Capitolo VII – Il meticcio

La notte era oscura, anche perché la maggior parte delle lampade erano state o molto abbassate o spente completamente. Mancavano le stelle ed anche la luna, essendovi in alto molti vapori sprigionati dalle grandi jungle sempre ricche d’umidità.

I due indiani attraversarono la prima galleria e passarono sulla seconda, poi sulla terza. Stavano per saltare sulla quarta, quando un sipai cadde quasi dinanzi a loro, avendo spiccato il salto in senso inverso. «È lui!…» aveva subito detto Timul.

Kammamuri, senza perdere un istante, lo afferrò strettamente pel collo impedendogli di mandare qualunque grido, poi quando credette di averlo abbastanza strangolato, se lo gettò sulle robuste spalle, ed aiutato dal giovane cercatore di piste, rifece la via percorsa rifugiandosi nel suo scompartimento.

Nessuno lo aveva veduto, poiché tutti i viaggiatori si riposavano ed il personale viaggiante pure, affidandosi all’abilità del macchinista e del fuochista, quindi non aveva da temere nessuna sorpresa.

Timul, d’altronde era stato lesto a chiudere la porta ed abbassare le fitte stuoie.

Kammamuri gettò il meticcio su una poltrona, e solo allora si accorse di aver stretto un po’ troppo le mani. L’half-cat non dava più segno di vita. «L’hai ucciso, sahib?» disse Timul.

«Che le mie mani siano ancora così robuste da strangolare quasi sul colpo un uomo?» si domandò Kammamuri. «Non si sarà invece avvelenato mentre io lo portavo via?»

«Può darsi, sahib. Vi sono dei veleni che fulminano sul colpo l’uomo più robusto». «Ed è proprio lui?» «Sì, l’half-cat. Anche col vestito di sipai è facile riconoscerlo». «Aprigli la bocca».

Il giovane cercatore di piste si tolse da una tasca un robusto coltello a serramanico, l’aprì e forzò i denti del meticcio i quali erano strettamente chiusi.

Subito un getto di bava sanguigna, che tramandava un odore acutissimo, cadde dinanzi ai due indiani macchiando il tappeto.

«Che cosa ti avevo detto?» disse Kammamuri a Timul che aveva fatto un passo indietro e che si turava il naso. «Quest’uomo non è stato ucciso da me: si è suicidato mentre lo trasportavo attraverso le gallerie, per non confessarci nulla». «In quale modo? La cosa sembrerebbe impossibile, sahib».

«Meno di quello che tu credi» rispose il maharatto il quale si era impadronito d’un grosso anello d’oro che l’half-cat portava al dito medio della mano sinistra. «Vi è un buco qui, e da questo esce il medesimo odore che esala la bava sanguigna. Qui dentro c’era il veleno ed è stato succhiato». «Sahib, noi abbiamo da lottare con dei grandi furfanti». «Ora te ne accorgi?»

«Che cosa ne facciamo di quest’uomo? Da un momento all’altro possiamo giungere a qualche stazione e ci arresterebbero».

«C’è tempo. Aspetta prima che m’impadronisca di tutte le sue carte ed anche del portafoglio, poiché le tigri mangiano carne e non già banconote o chèques. Aiutami».

Tutte le tasche del morto furono vuotate, ma non trovarono che un solo biglietto. I valori doveva averli lasciati nel suo scompartimento. «Vedremo dopo» disse Kammamuri. «Prima sbarazziamoci di quest’uomo». Lo presero uno per le braccia e l’altro per le gambe e uscirono sulla galleria.

Il treno aveva lasciato la boscaglia e ronfava, con un fragore sempre indiavolato, attraverso una jungla foltissima che gli audaci costruttori della linea avevano squarciata malgrado gli attacchi delle tigri e dei leopardi. Si guardarono intorno, poi i due indiani, non vedendo nessuno, diedero al meticcio una grande spinta, mandandolo a cadere al di là del fossato.

«Ci sono dei grandi furfanti, però ci sono anche dei fortunati» disse il maharatto. «Ora spero di poter rivedere la rhani ed il signor Yanez. Poco fa però ne dubitavo assai».

Rientrarono nello scompartimento, abbassarono le stuoie, alzarono la lampada e guardarono il biglietto trovato in una tasca del morto. Era un cartoncino azzurro su cui erano state scritte alcune righe che Kammamuri, dopo un lungo esame, riuscì finalmente a decifrare. «Seguirli dovunque e sopprimerli prima che tornino nell’Assam».

