In mezzo al fuoco

Qualunque altro si sarebbe non poco impressionato, udendo quella minaccia, lanciata da un uomo appartenente ad una razza così sanguinaria e coraggiosissima e nell’apprendere nel medesimo tempo, che la via per sfuggire quel grave pericolo gli era stata tagliata.

Yanez invece, aveva ascoltato il malese e il nemico che lo minacciava di sterminio, senza dare alcun segno, nè di collera, nè di scoraggiamento.

Ne aveva provate ben altre nella sua vita per perdersi d’animo.

– Ah! – aveva semplicemente esclamato. – Ci vogliono sterminare! Meno male che sono stati così gentili di avvertirci. E poi li chiamano selvaggi!

Dopo quelle parole, che dimostravano una perfetta serenità d’animo, si era rivolto al malese che si trovava in acqua, chiedendogli:

– È solida la catena?

– È d’ancora grossa, capitano, – aveva risposto il marinaio.

– Dove l’avranno trovata quei selvaggi? Che da un momento all’altro abbiano imparato a fabbricarle? Quel pellegrino ha insegnato loro a compiere delle vere meraviglie!

– Capitano Yanez, – disse Sambigliong. – La Marianna va di traverso. Devo far gettare un ancorotto?

Il portoghese si volse guardando il veliero, il quale, non potendo avanzare, non obbediva più all’azione del timone e cominciava a virare sul tribordo, indietreggiando lentamente.

– Cala un ancorotto da pennello e prepara la scialuppa, – disse al mastro. – È necessario tagliare quella catena.

Il ferro fu rapidamente affondato, filando pochi metri di catena, non essendo molto profondo il fiume in quel luogo e la Marianna arrestò la sua marcia indietro, raddrizzandosi quasi subito colla prora alla corrente.

La medesima voce di prima, più minacciosa, s’alzò fra le piante, ripetendo l’intimazione:

– Arrendetevi o vi stermineremo tutti.

– Per Giove! – esclamò Yanez. – Mi ero scordato di rispondere a quell’uomo!

Fece colle mani porta-voce, gridando:

– Se vuoi la mia nave vieni a prenderla: ti avverto solo che abbiamo abbondanza di polvere e di piombo. Ed ora non seccarmi più, che ho altro da fare in questo momento.

– Il pellegrino della Mecca ti punirà.

– Va’ ad appiccarti insieme al tuo Maometto. Ti troverai bene in sua compagnia. Sambigliong, fa’ calare la scialuppa e manda sei uomini a tagliare la catena: attenzione agli artiglieri di babordo e proteggete chi scende.

La più piccola delle due imbarcazioni fu messa rapidamente in acqua, e sei malesi, armati di pesanti scuri e di fucili, si calarono dentro.

– Picchiate sodo e fate presto soprattutto! – gridò loro il portoghese.

Poi salì sulla murata, aggrappandosi ad un paterazzo e guardò attentamente verso la riva, su cui era echeggiata la voce del misterioso pellegrino.

Attraverso la foresta scorse ancora passare dei punti luminosi, che si allontanavano con fantastica velocità.

– Che cosa preparano quei furfanti? – si chiese, non senza un po’ di preoccupazione.

– Signor Yanez, – disse Tangusa, che aveva lasciato il timone, essendo diventato pel momento inutile. – Ho scorto dei fuochi anche sulla riva destra.

– Che siano dayaki che radunano delle altre noci di cocco? È un bel po’ che vediamo passare quelle luci.

Ad un tratto mandò una sorda imprecazione. Trenta o quaranta lingue di fuoco si erano improvvisamente alzate fra i cespugli delle due rive, rompendo l’oscurità fittissima che regnava sotto gli alberi.

– Mettono fuoco alle foreste! – gridò. – Miserabili!

– E quello che è peggio, signore, – aggiunse il meticcio, con voce alterata dallo spavento, – tutti questi alberi sono avvolti da giunta wan satura di caucciù.

Pra-la! – gridò il portoghese, rivolgendosi all’uomo che comandava la scialuppa. – Potete resistere da soli?

– Abbiamo le nostre carabine, signor Yanez.

– Affrettatevi più che potete, poi raggiungeteci. Sambigliong, fa’ salpare l’ancorotto.

– Ridiscendiamo il fiume, capitano? – chiese il mastro.

– Ed in fretta, mio caro. Non ho alcun desiderio di farmi arrostire vivo. Lesti Tigrotti. Tutto alla banda il timone, Tangusa!

