Le coste della Florida

La Florida, sulle cui rive i venti e le onde avevano spinto i quattro filibustieri, è una grande penisola che, staccandosi dal continente dell’America Settentrionale, si prolunga per trecento e ottanta miglia fra il mare delle Antille e l’Atlantico.

 Anche oggidì è una delle meno note ed una delle meno popolate dell’Unione Americana, non avendo ancora raggiunto i centomila abitanti; a quell’epoca poi era un paese assolutamente selvaggio, che inspirava terrore ai naviganti, quantunque gli spagnuoli fossero riusciti a fondare alcune città lungo le coste orientali ed occidentali. Al settentrione ed al centro la Florida è tuttora un’immensa foresta, interrotta solamente da piccole catene di montagne che si prolungano verso il nord-ovest; a mezzodì invece non vi è altro che una immensa palude bagnata ora dalle acque dell’oceano ed ora dalle piogge invernali che non trovano scolo.

 L’aspetto di quelle terre sature d’acqua, coperte da foreste di pini e di cipressi, è così triste che finora nessun colono ha osato spingersi a mezzodì del lago di Okeechobee. Sono passati circa quattrocento anni dalla scoperta di quella penisola, eppure quella parte che viene bagnata dal mare e dalla corrente del Gulf Stream è ancora disabitata. Le febbri che imperano al disotto di quelle tristi e cupe foreste hanno costretto l’europeo e l’americano di razza bianca a fuggire verso regioni più salubri e più soleggiate.

 La scoperta di questa terra la si deve ad una strana leggenda. Ponce de Leon, uno dei più intraprendenti avventurieri spagnuoli, aveva udito a raccontare dagli indiani di S. Domingo e di Porto Ricco che in una penisola, situata a settentrione della Perla delle Antille, si trovava una fonte miracolosa che aveva l’incredibile proprietà… di ringiovanire le persone!

 L’avventuriero, già molto innanzi negli anni e pieno di acciacchi, presta fede alla mirabolante leggenda e decide di andare alla scoperta della fonte. Organizza una spedizione e, nel 1512, salpa per quel misterioso paese, deciso anche a conquistarlo. Le ricchezze favolose scoperte nel Messico, nel Perù e nella Venezuela non dovevano mancare anche in quella terra.

 Il credulo spagnuolo naviga adunque verso settentrione e scopre la regione desiderata, alla quale impone il nome di Florida, per la bellezza meravigliosa dei fiori che ne coprivano le sponde.

 Interroga gli indiani che trova accampati in quelle paludi e, ricevuta conferma dell’esistenza della miracolosa fonte, si slancia audacemente nell’interno, scoprendo così il continente americano, ma non certamente l’acqua che doveva ridonargli la perduta gioventù. Dopo Ponce de Leon, ritornato più vecchio di prima e completamente sfinito dalle fatiche, succede nel 1515 Vasques d’Aylien, ma gl’indiani, accortisi che mirava alla conquista delle loro terre, gli trucidano parte degli equipaggi e lo costringono ad imbarcarsi più che in fretta.

 Nel 1517 Naevaey, uno dei conquistatori del Messico, avendo udito parlare delle prodigiose ricchezze della Florida, esistite soltanto nel cervello esaltato di alcuni avventurieri, invade quelle terre alla testa di seicento uomini e cade con tutti i suoi, vinto dalle frecce e dalle mazze di quegli arditi indiani. Tre soli sfuggono al massacro e riescono, dopo una marcia delle più straordinarie, a giungere nel Messico, attraversando successivamente il Missisipì, la Luigiana ed il Texas.

 A questo secondo disastro ne succede un terzo. Gli spagnuoli, punto scoraggiati, organizzano una nuova spedizione che viene affidata a Fernando de Soto, uno dei più intrepidi compagni di Pizzarro, il famoso conquistatore del Perù. Si componeva di dodici navi montate da mille e duecento uomini, con duecento cavalli, parecchi pezzi d’artiglieria e venti preti che dovevano incaricarsi della civilizzazione degl’indiani.

 Quella numerosa truppa, la più forte che si fosse veduta fino allora, spinta dalla sete dell’oro penetra nell’interno, percorre battagliando incessantemente la Georgia, le Caroline, l’Alabama, il Misuri e ritorna nella Florida senza capo, morto di febbre nell’Arkansas, e ridotta a soli duecento uomini morenti di fame!

