Capitolo IV – Il disastro

Tutto il Bengala è formato di pianure immense, sconfinate, che sempre più si abbassano avvicinandosi al delta del Gange, inzuppandosi d’acqua. Le colline si possono contare sulle dita della mano, e non sono che insignificanti elevazioni di qualche centinaio di metri, coperte da boschi impenetrabili ed abitati da belve feroci sempre in agguato.

Oltre la stazione di Bogra, la vegetazione era bruscamente cambiata, ed offriva agli sguardi meravigliati dei viaggiatori ora delle jungle gigantesche, popolate da miriadi di marabù e d’altri grossi trampolieri, ed ora delle superbe foreste di cocchi, di palmizi tara, di mangifere, di pipal, tutte piante dal tronco enorme e dal fogliame immenso sempre verde-cupo. Era la vegetazione del delta, la vegetazione veramente bengalina.

Il treno, lanciato sempre a buona velocità, divorava quelle pianure senza alcuna difficoltà, mettendo in fuga col suo fracasso migliaia e migliaia di volatili e bande di sciacalli. La linea era abbastanza buona, e non essendo ad un solo binario non vi era pericolo di nessuno scontro, almeno fino oltre il passaggio del Gange, ancora assai lontano.

Gli ufficiali, dispersi per le gallerie, si divertivano a sparare le loro pistole contro tutti gli animali che non erano lesti a scappare, facendosi non solo ammirare ma anche applaudire dalle magre miss tutte figlie di funzionari. E ne ammazzavano, quantunque il treno procedesse talvolta quasi a sbalzelloni, rendendo la mira difficilissima. Dovevano essere tutti scelti tiratori, abituati anche alle grosse cacce. Speravano forse di sorprendere qualche grossa tigre reale, cosa non improbabile, poiché malgrado le grandi battute delle guarnigioni, fatte con numerosi elefanti, sono sempre numerosissime nel Bengala, e così audaci da assalire perfino i treni per portare via, se non i viaggiatori, bene rinchiusi, almeno il macchinista od il fuochista.

Alle otto di sera il sole tramontò quasi di colpo troncando quel divertimento, e le tenebre si distesero assai fitte sulle sterminate pianure.

Il treno fece una breve sosta per lasciar tempo al personale di accendere i lumi, poi dopo aver alimentata la macchina riprese la corsa attraverso ad una serie di boscaglie che dovevano servire di rifugio alla grossa selvaggina. Il bramino, non fidandosi a rimanere nella galleria solo, poiché tutti si erano ritirati, rientrò nello scompartimento.

Aveva guardato prima l’ora ad un piccolo orologio che teneva celato nell’alta fascia. «Ancora quattro ore» mormorò. «C’è da perdere un po’ la pazienza».

«State meglio qui che fuori, signor sacerdote» disse Kammamuri il quale aveva smesso di fumare. «Non è da fidarsi a starsene di notte sulle gallerie. Come sapete, le tigri ed i leopardi sono lesti di zampe».

«Non lo dite a me» disse il bramino, chiudendo prudentemente la porta. «Due mesi fa per poco una tigre non mi portava via sul treno che va a Patna». «Era entrata nel carrozzone?» chiesero il maharatto e Timul.

«No, respiravo un po’ d’aria notturna su una galleria, quando vidi improvvisamente comparire sull’orlo d’una jungla, due occhi fosforescenti. Il treno marciava veloce eppure la fiera non esitò a slanciarsi e cadde a qualche passo da me. Ebbi appena il tempo di precipitarmi nel mio scompartimento, di chiudere la porta e d’impugnare le mie pistole, che già le unghie della terribile belva tentavano di squarciare le stuoie di vetiver per raggiungermi». «Eravate solo?»

«Affatto solo» disse il bramino. «Vi erano degli inglesi nello scompartimento vicino, ma non si erano accorti di nulla».

«E come ve la siete cavata?» chiese Kammamuri, il quale era tutto orecchi nella sua qualità di vecchio cacciatore dei più feroci animali infestanti il delta gangetico.

«Con due pistolettate scaricate dentro un orecchio della belva, quando già, squarciata la stuoia, stava per balzare nello scompartimento». «E l’avete fulminata?»