In un baleno il ferro fu strappato dal fondo e la Marianna, che aveva in quel momento il vento a mezza-nave, virò rapidamente di bordo, lasciandosi trasportare dalla corrente.

Una dozzina d’uomini, muniti di lunghi remi, aiutavano l’azione del timone, che diventava poco efficace avendo l’acqua a seconda.

I sei marinai della scialuppa, quantunque privi della protezione dei loro compagni, non avevano abbandonata la catena e continuavano a tempestarla di colpi furiosi non accennando i grossi anelli a cedere tanto facilmente.

Intanto l’incendio avvampava con rapidità spaventevole e nuove lingue di fuoco s’alzavano qua e là, per propagarlo su una più vasta estensione.

Le fiamme trovavano un ottimo elemento nelle giunta wan (urceola elastica), quelle grosse piante rampicanti dalle quali i malesi traggono una sostanza vischiosa, di cui si servono per prendere gli uccelli, nei gambir, nei colossali alberi della canfora e nelle piante gommifere che sono numerose in tutte le foreste del Borneo.

Tutte quelle piante crepitavano, come se contenessero nelle loro fibre delle cartuccie di fucile o detonavano e dai loro squarci lasciavano colare la linfa più o meno satura di resina, la quale a sua volta prendeva fuoco allargando sempre più l’incendio.

Una luce intensa era successa alle tenebre, mentre miriadi di scintille s’alzavano a grande altezza volteggiando fra turbini di fumo.

La Marianna scendeva precipitosamente, aiutata dai remi per sottrarsi a quell’incendio, che si propagava ormai anche alle piante prossime alle due rive, ma non aveva percorso che cinquecento passi, quando un urto avvenne a prora, che si ripercosse in tutte le parti della carena.

Urla furiose erano scoppiate sul castello di prora, dove eransi radunati la maggior parte dei malesi, temendo che da un momento all’altro comparissero le scialuppe e i pontoni dei dayaki.

Siamo presi!

– Ci hanno tagliata la ritirata!

Yanez era accorso, immaginandosi che cos’era accaduto.

– Un’altra catena? – chiese, respingendo i suoi uomini per farsi largo.

– Sì, capitano.

– Allora l’hanno tesa pochi minuti fa.

– Così deve essere, – disse Tangusa, che appariva esterrefatto. – Signor Yanez, non ci rimane che di prendere terra mentre l’incendio non è ancora attaccato dovunque.

– Lasciare la Marianna! esclamò il portoghese. – Oh mai! Sarebbe la fine di tutti, anche di Tremal-Naik e di Darma.

– Devo mettere in acqua l’altra scialuppa? – chiese Sambigliong.

Yanez non rispose. Ritto sulla prora, colle mani strette sulla scotta della trinchettina, la sigaretta spenta e compressa fra le labbra, guardava l’incendio che s’allargava sempre più.

Anche verso il basso corso del fiume delle vampe cominciavano ad alzarsi. Fra poco la Marianna doveva trovarsi in mezzo ad un mare di fuoco e, siccome gli alberi quasi riunivano i loro rami sopra il fiume, l’equipaggio correva il pericolo di vedersi rovesciare addosso una pioggia di tizzoni ardenti e di cenere calda.

– Capitano, – ripetè Sambigliong, – devo mettere in acqua la seconda scialuppa? Noi corriamo il pericolo di perdere la Marianna, se non fuggiamo.

– Fuggire! E dove? – chiese Yanez, con voce pacata. – Abbiamo il fuoco dinanzi e di dietro e anche spezzando le catene la nostra situazione non migliorerebbe.

– Ci lasceremo dunque arrostire, signor Yanez?

– Non siamo ancora cucinati, – rispose il portoghese, colla sua calma meravigliosa. – Le tigri di Mompracem sono costolette un po’ dure.

Poi, cambiando bruscamente tono, gridò:

– Stendete la tela sul ponte, abbassate le vele sui ferri di sostegno. In acqua le maniche delle pompe e affondate le àncore. Gli artiglieri a posto!

L’equipaggio che attendeva con angoscia qualche decisione, in pochi momenti issò i ferri di sostegno e ammainò le due immense vele.

La Marianna, come tutti gli yacht che intraprendono dei viaggi nelle regioni estremamente calde, era fornita d’una tela per riparare il ponte dagli ardenti raggi solari e dei relativi sostegni.