 Non fu che nel 1565 che gli spagnuoli, sotto la condotta di Mendez de Avila, il fondatore di S. Agostino – che è anche oggidì una delle principali città di quella regione, – riuscirono a stabilirsi definitivamente nella Florida previo consenso di quei fieri indiani, i cui discendenti dovevano più tardi dare tanto filo da torcere anche agli Stati Uniti.

 

 Il Corsaro ed i suoi compagni, sottrattisi all’assalto delle onde, si erano lasciati cadere dinanzi ad un gruppo di pini altissimi, di aspetto funebre, che si torcevano, gemendo lugubremente, sotto gli ultimi soffi dell’uragano.

 Erano così sfiniti da quella lunga lotta, durata più di quattro ore, da non potersi più reggere in piedi. Erano inoltre affamati e assetati, essendo rimasti quasi sempre immersi nell’acqua salata.

 «Mille tuoni!» esclamò Carmaux, che si tastava i fianchi per accertarsi che le sue costole non avevano ceduto. «Mi sembra ancora impossibile di essere vivo. Scampare prima alle cannonate, poi all’esplosione, quindi alla tempesta! È troppa fortuna in fede mia.»

 «Purchè non siamo al principio delle nostre tribolazioni!» disse Wan Stiller.

 «L’importante per ora è di essere giunti qui vivi e senza membra rotte, mio caro amburghese.»

 «E senz’armi, è vero?»

 «Io ho il mio coltello ed il capitano non ha perduta la sua misericordia.»

 «Anche noi abbiamo i nostri coltelli,» dissero l’amburghese ed il negro.

 «Allora non abbiamo più da tremare.»

 «Vedremo però cosa farai col tuo coltello quando incontreremo gl’indiani,» disse l’amburghese. «Sai che queste tribù hanno una passione spiccata per le costolette umane?»

 «Lo dici per spaventarmi?»

 «No, Carmaux. Mi hanno detto che è stato su queste spiagge che gl’indiani hanno mangiato il capitano Penna Bianca ed il suo equipaggio. Lo conoscevi tu?»

 «Per bacco! Un valoroso che non aveva paura nemmeno del diavolo!»

 «E che è finito sulla graticola come un rombo o come una bistecca.»

 «Allora bisogna cercare di tenerci lontani da quei messeri che non hanno rispetto per le polpe dei bianchi.»

 «E neanche di quelle dei negri,» disse l’amburghese, ridendo.

 «Lasciamo in pace gli indiani e andiamo a procurarci la colazione» aggiunse Carmaux.

 «Sotto questi alberi possiamo trovare forse qualche cosa. Compare sacco di carbone, vuoi che andiamo a vedere? Wan Stiller rimarrà intanto a guardia del capitano.»

 «Andiamo,» disse il negro, armandosi d’un grosso ramo d’albero privo di fronde.

 Mentre si preparavano a frugare la foresta che si estendeva dinanzi a loro, il Corsaro Nero era salito su d’una roccia che si elevava per una decina di metri e di là scrutava attentamente il mare, spingendo gli sguardi verso l’est. Senza dubbio cercava ancora di scoprire la sua nave che l’uragano aveva spinta nell’Atlantico; vana speranza però, poichè le onde ed il vento dovevano ormai averla trascinata molto lontana e forse di già fracassata in mezzo alle isole.

 «Veglia su di lui,» disse Carmaux all’amburghese. «Povero capitano! Temo che non rivedrà più mai la sua valorosa nave. Vieni, compare sacco di carbone. Se troveremo qualche orso lo accopperemo a legnate.

 Il filibustiere che non perdeva mai il suo buon umore, nemmeno nelle più gravi circostanze, si armò d’un nodoso randello e si cacciò risolutamente nella foresta seguito dal negro. Quella parte della Florida era coperta da pini maestosi, alti quaranta, cinquanta e talvolta perfino sessanta metri, con foglie grandissime, d’un verde pallido, lunghe più di mezzo metro e la corteccia del tronco bigia e lamellata.

 Queste piante, che sono innumerevoli nelle parti meridionali della Florida, crescono per lo più su terreni argillosi, bianchi, compatti ed impenetrabili all’acqua e coperti da strati di frutte già decomposte, accumulatesi da secoli e secoli e sui quali, camminando, si saltella e si rimbalza.