«Sul colpo. Conservo ancora, a casa mia, la pelle di quella superba tigre reale».

«Siete stato ben fortunato, signor sacerdote, poiché io che ho cacciato molti anni nelle Sunderbunds, non sono mai riuscito ad atterrare quei bestioni con delle semplici pistolettate. Tante volte non bastavano le grosse carabine». «Brahma mi ha aiutato». «Vi credo volentieri».

«Vorrei però sapere perché dei principi assamesi andavano a cacciare nel basso Bengala. Nelle vostre foreste le belve non devono mancare».

«Ci andavamo per addestrarci» rispose prudentemente Kammamuri. «Mi permettete una pipata?» «Sì, se alzate la stuoia». «E se qualche tigre saltasse sulla galleria di volo?» «Siamo in tre, ed anch’io sono bene armato». «Allora posso anche uscire», «Non lo fate: non si sa mai». «Mi basterà la finestra».

Kammamuri accese la sua pipa, e alzata la grossa stuoia gocciolante d’acqua, si mise a fumare tranquillamente, cercando di distinguere qualche cosa. Un’oscurità assoluta avvolgeva il treno il quale aveva già cominciato a cacciarsi in mezzo alle jungle formate da bambù, alti quindici ed anche venti piedi, e grossi come la coscia d’un uomo alla loro base. Le lampade mandavano però, di quando in quando, sprazzi di luce, i quali permettevano di distinguere ancora, a tratti, qualche cosa.

Ed il treno s’avanzava sempre, con un gran fragore di ferraglie scuotendo orribilmente i carrozzoni, e vomitando dalla sua larga ciminiera immensi getti di scintille che il vento notturno si affrettava a disperdere, con grande pericolo che scoppiasse qualche incendio, poiché era l’epoca della stagione asciutta ed i vegetali erano ben secchi.

Era vero però che dietro al treno fuggente non ve n’era nessun altro, e che quindi il fuoco non avrebbe potuto causare che dei danni alle foreste stendentisi al di là delle jungle. Kammamuri aveva fatte due pipate, quando udì tre fischi laceranti, mandati dalla macchina.

Quasi nel medesimo istante vide il bramino aprire la porta e precipitarsi sulla galleria, armato di pistole.

«Signor sacerdote, dove correte?» chiese il maharatto. «Non avete più paura delle tigri?» «Non avete udito questi fischi?» «Il macchinista vorrà divertirsi a spaventare qualche truppa di bufali». «No: annuncia un disastro, il disastro già da me previsto». «Oh!… Che storie!…»

Kammamuri non poté finire. Il treno si era bruscamente fermato imprimendo ai carrozzoni delle scosse spaventevoli.

Per un momento sembrò che tutto andasse all’aria, ma poi si videro due ombre passare dinanzi alle gallerie, gridando a squarciagola: «Non spaventatevi, signori, un piccolo guasto alla macchina».

«Scappate con me» disse il bramino, volgendosi verso Kammamuri e Timul. «La macchina sta per scoppiare!… Presto, saltate a terra!…»

«Noi aspetteremo che salti» rispose Kammamuri, il quale si era già slanciato fuori dallo scompartimento. «Fuggite, stupidi!…»

«Se volete farvi mangiare dalle tigri siete padronissimo, signor sacerdote. Noi stiamo ancora troppo bene qui».

«Ve ne pentirete!…» gridò il bramino, slanciandosi a terra e scomparendo fra le tenebre.

Tutti i viaggiatori si erano accalcati nelle gallerie, e le domande e le risposte s’incrociavano. «Un guasto grave?»

«Non lo sappiamo» aveva risposto il macchinista, il quale aveva già adocchiato il bramino. «Passeremo la notte qui?» «Non si sa».

«Tornate alla macchina!…» urlavano gli ufficiali inglesi furiosi. «Andate a fare la riparazione». «Temo di aver poca acqua, signori, e che tutto salti». «Tutto il treno!…» strillavano le donne. «Non è possibile».

«Ehi, macchinista!…» gridò un vecchio funzionario, il quale si era impadronito d’un fanale. «Volete che vi faccia arrestare e poi fucilare? Sapete che noi non scherziamo molto».