Sotto, per firma vi era un piccolo sgorbio fatto con inchiostro rosso invece di nero.

«Hai capito, mio caro Timul?» disse Kammamuri, rileggendo il biglietto. «Quel furfante era incaricato di farci la pelle prima che tornassimo alla capitale». «Ma quante spie ha quel Sindhia?»

«Chi lo sa? Molte di certo, ed anche ben abili. Possiamo rallegrarci di essere ancora vivi. Già alla stazione quel meticcio aveva cercato di avvelenarci in tutti i modi, con sigari e con bottiglie. Non rimpiango affatto la sua morte. Sarà un formidabile avversario di meno che avrà la rhani. Per la morte di tutti i giganti dell’India!… Chi avrebbe potuto supporre che quell’ubriacone di Sindhia avesse potuto, in così breve tempo, diventare così potente? Prima non mi preoccupavo dei suoi paria e dei suoi fakiri o bramini falsi che siano, ma ora comincio ad essere tristamente impressionato. M’ingannerò forse, eppure io dico che i tradimenti vinceranno il nostro valore e che ci costringeranno a fare le valigie per non rivedere più mai l’Assam». «Sahib, che ci possa essere nel treno qualche altro spione?» «Il meticcio era ben solo». «Sì, solo».

«Allora respiro. Tuttavia ci terremo in guardia, e finché non saremo a Gahuati o per lo meno a Goalpara non mangeremo che delle uova sode e berremo delle bottiglie sigillate. Io non mi fido più nemmeno dei cuochi della vettura-ristorante. Torneremo un po’ magri, ma non importa». «E se scopriranno, alla prossima stazione, la sparizione del meticcio?»

«Che cosa importa a noi? Le sue valigie non le abbiamo prese come non abbiamo presi i suoi valori. E poi ci credono tutti realmente dei principi autentici, e nessuno verrà a seccarci per non avere delle questioni poi col maharajah o la rhani. E poi nessuno ci ha veduti a compiere la nostra operazione. Io ho l’animo perfettamente tranquillo». In quel momento il treno cominciò a fischiare rabbiosamente e poi a rallentare.

Kammamuri si era precipitato sulla galleria e scorse subito, a non molta distanza, parecchi lumi a vari colori.

«Siamo già a Baraset» disse a Timul che lo interrogava con una certa apprensione. «Che corsa ha fatto questo treno!… Giunge con qualche mezz’ora di vantaggio».

Tutto il personale viaggiante era saltato ai freni e li faceva girare rapidamente. Nelle vetture le lampade si riaccendevano.

Il mostro di ferro percorse ancora quasi un mezzo chilometro, poi si arrestò sotto l’ampia tettoia della stazione di Baraset.

Erano allora le tre del mattino ed il cielo cominciava già quantunque assai debolmente, a rischiararsi, offuscando le poche stelle che si scorgevano attraverso gli strappi dei vapori.

Tutti i viaggiatori, sapendo che vi doveva essere una fermata di un paio d’ore, perché la macchina completasse le sue provviste d’acqua e di carbone, avevano lasciati i loro lettucci per fumarsi all’aperto qualche sigaro o per recarsi alla vettura-ristorante a bere qualche sorso di gin o di whisky. Degli impiegati accorrevano qua e là seguiti da qualche guardia di polizia, dando ordini, mentre dei ragazzi assonnati si avanzavano per vendere ai viaggiatori aranci d’inverosimile grossezza, banani, manghi dalla polpa gialla dorata, d’un sapore aromatico squisitissimo, e dei dolci preparati dalle donne indù, e che sono buonissimi quantunque sappiano troppo di ananas.

«Non compero nulla da nessuno» disse Kammamuri al giovane cercatore di piste. «Non c’è più da fidarsi».

«Oh, no, sahib!… Ho troppa paura. Ormai anch’io non vedo che degli avvelenatori da tutte le parti».

«Va’ ad ordinare invece ventiquattro uova sode e dell’altra birra. Bada che le bottiglie siano sigillate e sceglile tu nelle casse. Oh!… Se ne sono accorti». «Di che cosa, padrone?» «Della misteriosa sparizione del sipai» rispose Kammamuri.

Degli impiegati avevano occupato la galleria del carrozzone dove si trovava lo scompartimento preso dal meticcio, e parevano in preda ad una viva agitazione. Fra di loro si trovavano già anche delle guardie di polizia, le quali stavano esaminando la valigia di pelle gialla del viaggiatore così misteriosamente scomparso.

