Nell’America Centrale

Lo stesso giorno, la Vasquez – tale era il nome della corvetta spagnola predata da Morgan sulle coste venezuelane – spiegava le vele per l’America Centrale, col grande stendardo di Spagna sciolto sull’artimone.

 Era comandata da Pierre le Picard e montata da ottanta uomini, scelti fra coloro che parlavano correntemente il castigliano e che indossavano i vistosi costumi usati in quell’epoca dagli spagnoli delle colonie americane.

 Carmaux e Wan Stiller, i due inseparabili, ne facevano parte col grado di mastri d’equipaggio, essendo i soli che conoscevano la piccola borgata di Chagres e che potevano dare preziose informazioni e più preziosi consigli.

 La Vasquez doveva costituire l’avanguardia della spedizione, ancorarsi nella piccola baia e assicurarsi, innanzi tutto, se il conte di Medina aveva già iniziata la traversata dell’Istmo per raggiungere Panama ed, in caso contrario, doveva abbordare la sua nave e riprendergli la signora di Ventimiglia.

 Morgan, come grande ammiraglio della squadra filibustiera, che doveva essere numerosissima per poter tener testa alle grosse navi spagnole, si era fermato alla Tortue, onde preparare ogni cosa e assicurare il buon esito della grande ed audacissima impresa.

 Scarseggiando però in quell’epoca i viveri alla Tortue, subito dopo la partenza della corvetta, egli mandò quattro a farne provvista nei porti spagnoli più vicini, affidandone il comando a Brodely, che godeva fama d’uomo arditissimo.

 La Vasquez , spinta da buon vento, mise la prora verso il sud-ovest, frettolosa di avvistare le coste dell’istmo di Panama.

 Era una buonissima veliera, tant’è che al mattino del quinto giorno, il suo equipaggio già salutava con gioia l’alta vetta del Castello Chico e le cime accidentate della Sierra di Veragua, visibili in mare a grande distanza.

 Pierre le Picard fece chiamare in coperta Carmaux e Wan Stiller, i quali in tutto quel tempo non avevano fatto altro che giuocare e bere, senza affatto curarsi del regolamento che proibiva il giuoco a bordo delle navi filibustiere in spedizione guerresca.

 «Alla ribolla, amico Carmaux» gli disse Pierre. «Spetta a te condurre in porto la corvetta.»

 «Signor Pierre» rispose il francese, «preparate intanto voi la farsa. Che non manchino né i pifferi, né i tamburi per salutare il fortino. Del resto rispondo io. Vieni, compare, e apri bene gli occhi e dimentica la tua lingua.»

 La Vasquez , che aveva il vento in poppa, puntò verso una piccola insenatura che s’apriva sulla costa, ormai perfettamente visibile.

 Era quella di Chagres. Il suo villaggio, che in quei tempi aveva molta importanza, passando per di là la via che conduceva alla regina dell’Oceano Pacifico, a poco a poco cominciava a delinearsi, col suo fortino e le sue casette a un solo piano, sormontate da belle terrazze coperte di fiori.

 Carmaux, che, come dicemmo, vi era già stato molti anni prima, con due bordate sorpassò felicemente la punta meridionale che difendeva la rada dai forti venti del nord-est e spinse innanzi la corvetta, facendola ancorare fra due vecchie navi in demolizione.

 Udendo tuonare i cannoni di bordo e vedendo sventolare sull’artimone il vessillo spagnolo, tutta la popolazione, composta di due o tre centinaia di anime e di due compagnie di soldati, s’era affollata sulla spiaggia, mentre il forte restituiva il saluto.

 Ad un cenno di Pierre, i pifferi ed i tamburi avevano intuonata una marcia spagnola, con un accordo passabilmente discreto.

 Le àncore erano appena affondate, quando una scialuppa si staccò dalla spiaggia. Era montata dalle due maggiori autorità della borgata: l’ alcaldeed il comandante della guarnigione e da una mezza dozzina di barcaiuoli.

 «Signor Pierre» disse Carmaux, che aveva indossata una divisa fiammante e che si era cinto un lungo spadone. «Badate all’inglese!… Se vi sfugge una parola guasterete la faccenda.»

 «Non temere» rispose il corsaro, che s’era avanzato fino sul pianerottolo della scala per ricevere le autorità. «Da questo momento io sono don Juan Perredo, cavaliere dell’ordine di Sant’Jago…»

 L’ alcaldeed il comandante della guarnigione stavano allora salendo la scala. Il primo era un uomo sulla cinquantina, rotondo quasi come don Raffaele; l’altro invece aveva l’aspetto d’un vero uomo di guerra e, malgrado fosse più vecchio del primo, s’avanzava impettito tenendo fieramente il pugno sul fianco.

 «Don Juan Perredo, cavaliere di Sant’Jago, comandante della Vasquez , ha il piacere di salutarvi» disse Pierre, stringendo la mano prima all’ alcalde, poi al comandante. «Eravate già stati avvertiti del mio arrivo?»

