La presa di Maracaybo

Le ventiquattro ore erano trascorse senza che notizia alcuna fosse giunta alla flotta filibustiera, che non aveva lasciato il suo ancoraggio; peggio ancora, nemmeno la scialuppa aveva fatto ritorno, quantunque il mare si fosse mantenuto sempre calmo e il vento non avesse cessato di soffiare.

 Una profonda commozione si era impadronita dei cinquecento corsari che equipaggiavano la flotta, temevano che gli spagnoli di Maracaybo non avessero rispettata la bandiera bianca inalberata sulla scialuppa, ciò che altre volte era accaduto.

 Anche Morgan, di solito così calmo, cominciava a dar segni non dubbi d’una viva irritazione, passeggiando sulla coperta con passo agitato e la fronte corrugata.

 Carmaux e Wan Stiller erano addirittura furiosi. «Sono stati presi ed impiccati» ripeteva il primo. «Non rispettano nemmeno i nostri parlamentari. Eppure siamo belligeranti patentati, essendo la Spagna in guerra colla Francia e coll’Inghilterra.»

 «Il capitano li vendicherà, amico Carmaux» rispondeva l’amburghese.

 «Raderemo Maracaybo al suolo. Questa volta non la risparmieremo, come quando ci siamo andati col Corsaro Nero e coll’Olonese.»

 Altre dodici ore trascorsero in continue impazienze ed in attese vane. Già Morgan, d’accordo con Pierre le Picard,([1])suo secondo nel comando della squadra, si accingeva a dare il comando di salpare le àncore, quando agli ultimi raggi del sole fu scorto un piccolo canotto indiano montato da un solo uomo e che arrancava faticosamente, cercando d’imboccare la piccola baia.

 Gli fu mandata incontro una scialuppa montata da dodici uomini, e venti minuti dopo quell’uomo si trovava a bordo della nave ammiraglia, dinanzi a Morgan.

 Un grido di sorpresa e di rabbia era sfuggito a tutti i marinai, riconoscendo in lui uno degli otto filibustieri incaricati di scortare il piantatore.

 «Dove sono i tuoi compagni?» chiese Morgan, dopo d’averlo lasciato vuotare una tazza di rum, tanto quel povero diavolo appariva sfinito dalla fatica.

 «Impiccati, capitano» rispose il filibustiere. «Essi penzolano da sette forche erette sulla Plaza Maior di Maracaybo, nell’istesso luogo ove diciott’anni or sono fu preso il Corsaro Rosso, il fratello del signore di Ventimiglia.»

 Un lampo terribile era guizzato negli occhi dell’ Almirantedella squadra.

 «Impiccati! …» gridò con voce terribile.

 «Per ordine del governatore.»

 «Malgrado la bandiera bianca?»

 «Che hanno subito stracciata sotto i nostri occhi, dopo averci fatti sbarcare e averci accolti come parlamentari.»

 «E non vi siete difesi?»

 «Ci avevano prima invitati a deporre le armi, promettendo di rispettarci come messi di pace.»

 «Miserabili!… E perché ti hanno risparmiato?»

 «Perché vi recassi la risposta del governatore.»

 «L’hai?»

 «Eccola» disse il filibustiere levandosi dalla fascia di lana che gli cingeva i fianchi, un biglietto.

 Morgan se ne impadronì vivamente, gettandovi sopra gli occhi.

 Non conteneva che due righe:

 

 «Aspetto a Maracaybo i filibustieri della Tortue per impiccarli tutti.

 

 Il governatore della piazza».

 

 Morgan stracciò con ira il biglietto, poi rivolgendosi al marinaio, chiese:

 «Ti ha detto nulla della figlia del cavaliere di Ventimiglia?»

 «Sì, che andate a prenderla, se ne avete il coraggio.»

 «E la prenderemo» rispose Morgan.

 Poi, con voce tuonante, in modo da poter essere udito anche dai marinai delle altre navi, gridò:

 «Si salpino le àncore e si sciolgano le vele. Prima di domani sera Maracaybo sarà nostra.»