Degli agenti passarono nei carrozzoni interrogando frettolosamente i passeggeri ma senza nessun risultato, poiché nell’ora in cui il fatto era avvenuto dormivano tutti profondamente.

Un policeman giunse finalmente nella galleria occupata dai due indiani, e dopo d’aver squadrato un po’ di traverso i due uomini che stavano fumando, chiese loro con voce un po’ brusca: «Come, occupate da soli uno scompartimento di prima classe per voi soli?» «Per viaggiare più comodi» rispose Kammamuri, con voce tranquilla. «Chi siete? Avete carte?» «Sì, signore, e portanti i rossi timbri della rhani dell’Assam». «Fate vedere».

Il maharatto si tolse dal portafoglio due documenti i quali portavano anche la firma del maharajah. «Voi siete due Altezze!…» disse cambiando tono. «Parenti della rhani». «Che cosa siete andati a fare a Calcutta?» «Una semplice gita di piacere. Si annoia molto nelle città dell’Assam». «Finché il treno viaggiava avete dormito?» «Sempre: eravamo immensamente stanchi».

«Sapete che è scomparso un viaggiatore, il quale, cosa strana, anche lui aveva preso uno scompartimento per sé».

«Non potevamo saperlo, poiché non ci siamo ancora mossi dalla nostra vettura. Era qualche personaggio importante?»

«Era un half-cat vestito all’inglese e ricco senza dubbio, ma qui le cose s’imbrogliano. Il suo vestito è stato trovato su una poltrona ed è stato perfettamente riconosciuto dal controllore dei biglietti, mentre un guardia- freno ha affermato d’aver scorto più tardi quell’uomo vestito da sipai». «Avrà veduto male».

«No, poiché sulla galleria della vettura segnata col numero 1097 è stato trovato un berretto da soldato».

«Oh, strano!… E come spiegate voi quella misteriosa sparizione, signor agente?»

«Si crede che il viaggiatore abbia bevuto troppo, e che nel passare da una galleria all’altra sia caduto lungo la linea».

«E qualche tigre lo avrà mangiato. Quelle maledette bestie sono pronte ad accorrere quando vi è un uomo da divorare».

«È proprio vero, signori miei. Abbiamo telegrafato a Calcutta perché, se è possibile, facciano delle ricerche».

«Tempo perduto, io credo» disse Kammamuri. «Non troveranno che delle ossa».

«Nessuno ha veduto, nessuno ha udito, io non sono Brahma per indovinare certe cose. Signori, buon viaggio».

Ed il policeman passò su un’altra galleria per interrogare altri viaggiatori, i quali non potevano certamente dargli maggiori informazioni.

«Ecco allontanato ogni sospetto» disse Kammamuri. «Anche noi dormivamo come due orsi del Butan. Che cosa potevamo vedere a occhi chiusi e russando per di più? Va’ a fare le nostre provviste, Timul, e non preoccuparti d’altro».

Il giovane cercatore di piste eseguì la sua commissione e tornò colle sue uova, cucinate sotto i suoi occhi e con altre bottiglie di birra. Dei biscotti ne avevano ancora in abbondanza e potevano aspettare una nuova fermata.

Il treno stava per riprendere la corsa, poiché la macchina aveva completate le sue provviste d’acqua e di carbone. Gli impiegati, dopo di essersi ben assicurati che ogni cosa era a posto, fecero sgombrare la linea da tutti i piccoli venditori, poi diedero con alte grida il segnale della partenza.

«Possiamo dormire qualche ora» disse Kammamuri, mentre il treno accelerava rapidamente slanciandosi verso le immense pianure del Bengala settentrionale. Fece abbassare le stuoie, poi la lampada, e si sdraiò sul lettuccio improvvisato e nondimeno assai comodo.

Timul stava per chiudere la porta e quindi imitarlo, quando fece due passi indietro, lasciandosi sfuggire un grido di sorpresa, appena represso.

Kammamuri, che lo aveva veduto innanzi tutto indietreggiare, si era alzato a sedere impugnando rapidamente una delle sue pistole. «Che cos’hai, Timul?» chiese. «Mi sembri spaventato».

