Capitolo XVI – La caccia ai naufraghi

La scialuppa era in ottimo stato, e, come tutte quelle inglesi, perfettamente equilibrata. Non stazzava che cinque o sei tonnellate, portata più che sufficiente per i tre naufraghi che non avevano carico. Sotto la robusta mano del mastro, la piccola veliera tagliò una specie di canale che separava la scogliera dalla costa e si spinse risolutamente innanzi, mentre in lontananza, a cinque o sei miglia, tonavano i cannoni della fregata. In meno di mezz’ora i naufraghi raggiunsero la terraferma, arrestandosi in una minuscola cala. Non volevano spingersi troppo innanzi, così, in pieno giorno, per non ricevere qualche bordata.

«Aspettiamo a stasera,» disse il mastro, mentre Hulbrik legava l’imbarcazione ad una pianta che si curvava sull’acqua.

«E poi faremo una passeggiata su questa costa, che è così ricca di piante.»

«E perciò anche di animali.»

«Sì, mastro…»

«Non ti fidar troppo di queste terre, poiché oltre ad orsi e giaguari e serpenti velenosi, potresti imbatterti negl’Indiani. molto peggiori delle bestie.»

«Noi prenderli e far fare pirra,» disse Hulbrik.

«Corpo di centomila campanili!… Giacchè ci tieni tanto alla pirra degli uomini rossi, voglio spiegarti il segreto della fabbricazione.»

«Dite, patre: mettere scorpioni?»

«Peggio, assai peggio, Hulbrik! Prendono delle radici di mandioca, le fanno masticare dalle vecchie della tribù (specie da quelle sdentate), poi quel salivaccio viene sputato in un vaso e lasciato fermentare per otto giorni.» «

«Con mandioca?»

«Sì, Hulbrik. La berresti ora quella birra?»

«No! no!» gridò il Tedesco. «Meglio fino scorpionato di mastro Taverna.»

Il mastro rise e disse:

«Giacché il sole non tramonterà prima di cinque ore, andiamo a visitare la foresta… Tò! la fregata non spara più. Che abbia trovato un buon ancoraggio?»

Infatti da parecchi minuti i grossi pezzi della nave inglese non facevano udire più la loro possente voce. Si era spaccata su qualche scogliera, oppure aveva avuta la fortuna di trarsi d’impiccio da sé, rifugiandosi in qualche insenatura.

«Che ne dici tu, mastro?» chiese il gabbiere.

«Io non dico nulla. Vedremo più tardi. Ora andiamo in cerca d’un sorso d’acqua fresca, e se si presenta l’occasione, spariamo qualche fucilata.»

Raggiunta la cima della costa si trovarono improvvisamente dinanzi ad un superbo palmeto. Vi erano migliaia di alberi, disposti a gruppi, coi tronchi per lo più sottili ed alti anche trenta metri, coronati di una specie di parasole di lunghe foglie palmate, che ricadevano elegantemente, mostrando delle magnifiche spole tinte d’un violetto iridescente con liste di porpora e fiocchi di frutta cha sembravano mele verdi. Intorno a quei bellissimi e pittoreschi vegetali crescevano in gran numero le tigridie, le quali spiegavano al sole i loro fiori a forma di coppa di colore scarlatto e chiazzati di occhi, simili a quelli che si ammirano nelle penne dei pavoni, e di rigature nere che ricordano le code dei giaguari.

Appena i tre naufraghi si cacciarono sotto la foresta, da tutte le parti si alzarono uccellacci d’ogni specie, mentre fuggivano numerosi conigli. Erano fra i primi delle arzavole, eccellenti a mangiarsi; dei corvi di mare, grossi come galli e così feroci da assalire perfino le persone ferite; dei fenicotteri dalle lunghe zampe e dal becco stranamente ripiegato, tantali verdi, ibis bianchi ed anitre grosse come oche. Un uccello orribilmente brutto, che si era posato su un ramo basso, dette nell’occhio al Tedesco, il quale pensò di dargli la caccia. Era grosso quanto un tacchino, colle penne grige, gli occhi rossi, il becco bianco e il collo rognoso e pieno di verruche.

