Capitolo XIX Il terribile puntantore

«Tutti al posto di combattimento!» aveva gridato il signor Howard, snudando la spada, e salendo rapidamente sul ponte di comando.

Testa di Pietra, dopo avere scambiate in fretta alcune parole col Corsaro, per informarlo di quanto gli era accaduto e della presenza del suo mortale nemico, si era precipitato verso il suo pezzo favorito, situato a babordo del castello di prora, seguito da Piccolo Flocco e dagli uomini di servizio. Mezzo equipaggio era salito in coperta per tentare, se era possibile, l’abbordaggio della maledetta fregata; gli altri erano rimasti nelle batterie per il servizio di tutti gli altri pezzi che, come sappiamo, erano numerosissimi. Un vivo entusiasmo regnava fra tutti i corsari, poiché ormai credevano di poter finalmente mettere le mani sul Marchese e strappargli la bionda miss. Solo sir William, sempre pessimista, appariva invece piuttosto inquieto, conoscendo già per prova l’audacia ed il coraggio del suo avversario. Ah, se avesse avuta la flottiglia americana, sarebbe stata ben diversa la cosa! Invece le quattro navi erano rimaste indietro, disperse dalle tempeste, come la flotta fantasma. Non avendo fiducia che in Testa di Pietra, gli si era avvicinato per osservare meglio il tiro del pezzo.

«Orsù, vecchio mio!» gli disse. «È la seconda volta che noi le prendiamo da quei signori. Ti raccomando solo di non sparare contro il quadro, ché potresti uccidere la mia Mary.»

«Nell’alberatura darò dentro,» rispose il bravo Bretone.

La fregata, liberatasi dalle sabbie, si era subito messa alla vela, tenendosi più che poteva celata dietro le interminabili file di scogliere. Si avanzava prudentemente, trovandosi sempre in mezzo a banchi pericolosi, sui quali poteva incagliare novamente, e pareva che non cercasse affatto d’impegnare un combattimento, anche per via del gran numero di malati che aveva a bordo, e che languivano nelle corsie. Ma così non la intendevano i corsari, decisi ad una lotta spaventosa, pur di finirla coll’odiato nemico.

«Passa?» chiese il Baronetto, impaziente.

«A cinquecento metri, signore,» rispose il Bretone.

«Picchia dentro prima che imbocchi quel canale e ci fugga al largo. Tu sai che è più rapida di noi.»

«Altro se lo so!… Vola proprio come una fregata dell’aria… Ah, ci siamo! Passa dinanzi al mio pezzo!»

Testa di Pietra prese la miccia e si curvò, per correggere un pò la mira.

Un silenzio profondo regnava sulla corvetta, rotto solo dallo sbattere delle vele. Tutti aspettavano ansiosi il colpo del vecchio Bretone.

«Cento sterline se lo prendi!» disse il Corsaro.

«Grazie, comandante.»

Il colpo partì con grande fracasso, destando l’eco delle scogliere e mettendo in fuga migliaia di uccelli marini.

Un grido subito echeggiò a bordo della corvetta, ma un grido di rabbia: la palla era passata fra l’albero maestro e il trinchetto della fregata, senza toccare né l’uno né l’altro.

«Mancato!» gridò il Corsaro.

«Ho perduto le sterline, ma spero di riguadagnarle. La battaglia è appena cominciata.»

La fregata, sfuggita miracolosamente a quel primo colpo, si era gettata dentro un largo canale che aveva due o tre passaggi nelle acque della corvetta, sicché non poteva credersi ancora in salvo. Il Corsaro, ben deciso a chiudere il passo, fece manovrare le vele in modo da portarsi sopravento; poi, quando la nave si trovò fuori dalle scogliere, comandò il fuoco.