«Sahib, fuori, sulla galleria, vi è il policeman che ci ha interrogati prima della partenza». «Non ti saresti ingannato?» «Tu sai che non scordo mai un viso quando l’ho veduto una volta». «Che cosa fa?» «Mi parve che cercasse di spiarci attraverso le stuoie». «Ti ha veduto?» «Non credo». «Lascia fare a me allora». «Che sia anche quello un arruolato di Sindhia?»

«È un inglese, quindi sarà ben difficile, tuttavia tutto è possibile. Se fosse ancora notte farei fare anche a questo importuno un bel salto dal treno, ma il sole sta per mostrarsi e tutti potrebbero vederci».

Si mise nella fascia le pistole, accese un sigaro, fece cenno al giovane cercatore di piste di non muoversi, e uscì sulla galleria.

Il policeman stava quasi col naso appoggiato alla stuoia che riparava lo scompartimento dei due viaggiatori. Vedendosi scoperto fece sollecitamente due o tre passi verso l’estremità della galleria fingendo di scrivere su un libriccino.

«Buon giorno, signore» gli disse Kammamuri, con accento un po’ ironico. «Non vi siete fermato a Baraset?»

«Ah!… Siete voi, Altezza!…» esclamò il poliziotto, facendo un gesto di malumore. «Siete sempre così mattiniero?»

«Si dorme poco nell’Assam. Appena il sole spunta tutti siamo in piedi, comprese le galline e le mucche. E poi durante il viaggio abbiamo dormito abbastanza». «Mi permettereste una domanda, Altezza?» «Anche dieci».

«Perché vi siete fatti servire ventiquattro uova sode dal cuoco del carrozzone -ristorante, senza nemmeno una bistecca? Questo fatto mi ha assai sorpreso». «Non saprei trovarne il motivo». «Solamente delle uova» insistette il policeman guardandolo fisso.

«Allora vi dirò che quando noi viaggiamo fuori dal nostro stato, per non correre il pericolo di mangiare qualche pasticcio o qualche manicaretto sapientemente avvelenati, per prudenza non ci cibiamo che di uova». «E cucinate anche sotto i vostri occhi?»

«Anche questo avete saputo? Come vedete, noi siamo assai prudenti. Quando saremo a casa nostra faremo lavorare i nostri cuochi, e le uova saranno allora bandite dalla nostra tavola» disse Kammamuri.

«Si direbbe che avete paura di fare una brutta fine prima di giungere al vostro stato. Io rappresento la polizia, e se avete dei sospetti su qualcuno che possa avere interesse ad avvelenarvi, dovreste dirmelo subito. Volete che io vegli su di voi? Non vi darò nessun disturbo e mi pagherete solamente cinquanta rupie se vi condurrò al di là della frontiera sani e salvi».

«Noi veramente siamo uomini da difenderci senza bisogno d’altre persone, tuttavia se credete, vegliate sulle nostre persone».

«Capirete, Altezza, che dopo la misteriosa sparizione di quel passeggero, nessuno può dormire tranquillo su questo treno. Qui vi devono essere dei famosi banditi che aspettano le occasioni per fare qualche buon colpo. Io non so ancora chi siano, ma sono certo di scoprirli prima che si giunga alla grande fermata di Rangpur. Io posseggo un colpo d’occhio straordinario e soprattutto un fiuto meraviglioso. Oh!… Quanti banditi ho arrestati io nella Città Nera!…»

«Allora, sotto i vostri sguardi sempre vigilanti, noi potremo dormire tranquilli senza temere che qualcuno ci assassini e poi ci getti nella jungla per far cenare tigri e sciacalli. L’impresa sarebbe però un po’ difficile, ve lo assicuro, signor agente, poiché siamo in due ed abbiamo quattro pistole a due colpi che non falliscono mai». «Cinquanta rupie per due principi, non sono grande cosa» disse il policeman. «No, anzi noi ve ne accorderemo cento, purché ci lasciate riposare tranquilli».

«E veglierò anche sui cuochi della vettura-ristorante se avete voglia di mangiare delle bistecche».

«È inutile: noi fino a Rangpur, dove noleggeremo un elefante per raggiungere la frontiera e spingerci innanzi tutto su Goalpara, che è la seconda città dell’Assam, non mangeremo che delle uova». «Io vi ammiro. Volete riposare, signori?»

«Abbiamo dormito tutta la notte e perciò faremo invece colazione colle nostre solite uova. Voi potete andare a fare qualche indagine sulla scomparsa così misteriosa di quell’uomo».

«Infatti, per ora, in pieno sole, non potete correre alcun pericolo. Sarà questa sera che io monterò la guardia sulla vostra galleria. Buon appetito, Altezze».