«Che fai, Hulbrik?» chiese il mastro, vedendo il Tedesco muovere con la carabina armata verso l’uccellaccio, che pareva non si fosse accorto della presenza dei naufraghi.

«Io folere mangiare quella prutta pestia!»

«È un avvoltoio aura… Guarda al tuo vestito.»

«Che cosa vuoi dire, Testa di Pietra?» chiese Piccolo Flocco, il quale stava a vedere. «Credi che gli salti agli occhi?»

«Io ho parlato del suo vestito e non dei suoi occhi. Quando lo ascolto tendo bene gli orecchi.»

«Come faceva tuo nonno?»

«Precisamente,» rispose serio il mastro.

Intanto il Tedesco si accostava al gigantesco avvoltoio che pareva fosse stato preso dal sonno.

«Guarda ai tuoi panni!» gli gridò un’altra volta Testa di Pietra.

Hulbrik, testardo come tutti i Tedeschi, e deciso a regalarsi per la colazione del domani quel brutto uccellaccio, non sapendo con che razza di volatile aveva da fare, continuava ad avanzarsi, tenendosi nascosto dietro i cespugli; ma era precauzione inutile perché, come abbiamo detto, l’avvoltoio dormiva della grossa. Chi sa, quanti conigli e scoiattoli volanti durante la giornata aveva insaccato nel suo ampio ventre!

Già Hulbrik non si trovava che ad una quindicina di passi e si preparava a far fuoco, quando l’avvoltoio spiegò le sue lunghissime ali, librandosi proprio sopra il cacciatore.

«Scappa, Hulbrik!» gridò Testa di Pietra.

Era troppo tardi! L’uccellaccio aveva vomitato addosso al Tedesco una poltiglia verdastra e così puzzolente, da mettere in fuga perfino dei giaguari. Il Tedesco lasciò partire la carica a casaccio, senza colpire, e saltò indietro urlando:

«Mio naso! mio naso!»

«Te l’ha mangiato?» chiese premurosamente il giovane gabbiere, armando la seconda carabina.

Un puzzo orrendo si era sparso sotto il palmeto, e tale, che perfino il mastro si sentì prendere dalla nausea.

«Via, Hulbrik! Via, Piccolo Flocco!» gridò, slanciandosi verso la costa spazzata dall’aria marina.

Il Tedesco e il giovane gabbiere, che si sentivano asfissiare da quel profumo infame, lo seguirono a gran salti, mentre l’avvoltoio, approfittando della confusione, se n’andava tranquillamente a finire la sua laboriosa digestione sulla cima di un altro albero.

Giunti sulla costa, i tre naufraghi si fermarono, aspirando fortemente la brezza impregnata di salsedine.

«Che pestia essere quella?» chiese il Tedesco, che pareva volesse rigettare. «Io mai sentito odore così pruno!»

«Un avvoltoio,» rispose il mastro. «Ti avevo detto di lasciarlo tranquillo.»

«Che cosa afere in corpo quell’uccello?»

«Un vero pozzo nero!» rispose il mastro ridendo.

L’Assiano fece un gesto di ribrezzo.

«Hai veduto gl’Indiani?» chiese il mastro, dopo aver lanciato rapidamente uno sguardo sotto il palmeto.

«No, patre; penso con orrore che io volevo mangiare pozzo nero.»

«Ora andrà a farsi mangiare da qualche indiano,» disse Piccolo Flocco che rideva a crepapelle.

«Pono stomaco indios!»

«Mangiano perfino gli alligatori che puzzano orribilmente di muschio…» disse Testa di Pietra.

Ma s’interruppe d’un tratto, udendo in aria un leggero sibilo, prodotto certamente da qualche freccia indiana. Subito i due Bretoni si misero in guardia, scrutando la foresta, ma per il momento non videro nulla.

«Qui non spira buon vento per noi,» disse il mastro. «Alla scialuppa, amici!

«Ma io puzzare!» esclamò Hulbrik, con un gesto desolato.

«Non occupartene: il vento di mare ti purificherà.»

