Don Raffaele

Mentre i filibustieri s’abbandonavano al saccheggio, Morgan con una cinquantina dei suoi marinai si era diretto verso il palazzo del governo, dove sperava di sorprendere ancora il governatore e dove supponeva di trovare qualche resistenza.

 Non vi era invece più nessuno. Tutti erano fuggiti, lasciando il portone spalancato ed il ponte levatoio abbassato.

 Solo sette forche, dalle quali pendevano i sette corsari che avevano accompagnato il piantatore, facevano triste mostra, proprio nel mezzo dell’ampia e deserta piazza.

 Nello scorgerli, un urlo di rabbia era scoppiato fra il drappello di Morgan.

 «Bruciamo il palazzo del governatore!… Vendetta, capitano, vendetta!… Trucidiamo tutti!…»

 Pierre le Picard, che faceva parte del drappello, gridò:

 «Portate qui due barili di polvere e facciamo saltare il palazzo!…»

 Già degli uomini stavano per slanciarsi in varie direzioni, quando un comando breve ma energico di Morgan li arrestò.

 «Sono io che comando qui!… Chi si muove è uomo morto!…»

 Il filibustiere si era gettato fra la turba furibonda, colla spada nella destra e una pistola nella sinistra.

 «Insensati!…» urlò. «Che cosa siamo venuti a far qui? E non pensate che forse in questo palazzo, in qualche antro segreto si trova la figlia di cavalier di Ventimiglia? Volete ucciderla per una stupida vendetta?»

 A quelle parole l’ira furibonda dei filibustieri era improvvisamente sbollita. Chi poteva assicurare che il governatore, prima di fuggire, non avesse nascosta in qualche sotterraneo la fanciulla, per la cui salvezza avevano tentato quell’ardito colpo di mano?

 «Invece di gridare come oche» disse l’ almirantedella flotta corsara, «cercate di fare quanti prigionieri potete. Qualcuno saprà dirci dove si trova la figlia del Corsaro Nero.

 «Questo si chiama parlare d’oro» disse Carmaux che faceva parte del drappello. «Ehi, amburghese, dove sei?»

 «Eccomi, compare» rispose Wan Stiller.

 «In caccia, amico mio. Cerchiamo di prendere qualche pezzo grosso.»

 Mentre Morgan entrava con parecchi dei suoi ufficiali nel palazzo del governo, per frugarlo da cima a fondo, e gli altri si disperdevano in varie direzioni per procurarsi dei prigionieri, Carmaux e l’amburghese, che conoscevano sufficientemente la città essendovi stati già due volte col Corsaro Nero molti anni prima, presero un viottolo che serpeggiava fra le muraglie di alcuni giardini.

 «Dove mi conduci?» chiese l’amburghese, dopo aver percorso un centinaio di passi, senza aver incontrato alcuno. «Non è da questa parte che fuggono gli abitanti.»

 «Voglio andare a fare una visita alla taverna El Toro » rispose Carmaux. «Scommetterei una piastra contro un doblone di Spagna che troveremo qualcuno da quelle parti.»

 «I nostri non devono ancora essere giunti fino là.»

 «Infatti non odo alcun colpo di fucile echeggiare verso la laguna.»

 «Allunga il passo, amburghese.»

 I filibustieri della squadra, che avevano appena allora cominciato il saccheggio, si trovavano ancora nei sobborghi, che si prolungavano dietro il forte della Barra e non erano giunti ancora nel cuore della città.

 Da quella parte si udivano clamori spaventevoli, seguìti da qualche scarica di fucili e si vedevano alzarsi anche delle colonne di fumo. Nei giardini e nelle case adiacenti, regnava invece un silenzio assoluto. La popolazione doveva aver approfittato della breve resistenza opposta dalle truppe, per sgombrare precipitosamente, salvandosi nei boschi o sulle isole della laguna.

 Carmaux e l’amburghese, di quando in quando scorgevano bensì qualche uomo o qualche donna attraversare velocemente i giardini, ma non si prendevano la briga di dare loro la caccia.

 Correvano da dieci minuti, quando si trovarono su una piazzetta all’estremità della quale, dinanzi ad una porta, pendevano due enormi corna.

 «La taverna» disse Carmaux.

 «Sì, la riconosco dall’insegna» rispose l’amburghese.

 «Pare che anche qui tutti abbiano sgombrato.»

 «Taci!…»

 «Che cos’hai?»

 «Qualcuno s’avvicina.»

 Presso la taverna s’apriva una via e da quella parte si udivano delle persone avanzarsi, correndo disperatamente.

 «Attento amburghese» gridò Carmaux, slanciandosi da quella parte.

 Aveva appena raggiunto l’angolo, quando un uomo gli cadde fra le braccia. Carmaux fu pronto a stringerselo al petto, gridandogli con voce minacciosa:

 «Arrenditi!…»

 Nel medesimo istante otto o dieci negri che correvano all’impazzata, carichi di pacchi voluminosi, urtarono l’amburghese così violentemente da mandarlo a gambe levate, prima ancora che avesse potuto alzare il moschetto.