«Che un thug ti strangoli» mormorò fra sé Kammamuri, volgendogli le spalle piuttosto bruscamente e rientrando nello scompartimento.

I due indiani si guardarono l’un l’altro per parecchi secondi, senza osare di parlare. Fu Timul che ruppe pel primo il silenzio insieme al primo uovo. «Sahib, che cosa dici tu? Che cosa vuole questo policeman?»

«Che cosa vuole?» rispose Kammamuri, il quale sbuffava come un lamantino. «Sorvegliarci». «Che abbia qualche sospetto su di noi?» «Può darsi».

«Che ci faccia arrestare prima che noi possiamo varcare la frontiera e metterci completamente al sicuro?» «Non l’oserà». «Pare che abbia intenzione di accompagnarci anche dopo Rangpur».

«E quando noi saremo sull’elefante che avremo noleggiato, noi saremo completamente padroni di lui, senza sparare un colpo di pistola». «In quale modo, sahib?»

«Ti sei dunque dimenticato del porta-sigari regalatomi dal bramino prima che avvenisse la terribile catastrofe in mezzo alla jungla? L’ho conservato, e contiene ancora nove sigari Londres imbottiti d’oppio, poiché il decimo, come sai, l’ho spezzato io. Gliene regaleremo qualcuno od anche un paio, quando saremo sull’elefante ed avremo ben mangiato e bevuto senza fare figurare le uova, poi quando si sarà bene addormentato lo lasceremo cadere entro qualche macchia perché vada ad arrestare le tigri». «Così risparmierai anche le cento rupie».

«No, Timul, gliele pagherò a Rangpur. Se andranno a finire fra le mascelle delle belve io non ne avrò colpa alcuna. Toh!… Volevo dormire e quella seccatura ci obbliga invece a fare colazione alle cinque del mattino. Bah!… La giornata sarà lunga e caldissima, ed avremo tempo per riposarci».

Si mise dinanzi il cestino delle uova, e quantunque avrebbe preferito qualche cosa d’altro, incoraggiato da Timul, si mise a sgusciare ed a masticare con bastante appetito, cacciando, di quando in quando, in gola un bicchiere di buona birra.

Intanto il treno continuava la sua corsa rapidissima, attraversando regioni quasi affatto selvagge. Solamente a grandi distanze, situati per lo più sul margine delle risaie, si vedevano dei miserabili villaggi i cui abitanti dovevano essere eternamente divorati dalle febbri. In lontananza, su qualche rara altura, si profilavano degli hudì, piccoli forti merlati che servono da appostamenti, e che di solito sono costruiti sul margine di qualche burrone tagliato a picco.

Le miglia si accumulavano, ma la frontiera dell’Assam occidentale era ancora lontana, e qualche brutta avventura poteva succedere ancora ai due indiani prima di giungervi. Fortunatamente erano uomini da non preoccuparsene troppo.

Terminata la magra colazione innaffiata però da una vecchia bottiglia di vino francese che portava la marca famosa, Bordeaux, e che era acido peggio dell’aceto, però con tanto di ceralacca, si stesero sui loro lettucci che non avevano nemmeno provati, e dopo essersi messi, a portata di mano, le loro pistole, si addormentarono profondamente.

Niente potevano temere, perché il policeman aveva promesso di vegliare su di loro.

Quando si svegliarono, il treno aveva già fatte parecchie fermate in piccole stazioni, ripartendo quasi subito dopo d’aver fatta la solita provvista d’acqua e di carbone. Era già quasi vicino il tramonto.

«Per Siva!…» esclamò il maharatto dopo d’aver guardato il suo vecchio orologio. «Sono già le sette. Ora potremo passare la notte vegliando. Di giorno nulla di straordinario può succedere».

Uscì nella galleria e si trovò di fronte al policeman il quale camminava impettito, colla testa altissima, il viso contratto, come se cercasse di sciogliere qualche arduo problema.

«Altezza» disse subito il poliziotto, con una punta di ironia. «Si dorme molto nell’Assam?»

«Oh, sì, noi siamo dei dormiglioni. Siamo capaci di tenere gli occhi chiusi anche ventiquattro ore di fila» rispose Kammamuri. «Dopo qualche partita di caccia?»

«Certamente, e sono cacce dove pagano le big ed in quelle partite, signor mio, i nervi rimangono quasi spezzati». «Vi credo, Altezza». «Ah!… E del viaggiatore che è scomparso avete saputo più nulla?»