 Crescendo questi vegetali ad una certa distanza gli uni dagli altri, Carmaux ed il suo compagno non erano costretti a cercarsi i passaggi. Tutt’al più si vedevano costretti a scivolare in mezzo alle radici enormi che spuntavano da ogni parte, non trovando posto in quel suolo impenetrabile.

 Al di sotto di quei giganti non si vedevano nè cespugli, nè altre piante da fusto. Si estendevano solamente zone di un’erba dura ed amara, che le stesse capre rifiutano e che si chiama olgahola e strati di lenzie, specie di funghi bellissimi, lucenti, a riflessi argentei e madreperlacei, molto pericolosi a mangiarsi. Carmaux ed il suo compagno, dopo di essersi inoltrati nella foresta per tre o quattrocento metri, si erano arrestati per ascoltare.

 Sui più alti rami di quei giganteschi vegetali si vedevano volteggiare dei volatili e si udivano dei pispigli e dei trilli, ma sotto, nessun rumore e nessun animale.

 «Vedi nulla, compare sacco di carbone?» chiese Carmaux al negro.

 «Non vedo che degli scoiattoli volanti,» rispose il gigante, il quale osservava attentamente i tronchi dei pini. «Sono eccellenti ma troppo difficili a prendersi.»

 «Toh!» esclamò Carmaux. «Che in questo paese vi siano degli uccelli che volano non mi stupisce, ma degli scoiattoli che hanno le ali la mi pare grossa.»

 «Tu puoi vederli, compare. Guarda quel pino che si eleva sopra tutti gli altri. Non li vedi?»

 Carmaux guardò la pianta che il negro gl’indicava e dovette convenire che il compare sacco di carbone non aveva inventato assolutamente nulla. Fra i rami del gigantesco vegetale vi erano infatti numerosi scoiattoli, i quali si divertivano a fare delle vere volate sugli alberi vicini.

 Non erano più grossi dei topi comuni, colla pelle grigio-argentea sopra e bianca sotto, con orecchie piccolissime e nere, il muso roseo e la coda bellissima e molto folta. Quegli agili animaletti avevano sui fianchi una specie di membrana che si univa ai piedi posteriori e che aprendosi permetteva loro di spiccare dei salti di quaranta o cinquanta passi.

 Più che volare però pareva che guizzassero come i pesci.

 «Non ho mai veduto nulla di simile,» disse Carmaux, il quale seguiva, con stupore, quelle volate incredibili. «Peccato che non abbiamo un fucile.»

 «Rinunciamo a quella colazione, compare,» disse il negro. «Non è fatta per noi.»

 «Troveremo di meglio?»

 «Taci!»

 «Hai udito qualche orso?»

 «Il grido di un’aquila.»

 «Non saranno i nostri bastoni che l’accopperanno, compare.»

 «È il grido di un’aquila pescatrice, compare bianco.»

 «E che cosa vuoi concludere?»

 «Che troveremo nel nido la nostra colazione.»

 «Una frittata?»

 «E forse dei buoni pesci.»

 «E non ci caveranno gli occhi le tue aquile?»

 «Si aspetta che vadano a pescare. Vieni, compare, so dove hanno il nido.»

 Il negro che guardava in aria, spiando le cime dei pini, si mise a strisciare in mezzo alle radici che serpeggiavano in tutte le direzioni e andò a fermarsi dinanzi ad un’altissima pianta di specie diversa, che cresceva quasi isolata in mezzo ad una piccola radura.

 Era uno dei noci neri, piante queste che raggiungono delle dimensioni enormi, molto ricche di fronde e che producono una specie di mandorla di qualità mediocre. Danno un legno nero, pregiatissimo per costruzioni e ricercato dagli ebanisti.

 Su uno dei più grossi rami si vedeva una specie di palco che aveva una larghezza di sei piedi su una lunghezza di otto, formato con rami abilmente intrecciati e cogli interstizii chiusi da muschi e da foglie secche.

 Alla base dell’albero vi erano molti avanzi di pesci corrotti, i quali esalavano odori pestilenziali che facevano arricciare il naso al buon Carmaux.

 «È quello il nido delle tue aquile?» chiese questi al negro.