 Un urlo immenso, alzatosi su tutte le navi, rispose:

 «A Maracaybo!… A Maracaybo!…»

 Mezz’ora dopo le otto navi lasciavano la baia, veleggiando verso il golfo. La Folgore – che era la nave di Morgan, così battezzata a ricordo della valorosa nave del Corsaro Nero – apriva la via.

 Era la più grossa di tutte, una fregata a tre alberi, armata di trentasei cannoni di grosso calibro, fra cui alcuni pezzi da caccia e montata da ottanta uomini che nulla temevano.

 Le altre, che erano quasi tutte caravelle predate agli spagnoli, ma armate di numerosi pezzi di cannone, di petriere e di grosse spingarde, la seguivano in una doppia colonna, tenendosi ad una distanza di cinque o seicento metri l’una dall’altra, onde aver campo sufficiente per manovrare senza correre il pericolo d’investirsi.

 Tutte avevano i fanali spenti. Tuttavia, quantunque la luna mancasse, la notte era abbastanza chiara, essendo l’aria delle regioni tropicali ed equatoriali d’una purezza straordinaria.

 Morgan, che si trovava sul ponte di comando, scrutava attentamente l’orizzonte, essendogli stato riferito giorni innanzi che tre grosse navi spagnole avevano lasciati i porti di Cuba per dargli la caccia e assalirlo prima che tentasse qualche altra impresa contro le città del continente.

 Carmaux, che era il suo fido, si trovava con lui e scambiavano qualche parola.

 «Mi viene però un dubbio, capitano» disse Carmaux.

 «E quale?»

 «Che il governatore, conoscendo lo scopo della nostra spedizione e sapendoci vicini, approfitti del nostro ritardo per far trasferire altrove la figlia del signor di Ventimiglia.»

 Una ruga profonda si era disegnata sull’ampia fronte di Morgan.

 «Se non ritrovassi quella fanciulla» disse con voce minacciosa, «non darei una piastra di tutte le pelli degli spagnoli di Maracaybo. Tu sai che so essere gentiluomo come il signor di Ventimiglia; ma anche tremendo ed implacabile come Pietro l’Olonese, che fu il più feroce e spietato filibustiere della Tortue.»

 «Quel cane di governatore, che mi fu dipinto come un uomo avidissimo e che fu un tempo amico intimo del duca Wan Guld, il suocero del signor di Ventimiglia, sarebbe capace di farla scomparire.»

 «Sventura a lui. Come il Corsaro Nero fu implacabile contro il duca, io non lo sarò meno col governatore di Maracaybo e lo perseguiterei fino alla morte. Ah! Se la figlia del nostro vecchio condottiero ci avesse avvertiti del suo arrivo in America, gli spagnoli non l’avrebbero presa. Tutti i più celebri filibustieri della Tortue si sarebbero tenuti onorati di scortarla e di proteggerla. È strano che non si sia ricordata che suo padre contava fra noi un numero così immenso di amici e di camerati devoti e che ignorasse che alla Tortue egli possiede ancora una villa e delle piantagioni che io solo amministro da diciassette anni.»

 «Forse era sua intenzione di giungere fra noi improvvisamente e, senza l’incontro colla fregata spagnola che ha catturata la nave olandese, sarebbe già la regina della Tortue.»

 «Ah!… Guarda Carmaux!…»

 «Che cosa, capitano?»

 «Dei fanali laggiù che navigano verso il nord.»

 «Che siano i tre vascelli che sono incaricati di darci la caccia? Ho udito a raccontare che sono navi grosse, d’alto bordo, equipaggiate da biscaglini e capaci d’affrontare una squadra ben più numerosa della nostra. In guardia con quei lupi, capitano.»

 «Quei fanali vanno verso il settentrione, quindi non li incontreremo sulla nostra rotta» rispose Morgan.

 «Purché non facciano rotta falsa, per poi piombarci alle spalle quando saremo impegnati coi cannoni del forte della Barra a Maracaybo» disse Carmaux.