Un altro sibilo si udì, ed una freccia andò a piantarsi nel tronco d’un albero, distante un metro appena dall’Assiano.

«Ehi, cane rosso rognoso, basta questo giuoco!» gridò Testa di Pietra, strappando al giovane gabbiere la carabina. «Se desiderate da noi qualche cosa, favorite mostrarvi.»

Un uomo di alta statura, assai abbronzato, armato d’un lunghissimo arco e d’una freccia, probabilmente avvelenata, si slanciò fuori da un gruppo d’alberi e si avanzò risolutamente, gridando in un pessimo inglese:

«Ecco To-Co-To.»

Aveva teso l’arco e puntatolo verso il mastro, ora alzandolo, ora abbassandolo, cercando la buona mira.

«Amico To-Co-To,» gridò il giovane gabbiere, il quale si era impadronito della carabina delfAssiano, «o fili, o lasci qui la pelle!»

«Ripiegatevi nella scialuppa!» comandò il mastro. «Forse questa scimmia rossa non è sola.»

I tre naufraghi scesero a salti la riva e guadagnarono l’imbarcazione. L’Indiano li aveva intrepidamente seguiti, sempre minacciandoli col suo lunghissimo dardo.

«Ehi, Testa di Pietra,» disse il giovane gabbiere. «Che i Bretoni abbiano paura delle scimmie rosse?»

«Te lo mando nel paradiso degli indios,» rispose il mastro imbracciando la carabina. «La commedia ha durato anche troppo. Basta, buffone!»

L’Indiano scendeva la costa, per nulla spaventato, sempre minacciando e gridando:

«Io sono To-Co-To!»

«Ed io sono Testa di Pietra, mastro della Tuonante!» urlò il Bretone furibondo. «Io non tiro frecce, ma regalo invece di questi dolci… Prendi e manda giù.»

Il colpo partì e, come sempre, il Bretone non mancò il bersaglio; sicché l’Indiano, colpito in qualche organo vitale dalla grossa palla di piombo della carabina, girò due volte su se stesso gettando l’arco, poi stramazzò in mezzo alle erbe, gridando un’ultima volta:

«Io sono To-Co-To!»

La detonazione rumoreggiava ancora sotto le volte frondose del palmeto, propagandosi a grande distanza, quando trenta o quaranta Indiani balzarono improvvisamente fuori dai cespugli, mandando terribili grida di guerra. Erano quasi tutti di alta statura, adorni di grandi ciuffi di penne variopinte ed armati parte d’archi e parte di clave, ossia delle terribili rompicostole, che in un corpo a corpo, producono sempre delle grandi stragi.

Fortunatamente i naufraghi erano già giunti presso la scialuppa. L’Assiano sparò un colpo per trattenerli un momento, colpo che tolse la vita, o ferì un sakem, poi tutti s’imbarcarono precipitosamente afferrando i remi.

«Via! via!» gridò Testa di Pietra, mentre Piccolo Flocco orientava rapidamente la vela, ché soffiava in quel momento un vento abbastanza fresco.

Delle frecce cominciavano a sibilare in alto, ma non a buona portata, avendo lasciato gl’Indiani troppo tempo ai naufraghi per svignarsela. Così la scialuppa, preso vento, bordò a tribordo e si inoltrò nel canale, mentre l’Assiano sparava un secondo colpo di carabina, seguito da urli altissimi.

«Dove scappiamo, mastro?» chiese il giovane gabbiere.

«Prendiamo il largo per non farci lardellare da quelle canaglie. Poi ci occuperemo della fregata.»

Spinta da una brezza che aumentava sempre, non essendovi più la costa ad interromperla, l’imbarcazione si avanzava con una velocità di sette od otto nodi all’ora, filando fra dei veri banchi di diodon, pesci strani che navigano col ventre in aria e che hanno l’abitudine di gonfiarsi fino a diventar rotondi. Tutto il loro corpo è irto di corte spine di colore biancastro, ed ha macchie nere e violacee, sicché somigliano a dei veri ricci di dimensioni enormi, specialmente se vengono irritati.