 «Sì,» rispose il gigante.

 «Non vedo i proprietarii.»

 «Ecco il maschio che arriva; ritorna dalla pesca.»

 Un volatile di dimensioni straordinarie volteggiava al disopra dei pini, descrivendo degli ampii giri che a poco a poco si ristringevano.

 Era un’aquila che misurava almeno tre metri in lunghezza e le cui ali spiegate toccavano insieme i sette e fors’anche gli otto.

 Aveva il dorso nero e la testa e la coda bianca e mostrava delle unghie poderose. Fra il becco teneva un grosso pesce ancora vivo, poichè lo si vedeva dibattersi e contorcersi disperatamente.

 «Che uccellaccio!» esclamò Carmaux.

 «E molto pericoloso,» aggiunse il negro. «Le aquile pescatrici non hanno paura degli uomini e li assalgono intrepidamente.»

 «Non vorrei far conoscenza con quel becco, compare sacco di carbone.»

 «Aspetteremo che il volatile se ne sia andato.»

 «Che abbia i piccini nel nido?»

 «Sì,» rispose il negro. «Non vedi qui questi gusci d’uovo color del caffè?»

 «E d’una bella grossezza anche.»

 «Questi gusci indicano che i piccoli sono nati.»

 L’aquila dopo d’aver volteggiato qualche po’ sopra i pini, come se avesse voluto accertarsi che non vi erano nemici nei dintorni, era calata sul nido. Il negro, che ascoltava attentamente, udì in alto delle grida roche indicanti la presenza degli aquilotti. Il maschio aveva abbandonato loro la preda ed i piccoli facevano festa al genitore.

 «Preparati a scalare l’albero,» disse a Carmaux. «Se tardiamo non troveremo più nulla di quel bel pesce.»

 L’aquila era tornata ad alzarsi. Girò ancora qualche po’ sopra l’albero, poi partì velocemente in direzione del mare.

 I due filibustieri con un salto s’aggrapparono ai rami inferiori della pianta, poi aiutandosi l’un l’altro, raggiunsero rapidamente il nido. Quella piattaforma, costruita così robustamente da poter reggere anche un uomo senza pericolo che si sfondasse, era piena di avanzi di pesci e di penne ed era occupata da due aquilotti grossi già quanto due bei capponi. In mezzo a quegli avanzi, oltre il pesce appena abbandonato dal maschio, ve n’erano altri due della specie delle palamite, pesanti alcuni chilogrammi.

 I due piccoli vedendo apparire il negro si erano slanciati coraggiosamente verso di lui gridando e cercando di colpirlo negli occhi, ma Moko non si era dato subito gran pensiero di loro. Consegnò a Carmaux i pesci, dicendogli:

 «Scendi subito, possiamo venire sorpresi.»

 Stava per accoppare con due pugni gli aquilotti, quando vide una grand’ombra proiettarsi sul nido, quindi udì un grido furioso.

 Alzò gli occhi e vide piombarsi addosso un’aquila di dimensioni maggiori della prima. Era la femmina, la quale forse vegliava sulla cima di qualche pino, mentre il maschio erasi recato alla pesca.

 «Compare!» gridò, estraendo rapidamente il coltello. «Lascia andare i pesci e seguimi.»

 Abbandonò il nido e si lasciò scivolare fino alla biforcazione dei rami, onde appoggiarsi al tronco e non correre il pericolo di venire gettato giù da qualche colpo d’ala. Carmaux l’aveva prontamente seguito dopo d’aver gettati i pesci a terra.

 L’aquila si era scagliata contro l’albero tentando di passare fra i rami e di gettarsi addosso ai due filibustieri. La smisurata lunghezza delle sue ali non glielo permetteva troppo facilmente. Gridava forte, arruffava le penne e batteva vivamente il lungo becco giallastro e uncinato.

 Carmaux e Moko vibravano colpi di coltello alla cieca, cercando di aprirgli il petto o di troncarle un’ala.

 L’uccellaccio, visto che non poteva assalirli di fronte, girò attorno all’albero e trovato un varco fra i rami, vi si cacciò dentro aggrappandosi disperatamente al tronco: con un colpo di becco lacerò la giubba di Carmaux e con un colpo d’ala per poco non precipitò a terra il negro.

 «Addosso, compare!» gridò Carmaux, il quale si era riparato prontamente dietro un ramo.