«Bisognerebbe sapere prima di tutto dov’è scappato» disse Kammamuri a Timul. «Un momento fa era davanti a noi ed ora è scomparso». «Che sia fuggito col bramino?» «Ne sai qualche cosa tu? Tieni pronte le pistole perché io fiuto un tradimento». «Ordito contro chi?» Kammamuri non poté rispondere.

Tutti i viaggiatori, sempre più impressionati per quella fermata in mezzo ad una jungla fitta, in piena notte, strepitavano urlando tutti. «Macchinista!… Macchinista!…» «Mascalzone: rispondi o ti getteremo dentro il forno».

Gli ufficiali inglesi stavano per lanciarsi a terra, quando il treno subì una scossa orribile, poi si mise a fuggire attraverso alle jungle con fantastica velocità vomitando torrenti di scintille.

Era appena partito quando delle luci sinistre ruppero improvvisamente le tenebre, tingendo rapidamente il cielo d’un rosso intenso.

Nel medesimo tempo dei colpi di fucile rimbombarono sotto i giganteschi bambù, e si udirono dei proiettili fischiare attraverso i carrozzoni e cacciarsi, con uno stridio acuto, nel legname.

«Per Giove!… Come dice il signor Yanez!…» esclamò Kammamuri. «Siamo caduti tutti in una imboscata abilmente preparataci». «Da chi?»

«Dal macchinista e dal fuochista i quali devono essere d’accordo coi briganti della jungla». «Il treno continua a correre. Chi lo guida?» domandò Timul. «Aperta la leva, cammina da sé finché vi è carbone nel forno». «Sahib, che cosa facciamo?»

«Andiamo a cercare quel cane di macchinista, ma come vedrai non lo troveremo». «Hai pratica di quelle bestie sbuffanti fuoco e fumo?»

«Qualche po’ me ne intendo. Vieni con me, prima che l’incendio si sviluppi completamente. Non passare attraverso le gallerie che sono ingombre di persone strillanti. Salteremo dal tetto d’un carrozzone all’altro. Bada di non cadere se ti premono le gambe». «Non ho mai sofferto le vertigini, sahib, e sono agile come una scimmia». «Su, basta, séguimi, sangue di Visnù!…» Si aggrappò ad una colonna della galleria e passò sul tetto del carrozzone. Uno spettacolo spaventevole si offrì tosto ai suoi occhi. Tutta la jungla era in fiamme, tanto a destra che a sinistra della linea ferrata.

Gli altissimi bambù, ormai ben secchi, bruciavano come immense torce, contorcendosi, tuonando, piegandosi e rialzandosi come se fossero stati ravvivati da nuove forze.

Nembi di scintille, splendenti come stelle, solcavano le tenebre accompagnate da gigantesche colonne di fumo.

«Siamo perduti!…» aveva esclamato subito Kammamuri. «Come potremo noi attraversare questo mare di fuoco senza cucinare vivi? Timul, alla macchina!…» Prese lo slancio e andò sul tetto del carrozzone vicino. Si fermò un momento essendo rimasto come stordito, poi riprese animosamente la pericolosa ginnastica, imitato dal giovane cercatore di piste, il quale saltava coll’agilità dei daini indiani. Nelle gallerie, i viaggiatori, urlavano spaventosamente, ma pareva che anche gli ufficiali avessero perduta la testa, poiché nessuno aveva pensato alla macchina e si tenevano stretti gli uni contro gli altri, guardando, cogli occhi dilatati dal terrore, quel terribile spettacolo.

Kammamuri saltò su sette carrozzoni, poi andò a ruzzolare nel tender, in mezzo al carbone. Un momento dopo Timul gli cadeva quasi addosso. Anche il bravo giovane aveva superata felicemente la gran prova.

L’incendio divampava sempre, con un crepitio assordante, coprendosi sempre più di fumo e di scintille, ed il treno si precipitava all’impazzata, alla velocità di più di cento chilometri, dentro la jungla, sbuffando, muggendo, trabalzando.

Kammamuri prese un po’ di respiro, poi si precipitò verso la macchina facendosi una terribile domanda: «Andare innanzi o retrocedere?»

«Continuiamo la corsa, sahib» disse Timul. «Anche al nord tutta la jungla arde, e ci troveremo ancora in mezzo ad un mare di fuoco».