I pezzi di tribordo e quelli da caccia rimbombarono furiosamente, mentre il povero Bretone si affrettava a far ricaricare il suo, per tentare di guadagnare le duemila e cinquecento lire promesse dal generoso capitano. La fregata virò di bordo e rispose alla sua volta coi suoi pezzi più grossi, tentando il colpo che per ben due volte le era riuscito. Per cinque o sei minuti le due navi si bersagliarono a vicenda, spezzandosi le attrezzature e uccidendosi non pochi uomini, poi la corvetta, approfittando del vento favorevole, mosse velocemente per abbordarla.

Era già giunta presso il pericoloso banco dove già la fregata si era incagliata, quando due spari risonarono isolati, spari di grossi cannoni da caccia.

Il Baronetto fece un salto, e l’equipaggio impallidì. Doveva essere il terribile puntatore del marchese d’Halifax, che si metteva in linea di battaglia.

Trascorsero pochi secondi, e due palle incatenate spaccarono, colla solita matematica precisione, la maestra della Tuonante. Il grande albero oscillò spaventosamente, schiantò la coffa e rovinò in coperta, fracassando la murata di tribordo. Nel medesimo tempo la nave disgraziata, priva ormai delle sue vele migliori, da una raffica veniva scagliata verso il banco di sabbia, dove affondava profondamente la carena. Ancora una volta la maledetta fregata aveva vinto, almeno per il momento.

I corsari, che vedevano la loro nave inclinarsi sotto il peso del troncone, corsero armati di scure per reciderlo e spingerlo in mare.

«Testa di Pietra! Testa di Pietra!» gridò disperatamente il Corsaro, mentre palle e bombe giungevano in gran numero, fracassando i madieri, le murate ed aprendo vie d’acqua nella carena. «Salvaci!»

«Eccomi!» rispose il Bretone con voce tonante. «A te, misterioso ed ammirabile puntatore!»

E scatenò il suo pezzo favorito alla distanza di appena 400 metri.

La detonazione era appena cessata, quando un grand’urlo echeggiò a bordo della Tuonante: anche la fregata aveva avuto finalmente il conto suo. Il grand’albero, preso fra le due palle incatenate, era pure precipitato, costringendo la nave a fermarsi di botto.

«Viva Testa di Pietra!» urlarono i corsari, i quali non pensavano in quel momento di essere pur essi immobilizzati e nell’impossibilità di montare all’abbordaggio.

A quel colpo fortunato seguì un cannoneggiamento spaventoso. Le due navi si coprivano di ferro e di mitraglia per finirsi a vicenda completamente. Ma la peggio l’aveva la corvetta, la quale non poteva più muoversi, insabbiata come era e addossata al banco, mentre la fregata, quantunque gravemente ferita, sbarazzatasi dell’albero, poteva ancora portarsi al largo.

I corsari intanto si battevano valorosamente e restituivano colpo per colpo, con accanimento feroce, sfidando intrepidi la morte, mentre la voce squillante del Baronetto echeggiava altissima in mezzo a quel fracasso:

«Fuoco di bordata! Fuoco, miei bravi!»

E sparavano i valorosi, quantunque molti fossero già caduti sulla tolda, spenti dai tiri tremendi della mitraglia inglese.

La corvetta, sotto quella tempesta di palle, a poco a poco se ne andava. I fori si aggiungevano ai fori; gli strappi succedevano agli strappi; i madieri, fracassati, lasciavano il passaggio alle acque, le quali ormai si raccoglievano rapidamente nelle sentine montando verso le batterie. Così la nave a poco a poco affondava, coricandosi maggiormente sul banco di sabbia; ma anche la fregata pagava cara la sua vittoria. Tutta l’alberatura era distrutta: perfino il bompresso era stato troncato da una palla incatenata scagliata da Testa di Pietra, e la carena incominciava pure a bere in abbondanza. Tuttavia, più fortunata della corvetta, aveva potuto alzare un paio di pennoni con vele quadre, e cominciava ad allontanarsi, ritirandosi dietro le scogliere.

