Capitolo XV – Il pranzo dei topi

Avevamo già cominciato il grande lavoro destinato all’Esposizione di Parigi, quando un giorno si presentò a noi un uomo, il quale diceva d’avere una notizia urgente da comunicarci.

Credemmo dapprima che si trattasse ancora dell’uomo che ci aveva sequestrati gli asini, avendogli promesso un pranzo a scadenza di trenta giorni. Stavamo per sguinzagliargli contro Febo e Flok, i due cani della villa, quando ci venne il sospetto che si trattasse invece di qualche eredità cadutaci dal cielo.

Con questa speranza, non solo lo facemmo entrare, ma gli offrimmo perfino un bicchiere di rigatino e per poco l’ex-segretario del moro non lo invitò a colazione.

Aprimmo trepidanti la lettera che egli portava con sè, credendo di trovarvi dentro dei biglietti da mille. Invece conteneva la laconica e molto stravagante notizia:

«Arrivo su di un cammello. Saluti.

ROBERTO»

Fu uno scoppio di risa generale. Il letterato arrivava su di un cammello!…

Una tempesta di domande cadde addosso al messo.

— Dov’è?…

— Quando giunge?…

— Che bestia monta?…

— Con chi viaggia?…

La risposta dataci dal contadino fu comica.

— È a cavallo d’un coso che ha le gambe storte e un collo lungo come un dindo. Io non ho mai visto un coso simile.

— Dove si trova? — chiese Ferrol.

— Deve essere già ad Altessano. —

Non aveva ancora finito di parlare, che ci trovammo tutti fuori senza cappelli ed in maniche di camicia.

All’estremità della larga e bianca via che da Lucento va fino ad Altessano, vedemmo tosto delinearsi un bestione che rassomigliava ad un cammello. Lo montava un uomo di statura piccola, che aveva in capo un cappello bianco colle tese molto larghe.

Un po’ più indietro, a piedi, s’avanzava un altro uomo che si trascinava a fianco un animale rassomigliante ad un orso.

Facemmo una corsa sola.

Era proprio il nostro letterato che giungeva, comodamente seduto sulla gobba d’un brutto cammello molto magro e rognoso; fumandosi beatamente una sigaretta.

Appena il letterato ci vide, senza aspettare che il cammello si inginocchiasse o che il giocoliere che conduceva l’orso lo aiutasse, con un volteggio degno d’un clown, balzò a terra, gettandosi fra le braccia di Ferrol.

Era proprio il nostro letterato che giungeva comodamente seduto sulla gobba di un cammello.

Bel tipo quel letterato!… Un omettino magro, fra i trenta ed i quaranta, dai baffi biondi, tutto nervi e muscoli.

Se godesse una bella fama come letterato, io non lo so. Si piccava però di essere una celebrità, ma io credo che i suoi famosi lavori dormissero negli scaffali polverosi dei librai.

Tipo alla buona del resto, buon compagnone, e soprattutto vero bohémien di istinti randagi.

Si diceva che aveva girato mezzo mondo e forse era vero perchè parlava dell’America e della China come se non avesse abitato altri paesi.

Arenatosi in patria, aveva conservato però le sue abitudini randagie, percorrendo tutte le città della bassa, della media e dell’Alta Italia, senza fermarsi in alcun luogo più d’un mese.

Come sempre portava un immenso cappellaccio bianco, che stonava atrocemente col frak nero, e teneva in mano una cassetta che rassomigliava a quella d’un pittore e che si diceva celasse un tesoro, cassetta che non lo abbandonava mai, neanche quando viaggiava. Si diceva anzi che la tenesse sempre sotto il letto per paura dei ladri. Cosa veramente nascondesse, nessuno l’aveva mai saputo precisamente.

Quando Ferrol gliela vide in mano mi si avvicinò e additandomela, mi disse con un certo fare misterioso:

— C’è!… Staremo allegri!…

— Che siano scudi? — gli chiesi.

— Forse dei luigi.

— Un tesoro?…

— Chi lo sa? Purchè non contenga invece delle carte!… Si dice che Roberto viaggi assieme alle sue note. —

Il letterato intanto era entrato nel cortile, guardando curiosamente il nostro castelluccio.