 «No, capitano» rispose l’ alcalde, che sbuffava ancora per la faticosa ascensione. «Anzi siamo rimasti assai stupiti di veder giungere questa nave e per poco non la credemmo montata da quei diavoli di mare che si chiamano filibustieri.»

 «Come!…» esclamò Pierre, fingendo abilmente un gesto di stupore. «Il conte di Medina non vi aveva annunciato il mio arrivo?»

 «Il signor governatore di Maracaybo è giunto qui ieri mattina ed è partito subito per Panama, senza annunciarvi. Aveva molta fretta, il signor conte.»

 «Non comprendo come non mi abbia atteso» disse Pierre le Picard, fingendosi assai contrariato da quella risposta.

 «Dovevate scortarlo fino a Panama, capitano?» chiese il comandante.

 «Sì» rispose il filibustiere.

 «Gli ho dato io una buona scorta, composta di uomini fidati e valorosi.»

 «Aveva con sé una fanciulla?» chiese Pierre.

 «Sì,» rispose l’ alcalde«una giovane e bellissima signorina.»

 «Quanto si è fermato qui?»

 «Appena una mezz’ora, il tempo sufficiente per provvedersi di cavalcature.»

 «E la nave che lo ha condotto è ripartita pure?»

 «Credo che sia andata a Costarica.»

 «Forse il conte mi farà pervenire i suoi ordini» disse Pierre.

 «Vi fermate qui?» chiese l’ alcalde.

 «Ho l’ordine di non rimettermi alla vela.»

 «In che cosa possiamo esservi intanto utili?»

 «Mettete qualche casa a nostra disposizione e forniteci di viveri freschi.»

 «Il palazzo del governatore è pronto ad ospitare voi ed i vostri ufficiali, signor capitano.»

 «Arrivederci, signori, e grazie» rispose Pierre, facendo un gesto di congedo.

 I due rappresentanti le autorità della borgata, comprendendo che il colloquio era finito, ridiscesero nella scialuppa e tornarono a terra.

 «Non abbiamo fortuna, Carmaux» disse Pierre, quando furono soli.

 «È quello che dicevo poco fa a Wan Stiller» rispose il francese, «Il conte non sarà andato molto lontano però.»

 «Se ci provassimo ad inseguirlo?»

 «Era venuta anche a me l’idea, ma ho udito a parlare del castello di S. Felipe che chiude la via e sotto a cui non si passa se non si ha un ordine dal Presidente dell’Udienza di Panama. Se non fosse lontano!… Eh!… Bisognerebbe informarci. Lo chiederò al basco, se non sarà morto. Sono dieci anni che non vengo più qui.»

 «Un taverniere, mi hai detto.»

 «Sì, signor Pierre.»

 «Tu sei amico di tutti i tavernieri del mondo.»

 «Mi ci trovo bene fra le botti» rispose Carmaux, ridendo. «Volete che vada a cercarlo?»

 «Ti do carta libera, purché sii prudente.»

 «Oh!… Non uscirà dalla mia bocca una parola che non sia spagnola. Compare Stiller, andiamo.»

 Le scialuppe erano già state messe in acqua. I due inseparabili si munirono di un paio di pistole e si fecero condurre a terra, sbarcando un po’ lontano dalle prime case.

 «Orientiamoci» disse Carmaux all’amburghese. «In dieci anni questa borgata è cambiata.»

 Due o tre viuzze strette e fangose si offrivano dinanzi a loro. Scelsero la più vicina e s’avanzarono strascinando rumorosamente i loro spadoni.

 Gli abitanti che incontravano, riconoscendoli per marinai della corvetta, facevano loro buon viso, invitandoli ad entrare nelle case a bere una tazza di cioccolata, bevanda allora assai in uso nelle colonie spagnole d’America, essendo il caffè ancora sconosciuto.

 Chiedendo ora all’uno, ora all’altro, dopo un buon quarto d’ora, i due corsari si trovarono finalmente dinanzi ad una tavernaccia di meschina apparenza, sulla cui soglia stava un ometto magro come un’aringa e dalla pelle un po’ olivastra.

 «Che il diavolo mi impicchi se costui non è il basco» disse Carmaux. «Non è molto invecchiato l’amico.»

 «Con quelle bottiglie!» esclamò Wan Stiller. «In cantina non s’invecchia mai, compare.»

 S’accostarono all’ometto che li guardava curiosamente, facendo una serie d’inchini e lo spinsero nella taverna, chiedendogli:

 «Non si riconoscono più gli amici?»

 Il basco aveva fatto un soprassalto.

 «Misericordia!… I filibustieri!…» esclamò.

 «Silenzio o ti taglio la lingua, amico» disse Carmaux. «Noi non siamo più coi ladri di mare. Siamo arruolati sotto le bandiere della grande Spagna e ti assicuro che non ci troviamo male.»

 «Avete lasciato Laurent? Eravate con lui, dieci anni or sono, quando veniste qui a saccheggiare la borgata.»

 «Ma non la tua cantina, che noi proteggemmo contro la rapacità dei nostri camerati.»