In un baleno fu stesa all’altezza delle bome e le due vele vi furono gettate sopra, lasciando cadere i margini lungo le murate, in modo da coprire interamente la piccola nave.

– Manovrate le pompe e inaffiate, – comandò Yanez, quando l’ordine fu eseguito.

Riaccese poscia la sigaretta e si spinse verso la prora, mentre torrenti d’acqua venivano lanciati contro la tela inzuppandola completamente.

Gli uomini incaricati di spezzare la catena, tornavano in quel momento a bordo, arrancando disperatamente. Sopra di loro fiammeggiavano i rami degli alberi, coprendoli di scintille.

– Giungono a tempo, – mormorò il portoghese. – Che spettacolo magnifico! Che peccato non poterlo vedere un po’ da lontano! Lo ammirerei meglio!

Una vera tromba di fuoco si rovesciava sul fiume. Gli alberi delle due rive, composti per la maggior parte di piante gommifere, ardevano come zolfanelli, lanciando dovunque mostruose lingue di fuoco e turbini di fumo denso e pesante.

I tronchi, carbonizzati, rovinavano al suolo, facendo crollare le piante vicine a cui erano collegati da piante parassite e gambir e spandendo torrenti di caucciù ardente. Alberi della canfora enormi, casuarine, sagu, arenghe saccarifere, dammar saturi di resina, banani, cocchi e durion fiammeggiavano come torce colossali, contorcendosi e tuonando; poi s’abbattevano, rovesciandosi nel fiume con fischi assordanti.

L’aria diventava irrespirabile e le tende e le vele che coprivano la Marianna fumavano e si contraevano, nonostante i continui getti d’acqua che le innaffiavano.

Il calore era diventato così intenso che i Tigrotti di Mompracem, malgrado la protezione delle vele, si sentivano mancare.

Immense nuvole di fumo e nembi di scintille, che il vento spingeva, si cacciavano entro lo spazio racchiuso fra il ponte e le tele, avvolgendo gli uomini terrorizzati, mentre dall’alto cadevano senza interruzione rami fiammeggianti, che le pompe penavano a spegnere, quantunque energicamente manovrate.

Una cupola di fuoco avvolgeva ogni cosa: la nave, le rive ed il fiume. I malesi ed i dayaki che formavano l’equipaggio, guardavano con spavento quelle cortine fiammeggianti, che non accennavano a scemare, chiedendosi angosciosamente se stava per suonare per loro l’ultima ora.

Solo Yanez, l’uomo eternamente impassibile, pareva che non si occupasse affatto del tremendo pericolo che minacciava la Marianna.

Seduto sull’affusto di uno dei due pezzi da caccia, fumava placidamente la sua sigaretta, come se fosse insensibile a quel calore spaventevole che cucinava i suoi uomini.

– Signore! – gridò il meticcio, accorrendo presso di lui, col viso smorto e gli occhi dilatati pel terrore, – noi ci arrostiamo.

Yanez alzò le spalle.

– Non posso fare nulla io, – rispose poi, colla sua calma abituale.

– L’aria diventa irrespirabile.

– Accontentati di quella poca che scende nei tuoi polmoni.

– Fuggiamo, signore. I nostri uomini hanno spezzata la catena che ci chiudeva il passo verso l’alto corso.

– Lassù non farà più fresco di qui, mio caro.

– Dovremo perire così?

– Se così è scritto, – rispose Yanez, senza togliersi dalle labbra la sigaretta.

Si rovesciò sull’affusto come se fosse su una comoda poltrona, aggiungendo dopo qualche istante: – Bah! Aspettiamo!

Ad un tratto alcune scariche di fucili rimbombarono sul fiume, accompagnate da clamori assordanti.

Yanez si era alzato.

– Come diventano noiosi questi dayaki! – esclamò.

Attraversò il ponte, senza curarsi dei torrenti d’acqua che gli cadevano addosso e, alzato un lembo dell’immensa tenda, guardò verso la riva.

Attraverso le cortine di fuoco scorse degli uomini che parevano demoni, correre fra le ondate di fumo, sparando contro il veliero. Pareva che quei terribili selvaggi fossero insensibili, come le salamandre, perchè osavano, quantunque quasi nudi, cacciarsi fra le fiamme per sparare più da vicino.