«Assolutamente nulla» rispose il policeman. «Non ci penso d’altronde più. Non era che un meticcio, un uomo disprezzato, che non si sa se fosse un sipai od un bandito. Le tigri lo avranno mangiato, e non sarò certamente io che andrò a cercare le sue ossa entro o sul margine di qualche jungla».

«Infatti, ci sono delle bestie che fanno un po’ sudare freddo, e lo sappiamo noi assamesi. Quando giungeremo a Rangpur?» «Alle sette e trentacinque di domani mattina, Altezza».

«Allora, Timul, va’ a prendere altre ventiquattro uova e sorvegliane la cottura. Bada che siano bene cucinate».

«Altezza», disse il policeman «se volete mangiare altro, come vi ho detto, sorveglio anch’io».

«No, no, sempre uova» disse il maharatto. «Ci rifaremo al di là della frontiera». Il policeman corrugò la fronte ed arricciò un po’ il naso. Kammamuri, che lo osservava attentamente, gli disse:

«A voi nessuno impedisce di divorare bistecche e di vuotare bottiglie finché vorrete. Vi ho già detto che paghiamo noi».

«Voi siete troppo generosi. Allora vado prima a cenare e poi monto la guardia».

Fece un magnifico saluto e si allontanò sempre impettito, seguito subito da Timul il quale andava a sorvegliare la cottura delle altre ventiquattro uova.

«Morte di Siva e della dea Kalì insieme!…» esclamò il maharatto, il quale cominciava a perdere la pazienza. «Ma che cosa vuole ora da noi quell’uomo? Ci siamo sbarazzati del meticcio ed anche del bramino, ed ecco ora che ci troviamo fra i piedi un agente di polizia. Io comincio a diventare idrofobo. Finirò per accoppare anche quella mignatta che si è così strettamente appiccicata ai nostri fianchi. Che cosa è diventato quel Sindhia per avere dalla sua perfino degli uomini bianchi? Quali tesori teneva nascosti? In tutta questa faccenda è il gran denaro che corre e che, a quanto pare, come sempre, opera dei prodigi ed anche…»

Fu interrotto da Timul il quale entrava colle uova, ancora calde, cucinate sotto i suoi occhi e deposte in una bellissima terrina di porcellana insieme a delle posate d’argento. «Che cosa fa il policeman?» chiese.

«Mangia e beve a crepapelle alle tue spalle, sahib» rispose il giovane cercatore di piste. «Farà un bel conto». «L’orgia durerà poco, poiché domani mattina giungeremo a Rangpur». «Sahib, lo lascerai venire con noi?»

«Fino alla frontiera e poi lo faremo sparire. Già io credo che sia un falso poliziotto». «Mi ha fatto vedere la medaglia di riconoscimento».

«Può essere falsa anche quella, mio caro» disse Kammamuri. «Oh!… Lo faremo fumare e ci sbarazzeremo presto di lui».

Non sapendo che cosa fare, si rimisero a mangiare ed a bere, quantunque ne avessero abbastanza di uova, poi portarono due sedili sulla galleria accendendo i sigari.

Il policeman, avendoli scorti a tempo, per non disturbarli, si era fermato sulla galleria vicina e fumava anche lui dei Londres che già non gli costavano un soldo.

Come abbiamo detto la notte era scesa, una notte abbastanza oscura, poiché la luna e le stelle si ostinavano a non farsi vedere. Il treno filava ora attraverso ad immense boscaglie, essendo le jungle scomparse, e cominciava a salire raddoppiando gli sforzi.

Già parecchie ore erano trascorse e Rangpur non doveva essere lontana più di un centinaio di chilometri, quando uno spettacolo inatteso si offerse agli sguardi stupiti ed un po’ inquieti del personale viaggiante e dei passeggeri che si trovavano dispersi sulle gallerie, essendovi troppo caldo entro le vetture per poter dormire.

Centinaia e centinaia di fuochi brillavano sui due margini delle foreste entro le quali s’avanzava il treno. Pareva che una moltitudine di gente si fosse accampata sotto i tara, le mangifere, i banani, i palmizi ed i tamarindi giganteschi.

L’allarme era stato dato e tutti si erano precipitati fuori, sulle gallerie, impugnando carabine e pistole, mentre il treno accelerava pronto a sfuggire a qualche improvviso assalto.