 Appoggiandosi solidamente al tronco, il negro colla sinistra afferrò l’inferocito volatile per un’ala e coll’altra le vibrò una coltellata ferendolo in mezzo al petto.

 Stava per replicare il colpo, quando l’aquila con una scossa disperata si liberò dalla stretta, inalzandosi fino al nido.

 Delle gocce di sangue cadevano attraverso le fessure della piattaforma, scorrendo lungo il tronco dell’albero.

 «Fuggiamo!» gridò Moko. «Il maschio sta forse per arrivare.»

 «Ed io non ho alcun desiderio d’incontrarlo,» disse Carmaux.

 Aggrappandosi ai rami, il bianco ed il negro toccarono il suolo senza essere stati oltre disturbati dall’aquila, la quale gridava a piena gola per attirare l’attenzione del compagno.

 Raccolti i pesci se la diedero a gambe, cacciandosi nella parte più folta della pineta e nascondendosi in mezzo ad un folto cespuglio.

 «Dannati uccellacci!» esclamò Carmaux, asciugandosi il sudore che gli bagnava la fronte. – Non avrei mai creduto che due uomini come noi dovessero fuggire dinanzi a loro.

 «Ora basta, torniamo al campo.»

 «Sì, ma facciamo il giro della spiaggia per provvederci di molluschi.»

 «Andiamo pure, compare.»

 Erano appena usciti dal cespuglio, quando il negro si fermò esclamando allegramente: «Compare, avremo anche le frutta!»

 «Perdinci!» esclamò Carmaux. «Ma tu hai degli occhi d’aquila. Un po’ che andiamo innanzi tu sei capace di scoprire anche dei biscotti.»

 «Se non dei veri biscotti possiamo trovare qualche cosa che li surroghi.»

 «Dove sono queste tue frutta?»

 «Guarda quell’albero.»

 Sul margine della pineta sorgeva un gruppo di arbusti che parevano appartenere alla famiglia delle magnolie, i cui rami portavano degli splendidi fiori purpurei a riflessi nerastri, foggiati a coppa, molto grandi e nel cui interno si vedevano mazzetti di frutta grosse come cetriuoli.

 Erano delle enormi grandiflore, piante che crescono in gran numero nelle terre umide della Florida meridionale e le cui frutta, refrigeranti e di gusto discreto, sono ricercate dagli indiani.

 «Sono quelle le frutta che prometti?» chiese Carmaux.

 «Sì, compare.»

 «Andiamo a farne raccolta.»

 Diedero il sacco agli arbusti e, fatta un’ampia provvista di quei cetriuoli, uscirono dalla foresta avanzandosi lungo il lido. Carmaux, che oltre ad essere affamato era anche molto assetato, succhiava avidamente le frutta, pure confessando che se erano ricche d’acqua non avevano molto sapore.

 Il mare a poco a poco s’era calmato. Solamente di quando in quando una grossa ondata veniva a rompersi, con molto fragore, contro la spiaggia spruzzando di spuma perfino gli ultimi alberi della foresta.

 In mezzo a quei cavalloni si vedevano apparire e scomparire numerosi rottami, avanzi della misera fregata fatta scoppiare dal duca. Vi erano pezzi di pennoni, di fasciame, di murate, di puntali, e di corbetti. Non si scorgevano però nè barili nè casse.

 «Tutti rottami inutili,» disse Carmaux, che si era fermato ad osservarli. «Vi fosse almeno qualche barile di biscotti o di carne salata!»

 «Andiamo, compare,» disse il negro. «Vedo Wan Stiller ed il padrone ritti sullo scoglio: aspettano la nostra colazione.»

 Si rimisero in cammino seguendo la spiaggia sabbiosa, cosparsa di alghe strappate dal fondo del mare dalle ondate.

 Già non distavano che poche centinaia di passi dall’accampamento, quando tutto d’un tratto videro dinanzi a loro la sabbia muoversi, poi gonfiarsi, quindi aprirsi lasciando il passo ad un’orribile bestia la quale si avventò contro di loro mandando un muggito spaventevole.

 Carmaux era stato rovesciato al suolo, mentre il negro aveva avuto il tempo di balzare indietro, urlando:

 «Guardati, compare!… È un diavolo di mare!»

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