 «Giungeranno troppo tardi. Va ad avvertire Pierre le Picard di stringere contro la costa e fa chiamare in coperta tutti gli uomini.»

 Mentre venivano eseguiti i suoi ordini, Morgan seguiva attentamente cogli sguardi i sei punti luminosi che continuavano ad allontanarsi dal golfo di Maracaybo, anziché accorrere in difesa della città. Quando li vide scomparire sul fosco orizzonte, respirò liberamente e la ruga che si delineava sulla fronte, scomparve.

 «Se torneranno, giungeranno a cose finite» mormorò. «Quando sorgerà l’alba, noi saremo sotto il forte della Barra e vedremo se gli spagnoli resisteranno a lungo.»

 Le otto navi che formavano la squadra si erano ripiegate verso la costa, stringendo il vento il più possibile. Già l’isola di Zapara era in vista sulle sue spiagge non brillava nessun fuoco che annunciasse qualche sorveglianza da parte degli spagnoli.

 Mancava qualche ora all’alba, quando la squadra, ancora da nessuno avvistata, entrava a gonfie vele nella laguna di Maracaybo, passando fra la penisoletta di Sinamaica e la punta occidentale di Tablayo.

 Tutti gli uomini erano già ai loro posti di combattimento, dietro le brande accumulate sui bastingaggi o nelle batterie dietro ai pezzi, ed i comandanti sui ponti col portavoce in mano.

 «Carmaux» disse Morgan che fissava il forte della Barra, già in vista. «Dà ordine ai nostri artiglieri di non far fuoco, anche se gli spagnoli ci bombardano.

 Cominciavano a diradarsi le tenebre, quando la squadra comparve improvvisamente nelle acque battute dal forte, disposta su una sola linea, colla Folgore nel centro.

 L’allarme era stato già dato e l’intera guarnigione era uscita frettolosa dalle casematte per accorrere sugli spalti del castello. Quei soldati dovevano però essere ben sorpresi di vedersi piombare addosso, all’improvviso, quella squadra che non era stata fino allora segnalata nemmeno dalle caravelle incaricate della vigilanza della bocca della laguna.

 Probabilmente il governatore, non credendo alla minaccia di Morgan, non si era preso nemmeno il fastidio di avvertire il comandante del forte di prepararsi alla difesa.

 Gli spagnoli però non si perdettero d’animo ed accolsero la squadra con un furioso cannoneggiamento, credendo di affondarla facilmente o per lo meno di costringerla a tornare nel golfo.

 Avevano però da fare con gente che non s’inquietava gran che delle cannonate.

 Malgrado quella grandine di palle, le navi corsare continuavano tranquillamente ad accostarsi, senza prendersi la briga di rispondere.

 Qualche albero e qualche pennone cadeva, qualche murata si sfasciava qualche filibustiere venivano mutilato o fulminato da quelle incessanti scariche, eppure nessuno osava trasgredire l’ordine dato da Morgan, tanto era ferrea la disciplina che regnava sui vascelli corsari.

 Già la Folgore non si trovava che a due gomene dalla spiaggia e si preparava a calare in mare le scialuppe, quando tutto quel furioso cannoneggiamento come per incanto cessò.

 Diradatosi il fumo che ondeggiava sugli spalti, gli equipaggi con loro grande stupore non scorsero più nessun uomo dietro alle artiglierie.

 «Che cosa vuol dir ciò?» si chiese Morgan, che non aveva abbandonato per un solo istante il ponte di comando. «Che si arrendano? Eppure ritenevano questo forte inespugnabile. Pierre le Picard!…»

 Il filibustiere che portava quel nome e che, come abbiamo detto, aveva il comando in seconda e che godeva fama di essere uno dei più intrepidi Fratelli della Costa, lasciò la ribolla del timone, raggiungendo il comandante.

 «Che cosa ne pensi tu di questo improvviso silenzio?» gli chiese Morgan. «Che nasconda qualche sorpresa?»

 «Vado ad assicurarmene» rispose il filibustiere, senza esitare. «Datemi quaranta uomini, tenetene pronti altri cento e do la scalata al forte.»

