muovono su di noi cosí risolutamente, è segno che sono ben decisi a sterminarci. Don Barrejo, temo che le bottiglie del capitano siano un po’ dure da guadagnare.

 – Io ho l’abitudine di rispettare tutte le opinioni, però vi dico che il conte monterà all’abbordaggio prima degli spagnuoli. Ho sete: perché non dovrei bere?

 – Ben detto, – disse il fiammingo. – Noi berremo il vino di Panama.

 Le due navi corsare, con una manovra fulminea, avevano ripreso il largo, rispondendo vigorosamente coi loro pezzi. Subivano gravi danni per quel continuo cannoneggiamento, tuttavia non disperavano di dare ai loro nemici un’altra formidabile battuta.

 La fregata, che precedeva sempre le due barcaccie di parecchie gomene, si getta improvvisamente fra i due legni corsari, alternando scariche di mitraglia e palle.

 Era il momento atteso dai quattro capi della filibusteria, per tentare un attacco disperato.

 I due velieri in pochi istanti si stringono addosso al vascello nemico e, come era loro abitudine, scagliano sui ponti un numero cosí enorme di granate, da mettere, in pochi minuti, fuori di combattimento la maggior parte degli archibugieri e degli alabardieri e poi, approfittando della Grande confusione prodotta da tutti quegli scoppi, montano arditamente all’abbordaggio, con un urlio assordante.

 Bucanieri e artiglieri, tutti si precipitano all’assalto con una ferocia inaudita.

 Il conte di Ventimiglia e Raveneau de Lussan, insieme ai tre avventurieri, sono i primi che montano sulla fregata.

 Un combattimento omerico s’impegna. Anche gli uomini di Tusley e di Grogner hanno abbordata la nave e si rovesciano, con impeto irresistibile, attraverso ai ponti, battagliando come leoni scatenati.

 Gli spagnuoli, già respinti a prora, attraversano a corsa sfrenata la tolda e si rifugiano sul cassero dove hanno un pezzo da caccia in batteria, ma la pioggia di bombe, scagliate dai filibustieri e dai gabbieri che sono rimasti sulle coffe e sulle crocette dei due vascelli, li raggiungono anche là, causando un panico indescrivibile.

 Il loro valore nulla può contro quella pioggia di fuoco e contro l’urto formidabile dei corsari, troppo abituati alle strepitose vittorie, ed il grande stendardo di Spagna viene calato fra gli urrah degli assalitori, ai quali la fortuna, ancora una volta, ha arriso.

 Di cento e venti uomini che si trovavano sulla fregata, ben ottanta erano caduti morti o gravemente feriti.

 Sbarazzatisi del nemico piú pericoloso, i filibustieri, lasciati alcuni uomini sulla fregata, tornano ad imbarcarsi sui loro legni, i quali durante quel formidabile cannoneggiamento non avevano riportati che pochissimi danni, e si mettono nuovamente in caccia per catturare le due barcaccie che erano montate da numerosi equipaggi.

 Un nuovo combattimento, non meno feroce e sanguinoso, s’impegna, ma i due legni corsari non tardano ad avere anche questa volta il sopravvento.

 Con un attacco fulmineo s’impadroniscono della barcaccia maggiore, nonostante la terribile resistenza che oppone l’equipaggio, forte di settanta uomini, dei quali soli diciannove sfuggono alla morte; l’altra, vedendosi perduta, alza tutte le sue vele e cerca di raggiungere la costa. Invece urta contro una scogliera, si spezza a metà e perde la maggior parte della sua gente.

 Non era però ancora finita e la stella che proteggeva quei formidabili scorridori dei mari non si era ancora offuscata.

 Erano intenti a liberare la fregata dai morti che la ingombravano ed a rattoppare alla meglio le attrezzature delle loro navi, alquanto malmenate dalle grosse artiglierie nemiche, quand’ecco che altre due barcaccie, montate pure da equipaggi numerosi, compariscono all’orizzonte.