 «Non mi sono mai scordato di quella vostra buona azione.»

 «Veniamo a farci pagare quel debito di riconoscenza» disse Wan Stiller.

 «La mia cantina come la mia borsa è a vostra disposizione» disse l’ometto, con voce grave. «Non vi ho mai dimenticati.»

 «Porta dunque da bere per ora e non spaventarti» disse Carmaux. «Non siamo venuti né per prenderti la borsa, né per asciugare le tue botti.»

 Non aveva ancora terminato di parlare, che già il taverniere era scomparso per tornare poco dopo con due polverose bottiglie che promettevano di essere delle migliori.

 «Basco» disse Carmaux, dopo d’aver assaggiato il vino. «Tu hai una cantina degna d’un re. Scommetterei che il grande Carlo V, se fosse ancora vivo, non sdegnerebbe di trincare con noi.»

 «Ho altre bottiglie come questa; bevete senza darvi pensiero.»

 «Possiamo fidarci di te?»

 «Senza di voi, sarei stato rovinato completamente dai corsari del signor Laurent, ve lo dissi già.»

 «Hai veduto, tu, la nave che è entrata in porto ieri mattina?»

 «Ero sulla gettata quando affondò le àncore.»

 «Ne è disceso un signore, accompagnato da una fanciulla, è vero?»

 «Mi hanno detto che era il conte di Medina, governatore di Maracaybo.»

 «Ed è partito subito per Panama?»

 «Circa mezz’ora dopo.»

 «Il signor conte ci deveuna grossa somma, che non siamo stati fin’ora capaci di riavere e vorremmo raggiungerlo al più presto con un manipolo dei nostri camerati che hanno anche essi dei conti da saldare con quel pezzo grosso sì, ma pessimo pagatore. Dove credi che si trovi a quest’ora?»

 «Non troppo vicino di certo. Ha fatto requisire i migliori cavalli e deve aver oltrepassato anche il castello di S. Felipe.»

 «L’oltrepasseremo anche noi; è lontano?»

 «Tre sole leghe, ma senza un lascia-passare il comandante non vi permetterebbe di proseguire. L’avete voi?»

 «Vedremo di procurarcelo.»

 «Uhm!» fece il taverniere, scuotendo il capo.

 «Che cos’è quel castello?»

 «Un forte piantato sulla cima d’una rupe, che domina la via che conduce nella valle del Chagres.»

 «Credi che sia impossibile passarvi sotto senza venire scorti?»

 «Di notte il passo è chiuso e guardato da sentinelle.»

 «Affare perduto» disse poi. «Il conte non ci pagherà più. Brutto spilorcio, derubare così degli onesti marinai. Se potessi mettere il piede in Panama! A proposito, conosci quella città, tu?»

 «Vi sono stato l’anno scorso.»

 «È vero che gli spagnoli l’hanno fortificata formidabilmente?»

 «È tutta cintata, ha torri e artiglierie in gran numero e si dice che non vi siano mai meno di ottomila uomini di guarnigione.»

 «Mi piacerebbe visitarla» disse Carmaux. «Bah!… sarà per un’altra volta. Bevi, compare Stiller.»

 Vuotarono coscienziosamente le bottiglie, poi se ne tornarono lentamente a bordo, non poco malcontenti della magra riuscita della loro missione.

 Erano appena saliti sulla corvetta ed avevano informato Pierre le Picard di quanto avevano appreso dal basco, quando una scialuppa montata da un ufficiale e da parecchi remiganti, abbordò il legno, fermandosi presso la scala.

 «Qualche notizia sul conte?» si chiese Pierre le Picard, muovendo incontro all’ufficiale, che teneva in mano una lettera:

 «Salite, signore.»

 «Da parte dell’ alcalde, capitano» disse il messo, mettendo piede sulla tolda.

 La lettera conteneva un invito per gli ufficiali della nave e pei marinai, ad un fandango notturno, onde festeggiare il loro arrivo.

 «In mancanza di altro, divertiamoci» mormorò il filibustiere. «Non avremo nulla da fare fino all’arrivo della squadra.»

 Quindi, alzando la voce, disse all’ufficiale che aspettava una risposta:

 «Dite all’ alcaldeche noi siamo riconoscenti di questo invito e che lo accettiamo con piacere.»

 «Conducete il maggior numero possibile di marinai, signore» disse il messo.

 «Non lascerò a bordo che gli uomini puramente necessari.»

 «Sono cortesi questi abitanti» disse, volgendosi verso Carmaux, quando l’ufficiale ridiscese nella scialuppa. «Se sapessero che razza di spagnoli siamo noi!… Ehi, Carmaux, hai il viso oscuro?»

 «Non ho mai avuto gran fiducia negli inviti degli spagnoli» rispose finalmente il francese.

 «Che cosa temi? Oh!… già, preferiresti cacciarti in qualche cantina. Anche al fandango il buon vino non mancherà, vecchio mio.»

 Carmaux non rispose, ma scosse ripetutamente il capo.

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