«Sahib» disse Timul. «Che cosa sta per succedere? Che queste foreste siano piene di banditi?»

«Di galantuomini no di certo» rispose Kammamuri, passandosi una mano sulla fronte aggrottata. «Questi boschi si allungano verso la frontiera dell’Assam e mi viene un sospetto, mio caro». «Che siano gli arruolati di Sindhia?» «Hai indovinato». «Se assaltassero il treno?»

«Non credo che oseranno tanto. Non vorranno certo aver subito da fare colla polizia a cavallo delle frontiere del settentrione». «Se qualcuno ci riconoscesse?»

«Chi? Quel falso bramino è morto, il vecchio paria ed anche il giovane spero che si trovino ancora nelle mani del maharajah». «Ed i rajaputi che ci hanno traditi? Non ti ricordi più, sahib?» Kammamuri non aveva saputo trattenere una bestemmia.

«Sì, i rajaputi che sono fuggiti coi nostri elefanti e che sono passati colle loro armi dalla parte di Sindhia, i miserabili!…» «Fuggiamo, sahib».

«Rangpur è ancora troppo lontano per raggiungerlo a piedi, e molti e molti boschi ancora dovremo incontrare. No, io rimango e rischio tutto. Teniamo invece d’occhio il policeman. Se fa qualche segnale ammazziamolo subito».

Il treno, dopo d’aver rallentata la marcia, si era arrestato dinanzi a quelle linee di fuochi le quali gettavano nella notte dei bagliori sanguigni. Il macchinista temeva che tutta quella gente sospetta avesse gettato dei tronchi d’albero attraverso la linea per provocare qualche terribile catastrofe, e non aveva osato avanzare. La macchina però era sotto pressione, pronta a prendere un grande slancio ed a filare anche a cento chilometri all’ora. Dalle macchie uscivano centinaia e centinaia d’uomini che pareva fossero stati raccozzati in tutte le regioni della immensa penisola, fra le razze peggiori, e che pure conservavano una calma assoluta, quantunque tutti fossero armati di carabine, di pistoloni e di tarwar.

Vi erano soprattutto delle grosse bande di saniassi, i quali sono i fakiri più pericolosi che percorrono, in grossi gruppi, le province, spogliando le ortaglie, devastando i campi, taglieggiando sfrontatamente i disgraziati coltivatori già perfino troppo oppressi dalle enormi tasse dei loro graziosi protettori: gli inglesi.

Vi erano però fra di loro molti poron-hungse, uomini, secondo la superstizione indiana, discesi dal cielo, mentre non sono altro che volgari banditi; vi erano pure dei dondy, armati, di nodosi bastoni, perché è per loro come invece che di carabine, un distintivo della loro casta; poi dei nanek-punthy, che per un’usanza loro particolare, la cui origine è sempre stata ignota, portavano una sola scarpa ed una sola basetta al viso.

Vi erano però altri, dei paria, dei facchini, dei portatori tramutatisi in guerrieri, e perfino dei molanghi delle Sunderbunds del basso Bengala, i più brutti degli indiani, sempre febbricitanti.

Con grande stupore dei viaggiatori, tutti quei banditi od insorti che fossero, si contentarono di guardare, con una certa curiosità, le vetture, tenendosi al di là dei fossati, senza mandare un grido, né fare un qualche gesto di minaccia. Il macchinista, dopo essersi accertato che la linea non era stata ingombrata, lanciò il treno a novanta chilometri all’ora, rituffandosi fra le tenebre.

Kammamuri e Timul avevano raggiunto il poliziotto il quale si era mantenuto tranquillissimo. «Chi credete che siano quelle persone sospette?» gli chiese il primo. «Mah!… Non saprei» rispose il policeman con una cert’aria, però imbarazzata.

«Come mai il governatore del Bengala permette che si radunino nelle foreste delle bande così poderose?»

«Nessuno lo avrà ancora informato. Io credo però che non si fermeranno qui per non venire, più tardi, inseguiti dai sipai e presi a fucilate senza misericordia. Si rifugeranno certamente in qualche stato indipendente per compiere, con maggior sicurezza, delle torbide imprese». «L’Assam è vicino». «Andranno nell’Assam, signore» rispose prontamente il policeman.

«Avete mai udito parlare d’un ex rajah che si chiamava Sindhia, e che era stato internato in un ritiro di pazzi a Calcutta?» «Sì, vagamente». «Regnava prima nell’Assam».