 I filibustieri, inquieti, interrogano i superstiti della fregata e con minacce di morte riescono a sapere che quelle navicelle avevano ricevuto l’ordine di muovere al piú presto in soccorso della flottiglia.

 I filibustieri, quantunque esausti per tante ore di combattimento, non si perdono d’animo. Comprendendo che a Panama si ignorava ancora la sconfitta subita dalle navi spagnuole, s’imbarcano sulla fregata e sulla barcaccia catturata, alzano ai corni d’artimone lo stendardo di Spagna e muovono verso quei nuovi nemici che s’accostano fiduciosi, credendo avere da fare coi loro compatriotti.

 – Don Barrejo, – disse Mendoza, il quale essendo, come abbiamo già detto, uno dei migliori artiglieri della filibusteria, era stato incaricato del servizio del pezzo da caccia del cassero. – Spero che non vi lamenterete piú di non menare abbastanza le mani.

 – Perdinci, – rispose il guascone, il quale stava accomodandosi alla meglio la sua casacca squarciata da un colpo d’alabarda. – Non credevo d’aver tanto lavoro. La mia draghinassa, a forza di picchiare sugli elmi e sulle corazze, è diventata una vera sega. Sarà necessario che io scovi in qualche luogo un arrotino o finirà per non tagliare piú nemmeno il collo d’una bottiglia.

 – Cambiatela: ne abbiamo prese un buon numero sulla fregata.

 – Oibò!… Io lasciare la spada di mio padre!… Non sapete che questa lama ha preso parte a piú di venti combattimenti? È una lama storica nella famiglia dei de Lussac.

 – Mi rincresce che tagli poco ora.

 – Perché?

 – Non vi hanno detto che quelle barcaccie sono montate da biscaglini, i migliori marinai che abbia la Spagna?

 – Basterà per oggi anche contro di loro.

 – Badate che lavori bene, perché si dice che in quelle navicelle vi sia una grossa provvista di corde.

 – Che dovranno servire?

 – Ad appiccarci, se ci prendono vivi.

 – Dite sul serio?

 – Lo hanno confessato i prigionieri della fregata, – rispose Mendoza.

 – Oh!… I bricconi!…

 – Il viceré di Panama è stanco di noi ed ha giurato di farci fare l’ultima danza, appesi ai pennoni.

 – Brutto ballo, – disse il fiammingo, il quale si trovava presente.

 – Infatti non deve essere molto piacevole, – rispose il guascone. Mi raccomanderò alla mia draghinassa.

 – Sapete però che cosa hanno deciso i filibustieri?

 – Di adoperarle per legare come salami i prigionieri.

 – Niente affatto: di servirsene per far danzare sui pennoni, o meglio sotto i pennoni, gli equipaggi delle barcaccie.

 – Non li abbiamo ancora presi.

 – Eh!… aspettate un po’.

 La fregata era giunta allora a buon tiro. Le due barcaccie, ingannate dallo stendardo che sventolava sempre sul corno dell’artimone, non avevano cessato di avanzarsi.

 Un comando breve, secco, echeggiò sul ponte della nave predata.

 – Fuoco di bordata!

 In un lampo la bandiera di Spagna viene ammainata e sostituita dagli stendardi di Francia e d’Inghilterra, e una tempesta di palle prende d’infilata le due barcaccie, disalberandole e rasandole come due pontoni.

 Una barcaccia s’incendia e brucia come un pezzo di legno secco e le polveri scoppiano con fracasso orrendo, scaraventando in alto la coperta, sventrando la poppa e sfondando le murate di babordo e di tribordo.

 L’altra però tiene vigorosamente testa all’attacco, cannoneggiando furiosamente coi due soli pezzi che aveva a bordo.

 La lotta non dura che pochi minuti, poiché in aiuto dei filibustieri accorrono anche i due vascelli, i quali fanno un fuoco infernale sulle due disgraziate navicelle.