Gl’Indiani, dopo d’aver messo a dura prova la robustezza dei loro polmoni e delle gole, non avendo nei dintorni delle canoe, si ricacciarono nella foresta.

«Speriamo che quelle canaglie non ci secchino più,» disse Piccolo Flocco.

Testa di Pietra crollò il capo.

«Uhm!» disse poi. «Fidati di quella gente!… Alla foce delle loro riviere tengono sempre delle grosse scialuppe scavate nel tronco d’un bombai. Non vorrei vedermeli venire addosso stasera! La costa è difesa da altissime scogliere, che impediscono alla vista di spaziare. Farete bene perciò a caricare le carabine e con della buona mitraglia.

Il sole cominciava a tramontare, e l’oscurità si addensava rapidissima, come avviene in quelle regioni tropicali. Turbini di uccelli fuggivano in tutte le direzioni per raggiungere i loro covi prima che la luce sparisse completamente.

Erano in massima parte fetonti, uccelli che non si allontanano mai dai tropici, con lunghe ali forcute e le code corte ma fornite di certe penne che danno a quei volatili, quando solcano l’aria, un aspetto stranissimo. Abilissimi pescatori, si precipitano sui pesci, specialmente su quelli volanti, con una ferocia inaudita, facendone delle vere stragi.

L’Assiano, che pensava sempre alla colazione, voleva far fuoco, ma il mastro glielo impedì.

«Forse noi siamo vicini alla fregata più di quello che supponiamo, e un colpo di fucile potrebbe allarmare il suo equipaggio. Lascia andare questi uccelli per ora, mio bravo Hulbrik, che valgono poco.»

«Sì, patre,» rispose prontamente il Tedesco. «Io ti obbedire come essere tuo figlio.»

«E allora, mastro,» disse il giovane gabbiere, «se non fa bene, prendilo a scapaccioni nella tua qualità di padre.»

«Questo bravo ragazzo non avrà mai bisogno delle correzioni dei marinai Bretoni.»

«Che sono così brutali!» disse Piccolo Flocco. «Ne ho prese delle busse quand’ero mozzo!…»

«Perché non c’ero io.»

«È vero. Quando tu giungesti sulla Tuonante, mettesti a posto quei banditi…»

«A suon di pugni.»

«E che pugni! Ne mandasti sette od otto all’infermeria, dopo mezz’ora di pugilato.»

«Silenzio!» disse in quel momento l’Assiano.

La notte ormai era piombata, e la costa non si scorgeva che vagamente ad una distanza di due tiri di carabina. Testa di Pietra sempre inquieto, si alzò interrogando ansiosamente le tenebre.

«Afere udito tu, patre?»

«Sì: un segnale.»

«Che prutti cani rossi ci dare la caccia sul mare?»

«Lo vedremo, Hulbrik: sono cariche le armi?»

«Sì,» rispose il giovane gabbiere.

«Allora via, in cerca della fregata! » rispose il mastro. «Vò sapere che n’è successo di quel maledetto bastimento.»

Si era rimesso alla barra e guidava la scialuppa lungo il canale, il quale pareva non dovesse terminar più. A babordo e a tribordo si stendevano sempre banchi sabbiosi interrotti da scogliere, contro le quali il mare rumoreggiava cupamente.

Un colpo di barra mal dato, e la svelta scialuppa poteva subire l’egual sorte del brick-goletta. Ma Testa di Pietra era troppo buon marinaio per lasciarsi sorprendere da qualche onda traditrice, e continuava la sua corsa, come se avesse percorso cento e cento volte quel canale. Ad un tratto un grido gli sfuggì:

«Ah, i cani rognosi!… Ero certo di rivederli!»

La scialuppa passava in quel momento davanti ad una profonda squarciatura della costa tutta illuminata da giganteschi falò resinosi. Tronchi interi di pini avvampavano spandendo in alto una nuvolaglia di fumo acre, attraversata da lunghi getti di scintille. Delle ombre umane si agitavano dinanzi a quella cortina di fuoco, spiccando dei gran salti e dimenando furiosamente le braccia.

Ben presto una canoa lunga una quindicina di metri, montata da una ventina di selvaggi, uscì dalla spaccatura avanzandosi rapidamente sul mare.