 Le scialuppe erano state già calate in acqua. Il filibustiere scelse i suoi uomini e vogò verso terra, mentre le altre navi si preparavano a sbarcare parte dei loro equipaggi, onde appoggiarlo nell’ardimentosa impresa.

 Morgan, che temeva una sorpresa, fa scaricare tutti i venti cannoni di tribordo, tempestando le difese avanzate del castello, ma nessuno rispose, né alcun soldato si mostrò.

 I quaranta corsari della Folgore, sbarcati a terra, presero a scalare le rocce, armati solamente d’una pistola e d’una corta sciabola, lottando in celerità per giungere primi. Giunti sotto le mura scagliarono fra i merli alcune granate mandandole a scoppiare al di là delle cinte, poi montando gli uni sulle spalle degli altri, si arrampicarono sulla cinta esterna e la scalarono mandando urla terribili.

 Non trovano altro che i cannoni e pochi fucili abbandonati dal nemico nella sua precipitosa ritirata. Il presidio, credendo di non poter arrestare i corsari e spaventato dal numero delle navi, si era ritirato precipitosamente in Maracaybo, accontentandosi di mettere una miccia accesa al magazzino delle polveri, perché con esse saltassero in aria anche i nemici.

 Fortunatamente i corsari non erano ancora entrati nel forte quando lo scoppio avvenne.

 Crollarono con immenso fracasso le casematte, le merlature e parte delle muraglie, aprendo qua e là delle enormi breccie, senza però danneggiare l’equipaggio della Folgore .

 Udendo quel rombo spaventevole e vedendo innalzarsi quella colonna di fumo, i marinai delle altre navi si erano affrettati a prendere terra per accorrere in aiuto dei loro camerati che credevano di trovare malconci e anche alle prese cogli spagnoli, e furono invece accolti da altissime grida di vittoria.

 Morgan, informato della ritirata del presidio, decise senz’altro d’investire la città, prima che i suoi abitanti potessero rifugiarsi nei boschi e mettere in salvo i loro tesori.

 Lo scoppio del forte aveva già sparso il terrore fra quella disgraziata popolazione, che aveva già provati gli orrori del saccheggio, compiuto vent’anni prima dai filibustieri del Corsaro Nero, di Pietro l’Olonese e di Michele il Basco.

 Invece di prepararsi alla difesa tutti gli abitanti si erano dati a fuga precipitosa nei boschi vicini, portando con sé quanto aveva di meglio, e anche fra i soldati della guarnigione regnava un panico, che la presenza del governatore e dei suoi ufficiali non bastava a dissipare.

 Il nome di Morgan, l’espugnatore di Portobello, faceva titubare i più vecchi soldati, che pur avevano date tante prove di valore sui campi dell’Europa e che avevano conquistati e rovesciati imperi, come quelli degli Aztechi nel Messico e degli Incas nel Perù.

 I filibustieri, lasciati pochi uomini a guardia della squadra e saliti sulle scialuppe, si accostarono velocemente alle banchine del porto. Morgan era alla loro testa con Pierre le Picard, Carmaux e Wan Stiller.

 Vedendoli sbarcare, gli spagnoli, che erano pure in buon numero e che avevano innalzate frettolosamente delle trincee, avevano aperto un violentissimo fuoco di moschetteria, mentre i due fortini che proteggevano la città dal lato di terra, facevano rombare i loro grossi cannoni. Era però ormai troppo tardi per arrestare quei filibustieri, che le possenti e numerose artiglierie del forte della Barra non avevano saputo trattenere né schiacciare.

 I bucanieri, che si trovavano sempre in buon numero sulle navi corsare e che, in quell’epoca, erano i migliori bersaglieri del mondo, con scariche ben aggiustate, avevano ben presto costretto il presidio ad abbandonare le trincee ed a salvarsi con una fuga più che precipitosa.

 Dieci minuti dopo, le bande di Morgan irrompevano nelle vie della disgraziata città, invadendo le case e uccidendo senza misericordia quanti tentavano di opporre resistenza.

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