— Topaia artistica! Bel nome, — disse. — E lavoreremo lassù?

— E anche si berrà, — disse Alfonso. — Abbiamo perfino una cantina.

— La vuoteremo presto, — rispose il romanziere. —

Congedò il giocoliere che l’aveva condotto nel nostro castello e ci seguì.

— Credevo che quel cammello ti appartenesse, — disse Ferrol.

— L’ho incontrato ad Altessano e l’ho noleggiato, — ci rispose. — Era tanto tempo che non ne montavo uno! —

Lo conducemmo nella nostra Topaia e rimase estatico davanti alle tante ricchezze che conteneva.

— Burloni, — disse. — Peccato che quelle gru non siano vive. Ve le avrei cucinate io alla moda dei Turcomanni. —

Quel giorno fu festa in Topaia; ma andò assai male per la cantina che scemò spaventosamente non ostante l’economia del nostro cantiniere, l’ex-segretario del moro.

La sera fu deciso di dare per l’indomani un gran pranzo per festeggiare l’arrivo del nostro letterato, e inaugurare contemporaneamente la nostra Topaia. Ora che la famiglia artistica era al completo, si poteva fare.

L’indomani tutto il castello era in movimento. Il castellano aveva fatto venire perfino un cuoco e spiegare le bandiere sulla terrazza della villa.

L’incarico di fare il menu fu dato al nostro miniatore. Non posso fare a meno di trascriverlo, quantunque redatto in uno stile usato dai filosofi di Farfa. Vi basterà per darvi una idea della sontuosità del banchetto, preparato, mangiato e bevuto nella sala maggiore della Topaia:

«Notificafi a la popolatione presente et passante come in quisto die 1 de lo mese di Lujo de lo ano de salute 1899 darassi nello castello dito Topaia uno magnifico tripudio, ad onore de lo messere Roberto. B. litterato ivi smontato a posta da un «coso» nomato camello de la regione africana.

«Lo tripudio sarà con manifestazione rallegrato da li dodici pezzi de lo strumento che nomasi grafofono, inventato per la circostantia da lo bravo messere Edison americano e che li topi non conoscono.

«1.° Pomodori a lo spiedo fatti venire espressamente dagli territori orientali ove in dita stagione vegetano.

«2.° Inaffiamento de lo vino bianco di Canello occorrente per la digestione dei medesimi.

«Saravvi dispentia di olio et aceto et pepe, et sale et spezie onde li diti pomidori siano più saporosi.

«3.° Grande dispentia di stecchini diti volgarmente stecche per le dentature onde pulirsi le medesme da li semi che restar dovessero dentro le congiunture gengiuarie et dare così luogo alla saporatione de le pietanze come appresso.

«4.° Lo servitore come vederassi montato de lo abito nero et le mani fornite di guanti, porterà uno vaffojo contenente de la sostantia nomata brodo saporoso et squisito, et generoso, onde restaurare lo stomaco e prepararlo così a lo ingresso de le pietantie come qui sotto.

«5.° Essendo che lo grande maestro di casa ha pensato per la circostantia mandare alla cittade de lo napolitano dita Napoli per la speditione di certa pasta, alla base di farina ben conditionata in quelo loco, et effendo dita pasta non venuta in tempo co lo vapore di mare, servirà la medema con forte condimento di intingoli composti di varie droghe et carne pista et brodo condensato et pomodoro et pepe et sale et altre spezierie.

«In dito pasto lo condimento sarà regolato da la cosa nomata formajo dito volgarmente parmigiano et ciò perchè conditionato in quella regione ossia fuor de la medema.

«6.° Ingreffo principale di la pietantia come qui sotto spiegafi:

«Lo grande uccellatore de la Topaia dopo auere cacciato a li pennuti per varie giorni, avendo con lo archibugio forato uno animale pennuto et volatile dito volgarmente pito, pensò fare conditionare a lo ferro lo uccello da la sua madonna et offrirlo a li mefferi pittori et letterato con grande dispertione di salfe condite allo agrume et zucchero bruciato con forte sapore buono et squisito.

«In dito caso effendo la pietantia unica de lo uccellatore, lo vino generofo farà offerto con tripudio di festa da la madonna di lui medemo.