Yanez si era fatto torvo in viso. Una bella collera bianca si manifestava in quell’uomo, che pareva avesse dell’acqua agghiacciata nelle vene e che potesse gareggiare coi più flemmatici anglo-sassoni delle razze nordiche.

– Ah! Miserabili! – gridò. – Nemmeno in mezzo al fuoco volete lasciarci un momento di tregua! Sambigliong, Tigrotti di Mompracem, bordate senza misericordia quei demoni!

Fu un po’ rialzata la tenda, le quattro spingarde furono riunite sul tribordo, e mentre l’incendio avvampava più che mai, divorando gli enormi vegetali, la mitraglia cominciò a fischiare attraverso le cortine di fuoco, tempestando i selvaggi con uragani di chiodi e di frammenti di ferro.

Bastarono sette od otto scariche per decidere quei bricconi a mostrare i talloni. Parecchi erano caduti e arrostivano in mezzo alle erbe ed i cespugli crepitanti, continuando il fuoco a dilatarsi.

– Potesse essere caduto anche il pellegrino! – mormorò Yanez. – Quel furbone si sarà purtroppo ben guardato dall’esporsi ai nostri tiri.

Chiamò il malese che aveva guidata la scialuppa, che era tornata a bordo nel momento in cui gli alberi costeggianti il fiume prendevano pure fuoco.

– L’hai spezzata la catena? – gli chiese.

– Sì, capitano Yanez.

– Sicchè il passo è libero.

– Completamente.

– Il fuoco scema verso l’alto corso del fiume, mentre tende ad aumentare verso il basso, – mormorò Yanez. – Sarebbe meglio andarcene, prima che quei birboni possano tendere altre catene o che le loro scialuppe giungano qui. Checchè debba succedere, partiamo.

La volta di verzura che copriva in quel luogo il fiume, era stata distrutta dall’uragano di fuoco che l’aveva investita, e sulle due rive più non rimanevano in piedi che pochi enormi tronchi di alberi della canfora, semi-carbonizzati e qualche tronco di durion che fiammeggiava ancora come una immensa torcia.

Il fuoco invece avvampava terribile verso ponente, dove le foreste erano fino allora rimaste intatte, ossia dietro la Marianna.

Il pericolo quindi che il veliero s’incendiasse, era ormai evitato.

– Approfittiamo, – disse Yanez. – L’aria comincia a diventare un po’ più respirabile e la brezza è sempre favorevole.

Fece togliere l’immensa tela che grondava acqua, poi fece levare e quindi inferire le vele ai pennoni. Quelle manovre furono compiute rapidamente, fra una vera pioggia di cenere che la brezza avventava contro il veliero, accecando e facendo tossire gli uomini.

Regnava ancora un caldo infernale sul fiume, essendo le due rive coperte da un altissimo strato di carboni ancora ardenti, tuttavia non vi era più pericolo di morire asfissiati.

Alle quattro del mattino le àncore furono issate e la Marianna riprese la navigazione con notevole velocità, senza essere stata disturbata.

I dayaki, che dovevano aver subite delle perdite crudeli, non si erano più fatti vedere.

Forse l’incendio, che aumentava sempre verso ponente, li aveva obbligati ad una precipitosa ritirata.

– Non si scorgono più, – disse Yanez al meticcio, che osservava le due rive sulle quali ondeggiavano ancora dense colonne di fumo e nembi di scintille. – Se ci lasciassero tranquilli almeno fino a che possiamo raggiungere l’imbarcadero! Che non abbiano capito che noi siamo persone risolute a difendere estremamente la pelle? Dopo le due lezioni ricevute, dovrebbero essersi persuasi che non siamo gallette pei loro denti.

– Hanno capito, signor Yanez, che noi accorriamo in aiuto del mio padrone.

– Eppure nessuno glielo ha detto.

– Io scommetto che lo sapevano, prima ancora del vostro arrivo. Qualche servo ha tradito il segreto o ha uditi gli ordini dati da Tremal-Naik all’uomo che vi fu mandato.

– Che sia così?

– Quel malese che voi avete raccolto e che si offerse come pilota devono averlo mandato essi incontro alla Marianna.

Per Giove! Non mi ricordavo più di quel furfante! – esclamò Yanez. – Giacchè i dayaki ci lasciano un po’ di tregua e l’incendio si spegne più in su, potremmo occuparci un po’ di lui. Chissà che riusciamo a strappargli qualche preziosa informazione su quel misterioso pellegrino.