«Patre, gli indios!» disse l’Assiano.

«Li vedo anch’io!»

«Noi aspettare?…»

«Noi scappare! Piccolo Flocco, incaricati delle vele. Se vorranno prenderci dovranno ben correre.»

La canoa, spinta da un gran numero di remi, si avanzava con furia, appena sfiorando le acque, essendo quelle scialuppe leggerissime; ma i naufraghi avevano un vantaggio d’un buon mezzo miglio ed il vento in favore, che aumentava sempre. Il mastro, vedendo una linea di scoglietti, li tagliò in un passaggio non pericoloso, per cercar d’ingannare gli inseguitori, poi riprese la rotta verso il sud, orientandosi benissimo anche se non aveva più la bussola.

«Questa manovra si chiama rotta falsa,» disse all’Assiano, che pareva cercasse d’interrogarlo. «Ora vedremo se riuscirà. Quei cani rossi avrebbero fatto meglio a starsene tranquilli nelle loro capanne fumando e dondolandosi sull’amaca, invece di venire a guastare i nostri affari, e proprio in questo momento.»

Un’altra fila di scogli si alzò dinanzi alla scialuppa, e molto più alta della prima. Testa di Pietra guardò la canoa, la quale non era riuscita a guadagnare nemmeno duecento metri, e lanciò un sonoro «Corpo d’un campanile!». Invece di cercare un altro passaggio, si era mantenuto nel vasto canale contentandosi per il momento di bordeggiare.

Doveva aver fatto il suo progetto, il furbo marinaio, perché appariva tranquillo.

«Sparare?» chiese il Tedesco, vedendo la canoa avvicinarsi.

«Ma che! Lascia fare a me. Questi scogli e queste secche si prestano meravigliosamente a delle bellissime manovre per chi sa tenere ben saldo il timone.»

«E le frecce?» chiese Piccolo Flocco.

«Gettatevi sui banchi e vi passeranno sopra senza danno. E poi di notte gl’Indiani si servono poco bene dei loro archi.»

La scialuppa continuava a correre piccole bordate quasi addosso alla scogliera, con una sicurezza straordinaria, mentre la canoa, continuava il suo fulmineo attacco a fondo per venire all’abbordaggio. Già alcune frecce avevano cominciato a fischiare, ed il buon Tedesco aveva cominciato ad inquietarsi.

«Patre, bum?» chiese spianando la carabina.

«Niente bum!» rispose il mastro, il quale stava eseguendo una strana manovra. «Bada alla vela tu. Piccolo Flocco, ed io rispondo di tutto.»

«Ma non vedi che navighiamo sui frangenti?»

«Lo so.»

«Se ci sventrassero?»

«La canoa dei cani rossi rognosi, sì, ma la nostra scialuppa no. Sii pronto a lasciar andar tutta la scotta.»

Gl’Indiani vedendo che gli uomini bianchi non si decidevano a far uso delle armi da fuoco, né a riprendere la corsa, si precipitarono all’abbordaggio, impugnando le loro mazze e urlando spaventosamente.

Era quello che aspettava il furbo Bretone. Con un colpo di barra virò lestamente sopra i frangenti, mentre Piccolo Flocco allargava subito la vela. Così la scialuppa, che era abbastanza leggiera per sfidare quegli ostacoli, soprattutto se guidata da un uomo di mare come Testa di Pietra, scartò, lasciando il posto alla pesante canoa carica di più di venti uomini.

Si udì un crac, poi seguirono degli urli furiosi.

Il battello si era fracassato sulle scogliere, e il suo equipaggio era caduto in acqua, fortunatamente su un bassofondo.

Hulbrik non potè trattenersi dallo sparare un colpo di carabina. Pochi istanti dopo due colpi di cannone rimbombarono verso l’estremità del canale.

«La fregata!» gridò Testa di Pietra. a Piccolo Flocco, abbandona tutta la scotta! Andiamo a vedere che cosa fa il marchese d’Halifax. Degl’Indiani non occupatevi. Lasciateli urlare finché scoppino loro i polmoni.»

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