«Ed allora lasciamo che il treno corra. Io sto attento alla macchina, e tu bada che non manchi il carbone nel forno». «E credi, sahib, di condurci in salvo?»

«Mi ci provo. Qui si tratta di correre e di correre bene. Se sopraggiunge qualche incidente e ci ferma, morremo tutti bruciati. Carbone, Timul, carbone!…»

Kammamuri non era mai stato un macchinista, però conosceva e sapeva maneggiare quelle bestie, avendo fatto un po’ di pratica fra le macchine del Re del Mare di Sandokan, quindi non si trovava imbarazzato. L’incendio però, che aumentava sempre, lo preoccupava. La via ferrata, aperta attraverso alle jungle, non era più larga di trenta metri, sicché le scintille cadevano in gran numero sulle vetture minacciando d’incendiarle. Solamente la macchina non poteva correre alcun pericolo, essendo coperta da una spessa lamiera di ferro che si spingeva perfino sopra una parte del tender. Là le scintille non potevano avere alcuna presa; però i due macchinisti improvvisati non si trovavano sopra un letto di rose, e le loro preoccupazioni aumentavano di minuto in minuto.

Se i viaggiatori, ben tappati dentro i carrozzoni, e riparati dalle stuoie grondanti d’acqua, potevano sfuggire almeno al fumo che turbinava attorno al treno, il maharatto ed il cercatore di piste, pur essendo vicini, certi momenti non riuscivano a scorgersi.

E poi, più che il fumo, era la cenere calda, che pioveva da tutte le parti e che incominciava ad accumularsi sui carrozzoni, che dava a quei due valorosi i maggiori fastidi, poiché il vento la cacciava anche attraverso la macchina, sotto la lamiera, minacciando di bruciare loro gli occhi.

Il calore aumentava spaventosamente. Il termometro doveva fare dei salti di più gradi alla volta. L’aria era diventata quasi irrespirabile e seccava i polmoni, provocando furiosi colpi di tosse.

I due indiani però resistevano tenacemente, continuando ad alimentare il fornello. Solo una fuga fulminea poteva salvare ancora tutti quei disgraziati che dentro i carrozzoni non cessavano di mandare urla sempre più spaventevoli. E correva il treno, in mezzo a quella fornace, che alimentava colla sua corrente d’aria, ma la jungla pareva che non dovesse avere una fine.

In lontananza, verso il sud, il cielo appariva rossastro. Anche laggiù dunque l’incendio, più rapido della macchina, si era già propagato in causa delle miriadi di scintille che il vento del settentrione, diventato disgraziatamente un po’ forte, travolgeva.

«Io temo di non uscire vivo da questo mare di fuoco» disse ad un certo momento Kammamuri a Timul, il quale smuoveva con una lunga sbarra il carbone. «L’incendio continua anche dinanzi a noi e l’aria comincia a mancare. Io non ho più speranza, eppure non possiamo, non dobbiamo arrestarci. Ah!… Cane d’un macchinista!… È stato lui a dare fuoco alla jungla, aiutato da altri complici, ma quei vili sciacalli si sono salvati in tempo». «Che cosa vuoi fare, sahib?»

«Correre sempre. Vi sono due mastelli d’acqua qui, saranno un po’ caldi, tuttavia il liquido servirà a qualche cosa gettato sui nostri vestiti. Bagna, bagna, e poi carbone ancora, Timul». «E se la macchina scoppia?» «Bruceremo tutti». «È spaventoso, sahib!…» Ad un tratto gli sfuggì un urlo altissimo.

Il treno aveva superata una curva e stava per slanciarsi nuovamente in mezzo al mare di fuoco, quando si scorse attraverso alla linea, alla distanza di cinquecento o mille metri, una grossa linea nera.

Che cos’era? Il tronco enorme di qualche pipal o di qualche tara caduto proprio sulle sbarre d’acciaio che guidavano il treno? Kammamuri lo suppose.

«Siamo perduti» disse a Timul. «Fra mezzo minuto tutte le vetture andranno a pezzi». «Non possiamo passare?» «No: la linea è ingombra».