Un’ora dopo da una parte e dall’altra i cannoni tacevano, poiché le palle non potevano più giungere al segno.

«Corpo d’un campanile!» esclamò Testa di Pietra, sfuggito, come sempre, alla morte che non voleva ancora la sua vecchia carcassa. «L’ultima ora della Tuonante è proprio sonata! La sua crociera è finita su un banco di sabbia.»

«Dopo onorata battaglia!» disse Piccolo Flocco, saltando sul grosso pezzo da caccia per osservare meglio la fregata.

«Le abbiamo date, ma le abbiamo anche prese, e la bionda miss si trova sempre nelle mani di quel furfante di Marchese.»

Ad un tratto una voce gridò:

«Un uomo in mare!»

Tutti, balzando attraverso i rottami, si precipitarono verso le murate di tribordo o, meglio, verso gli avanzi, e videro infatti un uomo che pareva si fosse gettato dalla fregata, e che si avanzava verso la corvetta nuotando vigorosamente.

«Non sparate!» gridò il Corsaro, vedendo che alcuni uomini riprendevano le carabine. «Lasciatelo venire.»

Intanto la nave del Marchese era scomparsa dietro le scogliere, infilando qualche altro canale. Ma doveva fare acqua essa pure, e probabilmente non poteva andare molto lontano.

I corsari seguivano attentamente le mosse del nuotatore, il quale, invece di fuggire la nave nemica, cercava di accostarla.

Chi poteva essere? Qualche prigioniero americano che aveva approfittato del combattimento per riacquistare la libertà? Ma quello aveva il berrettino inglese della fanteria marina.

Il nuotatore sostò un momento all’estremità d’un banco di sabbia, poi si rigettò in acqua, accostandosi velocemente alla corvetta.

Ad un tratto Hulbrik mandò un grido:

«Mio fratello!

«Wolf!» esclamò Testa di Pietra.

«Sì, patre, è lui.»

«Che cosa viene a far qui?»

«Aspettiamo, eterno chiacchierone, e lo sapremo.» disse il Corsaro.

«Forse avete ragione, comandante,» rispose il mastro, il quale si arrendeva sempre, ma soltanto al suo superiore.

Howard, il secondo della Tuonante, aveva intanto fatte gettare delle corde, poiché le scialuppe erano state tutte fracassate.

«Wolf! Wolf!» gridò con tutta la sua voce il Tedesco. «Mio pon fratello!»

«Hulbrik!» rispose il nuotatore, il quale si trovava ormai sotto la corvetta, già affondata fin quasi agli ombrinali.

Hulbrik era corso verso il fratello, e se lo era stretto al petto con grande espansione.

«Lascialo a me ora!» disse il Baronetto. «Potrete più tardi dirvi tutte le cose che vorrete. Ma io devo supporre che non per venire a salutare tuo fratello tu, Wolf, hai lasciato la fregata, a rischio di ricevere una diecina di palle.»

«No, sir,» rispose quello. «Vengo da parte della vostra fidanzata.»

Il Corsaro prima diventò pallido, poi un vivo rossore gli colorì le gote.

«Da parte di Mary!» disse con voce quasi gemente. «È viva dunque?»

«Sì, sir; e vi posso anche dire che ella pensa sempre a voi.»

«Che cosa vuole? Che io cerchi di liberarla dal Marchese che la tiene schiava?»

«E dovreste farlo presto, sir, poiché la fregata cercherà di giungere a New York, dove il primo atto del Marchese sarà quello d’impalmare la miss.»

«Chi te lo ha detto?»

«Lui in persona. Io sono sempre stato un pò il suo confidente.»

«Ma potrà la fregata, così guasta, arrivare a New York?» domandò il signor Howard.

«Ho inteso dire che ora costruiranno una zattera, colla speranza di trovare poi qualche nave inglese che li raccolga.

«Signor Howard,» chiese il Baronetto, in preda ad una viva agitazione, «che cosa mi consigliate di fare voi?»