– Se parlerà!

– Se si ostinerà a rimaner muto, m’incarico io di fargli passare un brutto quarto d’ora. Vieni, Tangusa.

– Raccomandò a Sambigliong di mantenere gli uomini ai loro posti di combattimento, temendo sempre qualche nuova sorpresa da parte di quegli ostinati nemici e scese nel quadro, dove la lampada bruciava ancora.

In una cabina attigua al salotto, su un tettuccio, giaceva il pilota, sempre immerso nel sonno profondo, procurategli dalle compressioni energiche di Sambigliong.

Un sonno regolare veramente non lo era. Il respiro era leggerissimo, tanto che si avrebbe potuto scambiare il malese per un vero morto, essendo anche la sua tinta diventata quasi grigiastra, come quando gli uomini di colore diventano pallidi.

Yanez, che era stato istruito da Sambigliong, strofinò violentemente le tempie ed il petto dell’addormentato, poi gli alzò le braccia ripiegandole all’indietro più che potè onde dilatargli i polmoni, eseguendo quel movimento parecchie volte.

Alla nona o alla decima mossa il malese aprì finalmente gli occhi, fissandoli sul portoghese con un lampo di terrore.

– Come stai, amico? – gli chiese Yanez con accento un po’ ironico. – Mentre noi combattevamo contro i tuoi alleati, tu dormivi saporitamente. Diventano poltroni i malesi.

Il pilota continuava a guardarlo senza rispondere, passandosi e ripassandosi una mano sulla fronte che s’imperlava di sudore. Pareva che cercasse di riordinare le sue idee e di mano in mano che la memoria gli ritornava, la sua pelle diventava sempre più smorta ed una espressione angosciosa gli si diffondeva sul viso.

– Orsù, – disse Yanez, – quand’è che ci farai udire la tua voce?

– Che cosa è avvenuto, signore? – chiese finalmente Padada. – Non riesco a spiegarmi come io mi sia addormentato di colpo, dopo la stretta datami dal vostro mastro.

– È cosa tanto poco interessante che non vale la pena che io te la spieghi, – rispose Yanez. – Tu invece dovresti darmi qualche spiegazione che mi premerebbe.

– Quale?

– Sapere chi è che ti ha mandato verso di noi per far arenare la mia nave sui banchi.

– Vi giuro, signore…

– Lascia andare i giuramenti: già non credo a quelle cose io, mio caro. È inutile che tu ti ostini a negare: ti sei tradito e ti tengo in mia mano. Chi ti ha pagato per rovinare la mia nave? Tu stavi per incendiarla.

– È una vostra supposizione, – balbettò il malese.

– Basta, – disse Yanez. – Vuoi farmi perdere la pazienza? Voglio sapere chi è quel maledetto pellegrino che ha messo in armi i dayaki e che domanda la testa di Tremal-Naik.

– Voi potete uccidermi, signore, ma non obbligarmi a dire delle cose ch’io ignoro.

– Sicchè tu affermi?

– Ch’io non ho mai veduto alcun pellegrino.

– E che anche non hai mai avuto rapporti coi dayaki che mi hanno assalito?

– Non mi sono mai occupato di costoro, signore, ve lo giuro su Vairang kidul[1] (La regina del sud). Io stavo seguendo la costa per visitare le caverne, entro le quali le rondini salangane costruiscono i loro nidi, avendo ricevuto l’incarico di fornirne ad un cinese che ne abbisognava, quando un colpo di vento mi trasportò al largo trascinandomi, assieme al canotto, verso ponente. Vi ho incontrati per un caso.

– Perchè sei pallido allora?

– Signore, mi avete sottoposto ad una compressione tale che credevo mi si volesse strozzare e non mi sono ancora rimesso dall’impressione provata, – rispose il pilota.

– Tu menti come un ragazzo, – disse Yanez. – Non vuoi confessare? Sta bene: vedremo se resisterai.

– Che cosa volete fare, signore? – chiese il miserabile con voce tremante.

– Tangusa, – disse Yanez, volgendosi verso il meticcio. – Lega le mani a questo traditore, poi conducilo in coperta. Se cerca di resistere bruciagli le cervella.

– La mia pistola è carica, – rispose l’intendente di Tremal-Naik.

Yanez uscì dal quadro e salì sul ponte, mentre il meticcio metteva in esecuzione l’ordine ricevuto, senza che il malese avesse osato ribellarsi.

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