«Non so nulla. Di politica non mi sono mai occupato, e quindi ignoro sempre ciò che succede fra gli stati indipendenti. Io non mi occupo che dei ladri e, non faccio per vantarmi, ne ho arrestati molti che erano famosi, e che agivano specialmente sulle linee ferroviarie». «Ah!…» fece Kammamuri.

«Quei bricconi aspettavano che i viaggiatori si addormentassero e poi li gettavano dalle gallerie, non senza averli prima alleggeriti di tutti i valori e di tutti i gioielli che portavano indosso».

«Allora, spero che riuscirete a scoprire anche gli assassini di quel misterioso meticcio».

«Io credo di essere già su una buona traccia» rispose il policeman, facendo la voce grossa. «Che si trovino ancora sul treno?» «Certo».

«E perché non hanno portato via i valori che possedeva il meticcio e che mi hanno detto fossero rilevanti?»

«Perché ai banditi sarà mancato il tempo di completare il colpo» disse il poliziotto, guardando fissamente Kammamuri. «Oh, ma voi li arresterete di certo». «Ho molte speranze». «Allora non ci scorterete fino alla frontiera assamese?» «E perché no, Altezza? Non voglio perdere il premio che mi avete promesso». «Ed intanto gli assassini ne approfitteranno per scappare».

«Ci saranno altri che li terranno d’occhio. Andate pure a dormire, io veglio e colla pistola in pugno. Ci vorranno ancora quattro ore prima di giungere a Rangpur». «Che incontriamo altri banditi?»

«Passeremo attraverso a loro a tutto vapore, e ne stritoleremo più che potremo se tenteranno di fermarci».

«Preferiamo sonnecchiare sulle poltrone che abbiamo portate sulla galleria della nostra vettura» disse Kammamuri. «La notte è troppo calda, e poi temo sempre qualche altra brutta sorpresa, quantunque quei banditi ci abbiano lasciati andare tranquilli».

«Buon riposo, signori» rispose il policeman, passando su un’altra galleria. «Terrò gli occhi bene aperti, anche se non sarò proprio vicino a voi».

I due indiani rimasero un po’ silenziosi, guardando distrattamente i giganteschi alberi che pareva fuggissero vertiginosamente, poi Timul chiese a bassa voce:

«Che quel poliziotto sospetti su di noi? Ormai non possiamo

ingannarci. Ce l’ha fatto, sia pure a distanza, capire».

«Può anche darsi, ma come ti ho detto non oserà arrestarci avendo io mostrato i miei documenti coi sigilli della rhani». «E ci accompagnerà?»

«Lasciamolo venire e non pensare più a lui. Non credo che sia stato arruolato da Sindhia, perché non avrebbe mancato di farci arrestare da tutti quei banditi. Sarà un policeman innamorato del suo mestiere, che crede di vedere in noi gli assassini del meticcio». «E non si è ingannato, sahib».

«Nessuno ci ha veduti, quindi mancandogli i testimoni si troverà completamente disarmato. Va’ a prendere un’altra bottiglia di birra ed altri sigari, ed aspettiamo di giungere a Rangpur». «Ah, sahib!…» «E così? La macchina corre sempre mi pare!…»

«La frontiera dell’Assam non è molto lontana dalla linea ferroviaria, in questo punto almeno, è vero?» «Appena una quindicina di miglia». «Guarda dunque!… Brucia una città, una di quelle della rhani, ne sono certo». Kammamuri era balzato in piedi, in preda ad una viva inquietudine.

Verso oriente il cielo si era improvvisamente illuminato, proiettando verso le nubi dei riflessi azzurrastri che talvolta diventavano sanguigni.

«Sì, qualche città brucia presso la frontiera» disse poi, con un sospiro. «I banditi di Sindhia non pèrdono tempo, e noi siamo qui e non sappiamo che cosa succede nella capitale». «Con un buon elefante domani sera potremo giungere a Gahuati, sahib». «Se non ci fermeranno in piena corsa». «I banditi di Sindhia?»

Kammamuri non rispose. Si era alzato, aveva acceso un sigaro e si era messo a passeggiare furiosamente per la galleria, borbottando delle minacce. Il policeman, come aveva promesso, lo sorvegliava fumandosi un altro Londres, tenendosi sempre nella vettura vicina.

Due ore dopo il treno lanciava parecchi fischi, rallentava gradatamente la corsa ed entrava, rombando, sotto l’ampia tettoia di Rangpur.

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