Diede rapidamente il contro-vapore e fece fischiare la macchina per avvertire tutto il personale di chiudere i freni, ma chi vi poteva badare? Il fumo, le scintille, l’aria caldissima, avevano ormai messo fuori di combattimento quasi tutti.

«Timul» disse Kammamuri, con voce rotta. «Salta, mentre la macchina rallenta. Mi getto giù anch’io». «Non ci ammazzeremo, sahib?»

«Salta nel fossato. L’erba è folta e non ha ancora preso fuoco, e salverà le nostre ossa. Bada a non perdere le pistole. Più tardi ne avremo forse molto bisogno».

Ai due lati della linea si aprivano due profonde trincee che si erano riempite di vegetali, impedendo perfino lo scolo delle acque.

Il treno rallentava e si vedeva ormai nettamente, gettato attraverso il cammino che doveva percorrere la macchina, un tronco enorme, un tronco di tara.

Evitare il disastro era impossibile. I frenatori non avevano risposto all’appello disperato dell’improvvisato macchinista. Erano morti o semiasfissiati dentro le loro minuscole cabine? Chi avrebbe potuto dirlo? «Giù, Timul!…» urlò Kammamuri. «Qui il fuoco ci dà un po’ di tregua!…»

Infatti in quel punto la jungla, forse più umida dell’altra, fumava senza fiammeggiare.

I due indiani misurarono la distanza, raccolsero tutte le loro forze e si slanciarono dentro i profondi fossati, uno a destra ed uno a sinistra della macchina che continuava a correre rantolando.

«Si salvi chi può!…» gridò il maharatto, il quale era caduto su un folto strato di erbe grasse. «Saltate tutti!… Fuggite!…» Dai carrozzoni nessuna voce aveva risposto.

Il treno, quantunque frenato dal contro-vapore, percorse ancora velocemente cinquecento metri, poi la macchina s’impennò come un cavallo sotto il colpo dello sperone assaggiato per la prima volta. Aveva cozzato contro il tronco enorme dell’albero, rovesciandosi da una parte insieme col tender.

I carrozzoni, proiettati dalla spinta, si accavallarono l’uno sull’altro con un rombo formidabile, fracassandosi, poi si udì uno scoppio assordante. La macchina era saltata ed aveva comunicato il fuoco prima al tender, poi al primo carrozzone.

Fiamme enormi, in un momento, si stesero dovunque. Tutto bruciava, e bruciavano pure i disgraziati viaggiatori che non avevano avuto il tempo o che avevano avuto paura di saltare.

Kammamuri, assai grigiastro, ossia pallido, aveva raggiunto Timul il quale, non meno fortunato, se l’era cavata con poche contusioni, assolutamente insignificanti per la dura pelle d’un indiano.

Come abbiamo detto, in quel luogo la jungla fumava assai, ma non bruciava. I vegetali si contorcevano come se fossero rettili, poi si abbattevano in gran numero attraverso alla linea ferroviaria, spezzando i fili del telegrafo, chissà in quanti luoghi interrotti allora. «Che sia vero che noi siamo vivi?» chiese il maharatto con voce rotta.

«È quello che mi domando anch’io, sahib» rispose il giovane cercatore di piste, respirando affannosamente. «Ed i viaggiatori?»

«Se non sono stati uccisi dall’urto, il fuoco li finirà. Tutte le carrozze bruciano, e nemmeno due compagnie di pompieri potrebbero salvarle». «Vi può essere qualche superstite, signore».

«Non credo, tuttavia andiamo a vedere, se il fumo ci permetterà però di avvicinarci». «E di noi che cosa sarà?» «A noi penseremo dopo, Timul» rispose Kammamuri.

Si erano messi a correre in mezzo alla linea ferrata, guardandosi dai bambù che di quando in quando, pur non bruciando, cadevano sempre in buon numero, come se le loro basi si fossero calcinate da un momento all’altro, e riuscirono a spingersi fino a cento metri dal treno.

Là però dovettero fermarsi. Una enorme nuvola di fumo impregnata d’un orrendo odore di carne bruciacchiata, avvolgeva tutti i carrozzoni, i quali, sotto quella funebre coperta, continuavano ad avvampare. Tutti i disgraziati viaggiatori dovevano essere morti, chi uccisi dall’urto, chi arsi vivi o rapidamente asfissiati. Kammamuri fece colle mani portavoce e si mise a gridare: «Signori!… Signori!… Se qualcuno di voi è ancora vivo, risponda».