«Di far la stessa cosa e dar la caccia agl’Inglesi attraverso l’Atlantico.»

«Con una zattera?»

«Sicuro. Io spero, signore, di farvi fare una magnifica corsa.»

«Povera la mia corvetta! n esclamò il Corsaro, con un sospiro. «Se l’avessi ancora a mia disposizione, l’affare sarebbe finito in pochi minuti, e la mia Mary tornerebbe fra le mie braccia… Ma non disperiamo. New York non è vicina e lassù combatte il generale Washington, che resiste valorosamente alle armi dell’ammiraglio Howe e di Clinton… Testa di Pietra!»

Il bravo Bretone, fu pronto ad accorrere, seguito dalla sua inseparabile ombra, ossia da Piccolo Flocco.

«Dai rottami di questa nave credi tu di poter trarre una zattera capace di contenerci tutti?»

«Ne avanzerà anche del legname, sir William; ma dovremo abbandonare le artiglierie.»

«Non ci contavo affatto. E poi sarebbero pericolose su un galleggiante… Morte e dannazione! Non ho potuto riprenderla la mia Mary, ma non dispero.»

«E nemmeno io,» disse il signor Howard. «Abbiamo lasciata dietro di noi la flottiglia corsara americana e un incontro può avvenire: sarebbe allora la fine del Marchese.»

«Conto appunto su quello,» rispose il Corsaro.

Era rimasto ritto un troncone dell’albero di maestra, tagliato proprio rasente alla coffa, fornito ancora di parte delle sue griselle; e il Baronetto ed il signor Howard vi salirono in cima.

«Deve aver raggiunto qualche altissimo gruppo di scogli,» disse il Baronetto. «Se potessimo sorprenderla prima che il suo equipaggio lanci la sua zattera!…

«È questione di far presto, signore,» rispose il tenente. «Purché nulla accada in contrario, prima di mezzanotte noi potremo riprendere la nostra crociera.»

Intanto l’equipaggio, diretto dal mastro, dopo aver gettati in mare i cadaveri, che erano dodici, si era messo alacremente al lavoro colle seghe e colle scuri, facendo un fracasso indiavolato.

Poiché la corvetta era penetrata a fondo nel banco di sabbia, era quindi facile radunare il legname sulle sabbie, e lì unirlo con chiodi e cordami.

Testa di Pietra pensò innanzi tutto di servirsi di barili per rendere il galleggiante più leggiero e sostenerlo specialmente ai quattro angoli. Poi fece preparare le provviste, perché tutta quella gente non corresse il pericolo di morire di fame e di sete in mezzo all’Atlantico.

Così la giornata trascorse, e le tenebre novamente discesero, tutto avvolgendo nel loro manto nero, banchi e rocce.

Sul tribordo della corvetta era stata calata una vera montagna di legname: tronconi d’albero, pennoni, pezzi di fasciame, pezzi di ponte e di tolda. Erano stati accesi alcuni fanali, malgrado l’opinione contraria di Testa di Pietra, che non aveva dimenticati gl’Indiani, ai quali quelle luci potevano servire di mira. Già la zattera cominciava a prender forma, ed il lavoro ferveva più intenso, quando dall’accampamento inglese si udirono alcuni fischi stridenti che parevano segnali.

«Ecco quello che temevo!» gridò Testa di Pietra. «Tutti a bordo! Facciamo lavorare i pezzi da caccia, giacché le batterie si trovano sott’acqua.»

Il Corsaro, che aveva appena finito di cenare col signor Howard, era accorso in coperta mentre vi rientrava l’equipaggio.

«I flauti da guerra degl’Indiani!» esclamò. «Oh, li conosco!… Che si siano alleati a mio fratello?»

«Credo il contrario, capitano,» disse Testa di Pietra. «Quella gente cercava di sorprendere il campo inglese, proprio mentre la nostra mala sorte ci ha insabbiati qui… Piccolo Flocco! Al nostro pezzo! E non fare risparmio di mitraglia, giacché la Santa Barbara doppia è rimasta miracolosamente asciutta.»