 Quella che brucia va a fondo e nessuno degli uomini che la montano sfugge al disastro, l’altra viene abbordata e presa dopo un brevissimo combattimento.

 Ventidue filibustieri però cadono gravemente feriti e fra di loro Tusley, il quale doveva morire qualche giorno dopo avendo ricevuto una palla avvelenata.

 I filibustieri, furiosi per le gravi perdite subite e per aver trovato tante funi destinate ad impiccarli, non ostante le proteste del conte di Ventimiglia, non lasciano vivo nemmeno uno dei prigionieri che montavano la seconda barcaccia.

 Superbi di tanta fortuna, lo stesso giorno si ritirarono a Taroga per deliberarvi sul da farsi, avendo saputo che non uno bensí cinque dei loro compagni si trovavano prigionieri a Panama, soggetti a durissima schiavitú.

 Era loro intenzione di muovere audacemente sulla ricca città e di tentarne l’assalto. Ma avendo appreso che una forte squadra aveva lasciato i porti del Perú e che moveva in cerca di loro per finirla una buona volta, decisero di mandare un messo a Panama e d’intimare al Presidente dcll’Udienza Reale la pronta restituzione dei cinque prigionieri e della figlia del Corsaro Rosso, minacciando, in caso di rifiuto, di uccidere, per ognuno di essi, quattro spagnuoli dei tanti che tenevano nelle loro mani.

 Il Presidente manda ai filibustieri un ufficiale per dire loro a voce che nulla poteva fare e nel medesimo tempo ricorre al vescovo di Panama per tentare se il suo carattere potesse avere qualche efficacia, almeno sui francesi che si piccavano di mostrarsi sempre cattolici.

 Il vescovo scrisse infatti dicendo che il rifiuto del Presidente da non altro dipendeva che dalla obbedienza che egli doveva agli ordini sovrani, i quali gli proibivano una tale sorta di scambi ed avvertendoli nell’istesso tempo che quattro prigionieri inglesi si erano ormai convertiti al cattolicismo e che erano decisi a rimanere cogli spagnuolí.

 Quelle risposte, come si può ben comprendere, non erano sufficienti per persuadere quei formidabili corsari.

 In un altro consiglio decisero di rimandare un altro prigioniero a Panama affinché avvertisse anche a voce il Presidente che erano piú che mai risoluti a massacrare i trecento spagnuoli che tenevano nelle loro mani, anche per vendicarsi delle palle avvelenate usate dagli archibugieri della fregata, le quali avevano causata la morte di Tusley e dei ventidue feriti.

 Per fare maggior impressione, decapitarono venti prigionieri estratti a sorte e mandarono le teste a Panama.

 Un tale atroce fatto indusse il Presidente a non piú tardare a mettere in libertà quei prigionieri ed a pagare diecimila piastre.

 Nel numero mancava però la figlia del Corsaro Rosso.

 Fu un’esplosione di collera terribile, poiché i filibustieri ci tenevano soprattutto ad avere la fanciulla, perché ormai riguardavano il conte di Ventimiglia come il loro vero capo.

 Il progetto di trucidare tutti i prigionieri spagnuoli, compreso il marchese di Montelimar, per un momento trionfò…

 – Mandate la testa dell’ex-governatore di Maracaibo al Presidente dell’Udienza Reale di Panama, – avevano detto Grogner e Raveneau de Lussan, che parevano i piú inferociti. – Diamo una terribile lezione a quegli uomini che usano contro di noi palle avvelenate, cosa contraria a tutte le leggi della guerra!…

 – No, – aveva risposto fermamente il conte. – Io vi lascio liberi e mi risolvo ad andare a Panama a cercare mia sorella. Se avrò bisogno di voi, non dubito che voi accorrerete tutti in mio aiuto. Mettete a mia disposizione una barcaccia, affinché possa avviarmi alla costa ed uno schifo per entrare inosservato in porto. La testa del marchese di Montelimar risponderà della mia vita.

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