Nessuna voce umana uscì da quella nuvolaglia. Si udivano invece solamente le vampe a stridere e talvolta perfino a muggire. Per tre volte il maharatto ripeté la chiamata, poi prese Timul per un braccio e lo trasse verso la jungla umida, dove il calore era meno intenso e l’aria un po’ più respirabile.

Si sedettero entrambi sull’orlo d’un fossato, dinanzi ad un palo telegrafico alto sette od otto metri, e che reggeva, sulla sua cima, oltre molti isolatori, tre larghe aste di ferro destinate a servire di piccolo deposito ad altri fili, affinché il personale dei treni potesse più rapidamente riallacciare le comunicazioni rotte per qualche incidente.

«Sono spaventato!» disse Kammamuri. «Io mi domando come faremo noi a lasciare queste maledette jungle che fiammeggiano dovunque».

«Qui il fuoco non avvampa» disse Timul. «I bambù si consumano senza incendiarsi. Vi devono essere dei canali o delle paludi qui vicine».

«E sapresti tu raggiungerle? Morresti asfissiato prima d’aver percorso cento metri, e poi non vedo alcun passaggio né dinanzi né dietro a noi». «Aspetteremo che il fuoco cessi».

«Sai tu quanto durerà? Io non conosco queste jungle. E poi vedrai che faremo bene a non allontanarci da questo palo telegrafico. Lassù vi è posto per due persone». «Il palo non camminerà, sahib». «Ne sono convinto, ma sarà quello che più tardi ci salverà». «Da chi?»

«Dalle tigri, mio caro. Aspetta che il fuoco cessi e le vedrai giungere per gettarsi sui cadaveri dei viaggiatori. Come vedi, è meglio che noi restiamo qui». «A lasciarci affumicare, sahib?» «Non so che cosa farci. Io non ho sotto mano dei pompieri».

«Ma credi tu, sahib, che l’autore di questo disastro sia stato quel misterioso bramino, d’accordo col macchinista e col fuochista?»

«Non ne ho più alcun dubbio. Qui, gli amici di Sindhia, ci hanno preparato un terribile agguato».

«Che avessero saputo che noi avevamo lasciata la capitale per recarci a Calcutta?» «Certamente». «Ha dunque una polizia quel Sindhia?» «Ed a quanto pare assai più abile di quella della rhani».

«Allora, se non sono riusciti ad ammazzarci qui, sacrificando un centinaio d’inglesi, non mancheranno di farci la pelle a Calcutta» disse Timul, un po’ impressionato. «Ormai ci crederanno morti e non penseranno più a noi». «Andremo nella regina del Bengala a piedi?»

«Sei pazzo tu? Siamo ancora lontani almeno cinquecento chilometri se non di più». «Torneremo alla capitale?»

«Ah, no!… Io compirò la missione affidatami dal maharajah» rispose Kammamuri con voce ferma. «Porto con me delle somme importanti, e se non potremo attendere il treno, noleggeremo un elefante. Nei villaggi dell’alto Bengala, frequentati così sovente dagli ufficiali inglesi, sempre in cerca di tigri, se ne trovano sempre». «L’altro treno quando passerà?»

«Chi può dirlo? La linea telegrafica è guasta, nessuno ha potuto lanciare prima un telegramma, quindi giungerà quando giungerà, e poi verrà da Calcutta in corsa per le regioni settentrionali, e lassù noi non abbiamo, almeno pel momento, nessun affare da sbrigare». «Sahib, che le nostre ore siano contate?»

«La nostra situazione è difficile, eppure io non dispero. Oh!… In Malesia, quando combattevo col mio padrone e col maharajah insieme al famoso Sandokan, mi sono trovato in pericoli ben più grossi, eppure sono ritornato in India colla mia pelle quasi intatta». «Eppure anche laggiù ci sono delle tigri, è vero, sahib?»

«E quelle a due sole gambe ben più temibili di quelle che ne hanno quattro. Maledetto fumo!… Che non la finisca più?» «La pioggia di cenere ardente è però cessata».