«7.° La pietantia che qui appreffo spiegafi farà conditionata da lo grande scudiere che nomasi Andrea et ciò perchè più nerboruto ne la parte del suo corpo nomata braccia et ciò per la compofitione che la predetta pietantia formata di farina, dita più volgarmente polenta, nota ne lo paese de la regione Veneta et più precifamente ne le campagne de la nobile cittade che Padova nomasi lo Brenta.

«Dita polenta sarà conditionata con vari et grossi, et piccoli volatili presi morti dal medemo Andrea et da lui spennati sarà de lo valore di scudi uno et anche meno.

«8° Nova et grande dispentia di vino squisito et conditionato da la sostantia dita uva, che lo terrazzano et ammazzatore di buoi et altri animali cornuti, commercia con sfarzio et incaffo di uarii picchi alla guarnigione de li militari sordati svolazzanti ad ore perdute et anche notturne per le contrade poco illuminate de la cittade nomata Altezzano et boschi circonvicini allo fiume dito Ceronda che sbocca ne lo fiume nomato Po de la nobile cittade di Torino dove avvi lo palatio regio.

«9.° Grande et portentosa entrata de la dona de lo servilizio che nomasi Maria et portante lungo vassojo contenente acqua limpida et dolce et spazzole que servire dovranno per la pulitura de le prelodate dentature. In questa circostantia saranno proibite le mancie.

«10.° Lo servitio de li dolciumi farà regolato come appresso:

«Lo formajo di varie specie farà seruito con grande manifestatione de li artisti et letterato, con grandi discorsi diti da li singoli omini sapienti de li libri et stampe.

Le frutte secche che componensi di varie specie di noci, et mele, et uva, et aranci faranno dispenfate da lo direttore più venerato de lo desco con nuova dispentia di stecchini et vino generoso bianco et roffo, et dolci diti canestrelli fatti per la circostantia conditionare nelo paese vicino di Altezzano.

«11.° La fine de lo tripudio farà regolato da lo topo nomato Alfontio con la grande et abbondante dispentia de lo rigatino que conponefi di uno liquore speziale conditionato da li topi de la Topaia medema.»

Alle otto di sera del giorno seguente, dopo dodici pezzi, puntualmente eseguiti dal grafofono, dono dell’artista barbuto, tutti i topi si sedevano al desco.

C’erano anche il castellano e la castellana ed alcuni luminarii di Lucento.

Grande sfarzo di lumi. Perfino le nostre due gru avevano delle candele accomodate nei becchi. Anche le pipe erano state trasformate in candelieri.

Alle otto e un quarto, Alfonso il Magro nominato grande maestro di casa, faceva la sua entrata seguìto da tutti i vassalli del castellano carichi di cibi e soprattutto di bottiglie. Portava con sè anche una triste notizia.

Il vapore di mare non aveva portato in tempo nè gli pomodoro fatti venire dai territori dell’oriente, nè le paste conditionate per la circostanza da la cittade de lo Napoletano. In compenso però annunciava doppia dose de la pietanzia dita volgarmente polenta, senza aumento di uccelli nè piccoli nè grossi.

Fu un miracolo se non lo accoppammo. Specialmente l’artista barbuto, gran mangiatore di pasta asciutta, era diventato così furibondo per la mancanza di quella, che fummo costretti a calmarlo con una bottiglia di barbèra che bevette subito dopo i dodici pezzi del grafofono. Tutti gli altri piatti fecero però la loro comparsa, compresi gli stuzzicadenti. Anzi vi fu una vera dispersione di questi.

Alle frutta vi furono discorsi così commoventi, che tutti piangevano.

Il letterato fu sublime; Ferrol mordace e spiritoso; il romano poi ci fece cadere in una specie di catalessi.

Se non ci fosse stato il rigatino, credo che più mai nessuno si sarebbe risvegliato.

Con tuttociò alla mezzanotte tutti, eccettuate le signore che erano scappate, completamente intronate dai nostri discorsoni, dormivamo saporitamente sulle nostre sedie.

Solamente l’ex-segretario del moro, caduto sotto la tavola, gridava ancora:

— Viva…. la…. Topaia. —

Probabilmente sognava.

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