Ombre umane scendevano in gran numero verso il campo inglese, diviso dalle sabbie da un semplice canale guadabile. Non vi era da dubitare: erano quegl’Indiani che i due Bretoni e il Tedesco avevano veduto attraversare in grandi masse la foresta ventiquattro ore prima. Si trattava d’un vero attacco, anzi d’un formidabile abbordaggio, ché gl’indios della Florida erano famosi in quel tempo per il coraggio.

Gli uomini della corvetta, vedendoli ammassarsi sulle rive del canale, erano corsi alle loro armi, mentre gli artiglieri si gettavano sui pezzi da caccia.

«Lasciateli accostare!» gridò il Corsaro. «Non sparate che a colpo sicuro.»

Testa di Pietra si preparava a fare un colpo, quando un guerriero gigantesco s’inoltrò fra le sabbie, gridando in pessimo inglese:

«Gli uomini bianchi cedano a noi la loro casa galleggiante!»

«Chi sei tu?» chiese il Corsaro.

«Mato Grosso, gran sakem dei Seminoli del lago Okekobee.»

«Và a dire allora ai tuoi guerrieri che gli uomini bianchi conoscono troppo bene le vostre crudeltà; e intanto, perché tu corra più presto, prendi questo mio piccolo regalo.

E tosto sparò le pistole contro l’insolente, che, senza combattimento, gl’intimava la resa.

L’uomo rosso cadde, gridando «Okraa!» il grido di guerra della sua tribù. Centinaia di voci gli fecero eco; poi turbe di guerrieri si precipitarono nel canale che attraversarono quasi correndo.

«A te, Testa di Pietra!» gridò il Corsaro, il quale non aveva fiducia che nel suo Bretone.

«Subito!» rispose il mastro, impugnando la miccia.

Anche gli altri artiglieri avevano presi i loro posti sul cassero e sul castello di prora, mentre l’equipaggio si allineava dietro ai mucchi di rottami colle carabine in pugno.

«Fuoco!» comandò il signor Howard.

Trenta o quaranta colpi di carabina partirono seguiti da due cannonate a mitraglia. Gl’Indiani, che si preparavano a dare facile scalata alla corvetta, colpiti in pieno, si ripiegarono precipitosi, urlando; ma ben presto le loro linee si restrinsero e marciarono una seconda volta all’attacco.

Sparavano i pezzi da caccia e le carabine, illuminando coi loro lampi la notte, e i nemici cadevano in gran numero; tuttavia non era cosa facile ricacciare verso la costa quella tribù di barbari. Infatti una cinquantina di essi riuscirono finalmente a mettere i piedi sulla tolda.

I marinai, che vedevano le terribili mazze roteare in aria, misero mano alle sciabole d’arrembaggio e si gettarono animosamente nella mischia, tagliando gambe e troncando teste. Sir William ed il signor Howard caricavano alla testa dei loro uomini, sfidando intrepidamente la morte.

Per dieci minuti fu un orribile battagliare lungo la linea delle murate; poi quegl’Indiani, quantunque avessero ancora numerosi compagni sul banco, abbandonarono il campo, lasciando non pochi morti. Ed era tempo, poiché i corsari, impressionati dalle stature gigantesche degli assalitori e dalla lunghezza delle loro clave, stavano per cedere dinanzi all’impeto brutale di quegli abitanti delle foreste.

Testa di Pietra e gli altri artiglieri, vedendo il campo libero, spararono i pezzi da caccia, accrescendo il terrore dei fuggiaschi. Tre o quattro indiani, che si erano ostinati a rimanere sulla corvetta, furono uccisi coi calci delle carabine, e poi gettati in acqua.

La vittoria, almeno per il momento, era completa, e i marinai potevano riprendere il lavoro di costruzione della zattera.

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