«Ed è stata per noi una vera e grande fortuna» disse Kammamuri. «Se fosse continuata, avremmo fatta la fine di quei disgraziati inglesi». «Ed il fossato è umido, sahib».

«Infatti, noi qui ci troviamo abbastanza bene, quantunque le jungle continuino a bruciare. Il fuoco va però allontanandosi e fra un paio d’ore noi potremo respirare liberamente».

Kammamuri si era alzato. I vegetali che si profilavano lungo quel tratto di linea ferroviaria, continuavano a calcinarsi senza vampate. Il fumo però era intenso e di quando in quando diventava quasi nerastro. Poche le scintille. Una grande umidità doveva regnare in quel luogo e doveva spegnerlo rapidamente.

In lontananza, però, sia al nord che al sud, il cielo fiammeggiava sempre come se un’aurora boreale si fosse spinta dalle regioni gelate fino alle regioni equatoriali.

Il caldo era estremamente intenso. I due disgraziati sudavano come se si trovassero entro un forno, e respiravano a stento.

«L’alba» disse ad un tratto Kammamuri, il quale, non sapendo più che cosa fare, aveva accesa la pipa. «Ed un’alba tempestosa anche. Il sole sorge fra nuvole più nere del catrame e della faccia della dea Kalì. Avremo un uragano».

«Sia il benvenuto» disse il giovane cercatore di piste. «Spegnerà questo grande incendio».

«E farà accorrere più presto le tigri. Quando il fuoco sarà cessato, noi le vedremo giungere in gran numero. Te l’ho già detto». «Mangeranno gli inglesi». «E poi noi». «Abbiamo le nostre pistole e delle munizioni, sahib».

«Tu non conosci la tigre, mio caro. Va’ ad affrontarla con questi gingilli, buoni per accoppare gli uomini sì, ma non quelle terribili bestiacce». «Eppure il bramino…»

«Bah!… Una storia qualunque inventata forse lì per lì. Io ed il mio signore abbiamo atterrato molte di quelle belve nelle Sunderbunds del Gange, e sempre a colpi di carabina».

«Signore, se tornassimo verso il treno e andassimo a prendere le nostre o quelle che portavano i viaggiatori?»

«Non troveremo che le canne e se le troveremo anche! Tuttavia, giacché nulla vi è da fare qui, possiamo spingerci un’altra volta verso la macchina. Chissà!… Qualche carrozzone può essere deragliato, scagliato nella jungla e sfuggito all’incendio. Il fumo ormai non ondeggia più tanto denso sui rottami del treno e potremo vedere meglio». «Speri, signore, di trovare ancora qualche persona viva?» «No, no, te l’ho già detto. Tutti devono essere periti». «Ed erano cento!…»

«Che cosa importa a Sindhia, che deve odiare il signor Yanez non meno degli inglesi?»

Un colpo secco di tuono soffocò per un momento i fragori che venivano dalla jungla sempre fiammeggiante. Il sole era appena sorto che si era già nascosto dentro una gigantesca nuvola color della pece. «L’uragano» disse Kammamuri. «Sarà la nostra fortuna o la nostra sfortuna?»

Uscirono dal fossato e tornarono verso il treno. Delle vampe brillavano ancora, però le grosse ondate di fumo si erano disperse. I carrozzoni dovevano ormai essere stati tutti distrutti, ed il fuoco stentava a trovare dell’altro alimento. L’odore della carne arrostita, e carne umana, impregnava fortemente sempre l’aria. Uomini e donne erano caduti dentro i carrozzoni per non uscirne che bruciati. La polvere delle loro ossa ormai doveva essersi mescolata a quella del materiale che la terribile vampa, sprigionata dallo scoppio della macchina, non aveva risparmiato.

«Il disastro non poteva essere più completo» disse Kammamuri, il quale non osava più avanzarsi. «È stata una gita inutile».

«No, sahib» disse il giovane cercatore di piste, che si era scostato verso il fossato di destra. «Là vi è una vettura che non ha ancora preso fuoco». «Sogni tu?» «Attraversiamo questo nuvolone di fumo e vedrai che io non mi sono ingannato». «Che il grande urto ne abbia scaraventata qualcuna fuori assai dalla linea?»