 «Tuoni d’Amburgo!…» aveva esclamato Wan Stiller. «Mi accoppano!…»

 Udendo quella voce, l’uomo che era caduto fra le braccia di Carmaux aveva alzato il capo, lasciandosi sfuggire subito un grido d’angoscia.

 «Sono morto!…»

 Carmaux era scoppiato in una risata fragorosa.

 «Ah!… Il piantatore!… Che bell’incontro!… Come state señor Raffaele?…»

 Il disgraziato piantatore, sentendosi allentare la stretta, aveva fatto due passi indietro, ripetendo con voce strozzata:

 «Sono morto!… Sono morto!…»

 «È dunque una vera mania che avete di credervi sempre morto?» chiese Carmaux che non cessava di ridere. «Eppure mi sembra che scoppiate per troppa salute.»

 «Toh!» esclamò in quel momento Wan Stiller, che si era alzato. «Chi vedo?… Il piantatore?… Buona presa, Carmaux!»

 Don Raffaele, muto per il terrore, guardava or l’uno or l’altro, tirandosi i capelli.

 «Ohimè!…» sospirò il piantatore. «Mi impiccherete per vendicare i vostri camerati, che il governatore ha fatto appendere alle forche della Plaza Mayor .»

 «Non siete stato voi.»

 «Lo so, però il vostro comandante potrebbe crederlo.»

 «Bah!… Bah!…» fece Carmaux, che si divertiva immensamente e che faceva sforzi sovrumani per conservarsi serio. «Coraggio, signor mio; ecco là Wan Stiller che porta in trionfo quattro bottiglie, che devono essere state turate ai tempi di papà Noè. Perbacco!… Che fiuto che ha quell’amburghese!… Ha scoperto la cantina di colpo!…»

 Carmaux aveva preso per un braccio ben stretto il piantatore, onde non gli scappasse, quando a breve distanza rimbombarono alcuni colpi di archibugio e da una via laterale sbucarono a corsa sfrenata parecchi abitanti, che portavano sulle spalle dei grossi involti contenenti probabilmente le loro ultime ricchezze.

 «Misericordia!…» esclamò il piantatore. «Ci uccidono!…»

 «Ragione di più per rifugiarci nella taverna» disse Carmaux. «Non si sa mai!… Una palla può deviare e fare scoppiare anche la vostra pancia.»

 Lo spinse violentemente entro la taverna, dove l’amburghese stava decapitando, colla sua corta sciabola, le quattro bottiglie.

 La sala era deserta, ma tutto era sotto sopra. La grande tavola dove avevano combattuto i galli giaceva colle gambe all’aria, i tavolini erano addossati alla rinfusa contro le pareti; gli sgabelli ingombravano il pavimento assieme a vasi e bottiglie infrante.

 Pareva che il proprietario, prima di fuggire, avesse cercato di spezzare quanto non aveva potuto portare con sé.

 «Purché sia rimasta salva la cantina, poco importa» disse Carmaux. «È così, amburghese?»

 «Vero Alicante» rispose Wan Stiller, facendo schioccare la lingua da buon intenditore. «È proprio di quello che abbiamo bevuto la sera del combattimento dei gatti.

 «Bada che gli altri non vengano a vuotarcele, perché non ho trovate che queste bottiglie. Quel mascalzone di taverniere ha fracassato tutto nella cantina. Imbecille!»

 Riempì un bicchiere trovato per miracolo ancora intatto e lo offrì al piantatore, dicendogli:

 «Elisir di lunga vita, signor spagnolo. È di quello, ve ne ricordate?»

 Don Raffaele, che si sentiva tremare le gambe, lo vuotò d’un fiato borbottando un grazie.

 «Un altro» disse Carmaux, mentre l’amburghese si metteva alle labbra una delle quattro bottiglie.

 «Volete ubriacarmi una seconda volta per poi impiccarmi?» chiese don Raffaele.

 «Ve l’ha detto qualcuno che il capitano Morgan ha decretato la vostra morte?» chiese Carmaux, con voce grave.

 «Sono un moribondo, dunque?» urlò don Raffaele, diventando livido. «Vuole vendicare su di me la morte dei suoi sette marinai?»

 Carmaux lo guardò per qualche istante in silenzio, aggrottando a più riprese la fronte, poi disse:

 «Sta in voi salvarvi.»

 «Che cosa devo fare? Ditemelo! Io sono ricco, posso pagare un grosso riscatto al vostro capitano…»

 «Quello lo pagherete a noi, mio caro signore» disse Carmaux, «essendo stati noi a farvi prigioniero; ma per ora non è questione di danaro, bensì di pelle.»

 «Spiegatevi meglio» disse don Raffaele, che cominciava a respirare più liberamente. «Non ho alcun desiderio di ballare un fandango all’estremità d’una corda.»