«È dentro il fossato, e quantunque la jungla bruci a pochi metri di distanza, non ha ancora preso fuoco».

«Non vi troveremo nessuna persona viva, te lo assicuro. Tuttavia andiamo a vedere».

Si slanciarono a gran corsa attraverso la nuvolaglia puzzolente, e dopo d’aver percorsi venti o trenta metri, andarono a urtare contro un carrozzone, che era stato scaraventato, come se fosse un semplice giuocattolo, entro il largo fossato.

Era la vettura-ristorante e pareva che nel terribile salto non avesse sofferto affatto.

Kammamuri, dopo una breve esitazione, si slanciò sulla piattaforma, aprì la porta e guardò dentro. Tavoli e stoviglie giacevano fracassate, ed in mezzo a loro si allungavano due corpi umani, vestiti di bianco, che parevano già morti: erano il cuoco ed il suo aiutante. Proiettando l’incendio una luce sempre vivissima, i due indiani poterono avanzare e raggiungere i due disgraziati.

«Anche questi se ne sono andati» disse Kammamuri, con voce sempre più commossa. «Devono essere stati uccisi dall’urto». «Fuggiamo, signore» disse Timul.

«Sei pazzo tu? Questa vettura diverrà la nostra casa finché giungerà qualche altro treno». «Portiamo via i morti, almeno».

«Ah, sì, non amo che la compagnia dei vivi anch’io. E poi qui staremo benissimo, e non soffriremo né la fame, né la sete. Guarda quante casse piene di viveri e di bottiglie di birra che, chissà per qual caso, non si sono infrante, malgrado la formidabile scossa. Qui staremo meglio che sulla cima d’un palo telegrafico, e potremo tener testa alle tigri. Orsù, aiutami».

Presero il cuoco che aveva la testa quasi spaccata in due e lo portarono fuori, deponendolo a venti metri di distanza, poi portarono via l’aiutante, il quale pareva che avesse tutte le ossa fracassate. L’uno e l’altro dovevano essere morti sul colpo, senza quasi alcuna sofferenza. «Sai, Timul, che io sono stupito?» «Di che cosa, sahib?»

«Di aver avuto tanta fortuna» disse Kammamuri. «Non credevo di uscire vivo da questo disastro che ha costato cento e più vite umane. Io ho fatto il possibile per evitarlo e non ho nulla da rimproverarmi, quindi la mia coscienza è tranquilla. Pensiamo ora ai casi nostri. Mi pare che da questa parte l’incendio della jungla cominci a diminuire assai rapidamente, e se sarà da una parte una fortuna, poiché non correremo più il pericolo di bruciare vivi, da un altro lato attirerà su di noi conseguenze ben maggiori. Fortunatamente vi è il carrozzone». «Tu forse pensi sempre alle tigri, sahib» disse Timul. «E più di quello che potresti supporre» rispose Kammamuri, con voce grave.

«Io sono nato e sono vissuto nelle jungle e lunghi e lunghi anni ho passati fra quei grandi vegetali. Questa, che ora brucia, è nulla in confronto di quella che io abitavo col mio padrone. Erano altri tempi allora, ed i thugs ci davano forse più fastidi delle tigri e dei serpenti».

Si passò una mano sulla fronte madida di sudore, entrò nella vettura- ristorante, prese due bottiglie di birra e ne offrì una a Timul. «Devi avere anche tu i polmoni arsi» disse. «Non so come funzionino ancora, sahib» rispose il giovane cercatore di piste.

«Sediamoci sul margine del fossato ed aspettiamo che tutto il treno si sia incenerito. Nulla possiamo fare per salvarlo. Bevi, e se hai fame va’ a provvederti nel carrozzone». «Oh, no, sahib!… Per ora no».

«Va’ allora a vedere se il cuoco ed il suo aiutante avevano qualche arma. Di solito ne tengono».

Il giovane cercatore di piste entrò lestamente nel carrozzone, e poco dopo uscì portando due splendide pistole inglesi e parecchi pacchi di munizioni. «Ora sono più tranquillo» disse il maharatto.

Si assicurò che le armi fossero cariche, poi attaccò la sua bottiglia di birra, subito imitato da Timul che si sentiva morire dalla sete.

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