 «Allora rispondete e pesate bene le vostre parole» disse Carmaux, che tutto d’un tratto era diventato minaccioso. «Dove è stata nascosta la signora di Ventimiglia?»

 «Come!» esclamò il piantatore, facendo un gesto di sorpresa. «Non l’avete ancora trovata?»

 «No.»

 «Eppure io non l’ho veduta a fuggire col governatore.»

 «Ah! Ha preso il largo quel brav’uomo!» esclamò Wan Stiller con voce ironica.

 «Assieme ai suoi ufficiali e su buoni cavalli» rispose don Raffaele. «A quest’ora deve essere ben lontano e sarete ben bravi se riuscirete a raggiungerlo.»

 «E non vi era con lui la figlia del Corsaro Nero?»

 «No.»

 «Don Raffaele!» gridò Carmaux, picchiando sulla tavola un pugno così formidabile da far saltare le bottiglie. «Badate che giuocate la vostra vita.»

 «Lo so ed è per questo che io non cercherò d’ingannarvi.»

 «Allora si trova ancora qui?»

 «Ne sono più che certo.»

 «O che sia stata uccisa?» chiese Carmaux impallidendo.

 «Non credo, che il governatore abbia avuto il coraggio di lordarsi le mani del proprio sangue.»

 «Che cosa dite?» chiesero ad una voce i due filibustieri.

 Il piantatore si morse le labbra come se si fosse pentito di essersi lasciate sfuggire quelle parole, poi alzando le spalle disse:

 «Io non ho giurato di mantenere il segreto e poi la mia vita si trova nelle vostre mani ed io ho il diritto di difenderla come meglio posso.»

 Carmaux tracannò un sorso d’Alicante, poi incrociando le braccia e piantando gli occhi in viso al piantatore, disse:

 «Don Raffaele, spiattellate. Di quale sangue parlavate?»

 «Avrete la pazienza di ascoltarmi?»

 Carmaux stava per rispondere, quando alcuni colpi di fucile rimbombarono sulla piazza e parecchie persone passarono correndo dinanzi alla taverna, gettandosi verso le vicine ortaglie.

 Cinque o sei filibustieri, che avevano in mano gli archibugi ancora fumanti, vedendo l’insegna del Toro, si erano affacciati alla porta della taverna, urlando:

 «Una cantina! Hurrà! Buchiamo le botti!»

 Carmaux si slanciò verso di loro coll’archibugio in mano, gridando:

 «Indietro, camerati!»

 «Toh!» esclamò uno di quei corsari. «I due inseparabili!… Volete bere tutto voi?… Satanasso!… Lo spagnolo che ha fatto impiccare i nostri compagni!… Abbruciamolo vivo!…»

 «È nostro prigioniero» gridò Carmaux.

 «Fosse anche del diavolo, io non me ne andrò se prima non gli avrò bucato il ventre» disse un altro corsaro. «Largo, camerata! Quell’uomo appartiene alla giustizia dei Fratelli della Costa.»

 Il povero don Raffaele, che era diventato paonazzo dal terrore, si era rifugiato dietro la tavola, cercando di farsi più piccino che poteva.

 «Levatevi dai piedi!» urlò Carmaux, puntando risolutamente l’archibugio verso i filibustieri che si spingevano l’un l’altro per entrare. «Quest’uomo è una preda dell’ almirante.»

 Udendo quelle parole, i corsari si arrestarono titubanti, poi volsero le spalle allontanandosi di corsa, tanto era il terrore che esercitava Morgan anche su quell’accozzaglia di scorridori del mare, che pur non riconoscevano né leggi, né governo.

 «Parlate, ora» disse Carmaux, tornando verso il piantatore. «Nessuno verrà più a disturbarci.»

 Don Raffaele bevette d’un fiato un bicchiere d’Alicante, per riprendere coraggio, poi disse:

 «L’istoria che io sto per narrarvi è un segreto che solo pochissimi spagnoli conoscono e che voi ignorate. Vorrei però sapere, prima di cominciarla, quale causa dell’odio implacabile che regnava fra il Corsaro Nero, signor di Ventimiglia, ed il duca Wan Guld, un tempo governatore di questa città.

 «Voi che siete stati marinai e forse confidenti del terribile corsaro, che tanto male ha recato alle nostre colonie, dovete saperne qualche cosa e ciò schiarirebbe forse l’odio che il governatore attuale nutre ora per la giovine figlia di quello scorridore del mare.»

 «Come!» esclamò Carmaux. «Il governatore odia la figlia del Corsaro Nero? Non è dunque solo l’interesse che lo ha spinto a farla prigioniera?»

 «No, è odio di sangue» disse don Raffaele, con voce grave. «Se il duca è morto ha lasciato un vendicatore che non sarà meno implacabile di lui.»

 «Che cosa mi narrate voi?» disse Carmaux, spaventato.

 «Rispondete alla domanda che vi ho fatta, poi io mi spiegherò meglio.»

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