Il tradimento dei naufraghi

Gli urangs-utangs o meias o maias come li chiamano i dayachi, sono le scimmie più formidabili che abitano le grandi isole della Sonda.

Non hanno la statura straordinaria dei gorilla africani, sono ordinariamente alti non più d’un metro e mezzo ma le loro braccia sono davvero spaventose, toccando perfino i due metri.

La faccia di quei quadrumani è larga, il petto poderoso, il collo lo hanno corto e rugoso, perché provvisto d’un sacco d’aria che permette loro di mandare dei veri ruggiti che risuonano sinistramente nelle foreste.

Per lo più hanno un pelame rosso-ruggine, arruffato, ed abitano le grandi foreste non abitate dagli uomini, situate nelle bassure umide della foce deigrandi fiumi; e sono così robusti, che nessun animale potrebbe lottare con loro.

Anche assalito da un sauriano, il meias salta rapidamente addosso all’avversario e puntandogli un ginocchio sulle spalle gli strappa d’un colpo solo la mascella.

Non si sa che vi siano stati combattimenti di urangs con pantere o con animali di maggiori proporzioni. Probabilmente sapendosi ben decisi a vendere cara la pelle, si evitano a vicenda con quella certa cura che il leone africano mette nel tenersi lontano dai gorilla, dai quali potrebbe avere in pochi istanti tutte le costole fracassate, poiché quei terribili figli delle selve vanno sovente armati di poderosi randelli che sanno maneggiare con precisione e con forza spaventosa.

L’indiano ed il portoghese, certi ormai di non correre più alcun pericolo, dopo la caduta del maschio, con un agile volteggio erano saliti sulla larga e solida piattaforma, formata di grossissimi rami gettati attraverso a delle biforcazioni.

Un vagito era giunto subito agli orecchi dei violatori del nido.

Yanez con un ultimo slancio piombò su uno scimmiotto, non più alto di mezzo metro, ma che si era subito messo in guardia per contrastargli il passo.

– Che cosa vuoi, macaco? – chiese il portoghese. – Lottare con noi? –

Estrasse le sue pistole, le scaricò nel petto del piccolo urang; poi rimosse ansiosamente un ammasso di foglie secche sotto le quali si vedevano apparire delle vesti bianche.

– Signora Lucy! – gridò Yanez, chinandosi verso la bella olandese e sbarazzandola da tutto ciò che la copriva. – Siete ferita?

– No, milord, ma un ritardo sarebbe stato per me fatale, perché quell’enorme scimmia non staccava un solo istante i suoi occhietti neri e brillanti da me.

Ho provato delle angosce terribili, milord. Il mio timore era che quegli urangs si precipitassero brutalmente su di me e mi scaraventassero attraverso la macchia.

– Ed erano capaci di farlo, signora, – rispose Yanez. – Sono bestie maligne, che fanno più paura delle pantere e delle tigri.

– Una carezza fatta al piccolo urang, che voi avete or ora ammazzato, deve avermi salvata la vita, poiché la femmina già stava per scagliarsi su di me.

Il piccolo mostro mi si era pure gettato addosso, tentando di strapparmi i capelli e le vesti, ma non osai reagire. Anzi accarezzai il muso dello scimmiotto, placando così di colpo la madre, la quale un momento prima, come ho detto, pareva ben disposta ad afferrarmi e scaraventarmi nel vuoto.

– Una manovra molto facile – disse Yanez – per delle bestie che posseggono muscoli d’acciaio.

– E gli altri dove sono, milord?

– Cacciano per loro conto – rispose il portoghese – se pure non sono tutti fuggiti.

Io non odo più alcun colpo di fuoco.

– Signor Yanez, – disse l’indiano – senza aiuti non potremo calare la signora.

– Vediamo se rispondono, innanzi tutto, – rispose il portoghese. – Aveva armata la carabina e l’aveva puntata in alto.

Risonò un primo colpo, poi, dopo un breve intervallo, un altro.

L’indiano aveva fatto altrettanto, cercando di misurare più o meno matematicamente il tempo.

Erano trascorsi dieci minuti, quando degli urli spaventevoli s’alzarono attraverso la macchia, accompagnati da varie scariche di fucile.

Pareva che una meteora si fosse rovesciata verso quella parte della foresta ed era veramente una meteora, poiché se il cielo era tutt’altro che minaccioso, si vedevano gli alberi sradicati di colpo come durante i più terribili cicloni e travolti al suolo come fuscelli.

Lucy, Yanez e Kammamuri erano balzati in piedi, caricando precipitosamente le armi.

– Questa è una fuga di elefanti selvatici- disse Yanez, il quale se ne stava presso l’orlo del nido. – I battitori del Sultano devono averne scoperto qualche grossa truppa ed ora le dànno la caccia.

Non vi muovete, signora, poiché v’è più probabilità di prenderci qualche palla di fucile o qualche tronco sulla testa giù sotto di noi che quassù.

Noi possiamo considerarci come in una piccola fortezza che nessun elefante sarà capace di prendere d’assalto. –

Un urto terribile avveniva sotto la macchia in quel momento, con un fragore assordante.

Si udivano continuamente voci umane, poi barriti di elefanti e sibili di palle tirate a casaccio.

Pareva che tutta la foresta ondeggiasse sotto una improvvisa convulsione.

Gli alberi, investiti dalle enormi masse lanciate a corsa sfrenata, cadevano al suolo sradicati, come se una immensa falce li avesse percossi alla base.

– Che carica! – disse Kammamuri. – Sono diventati da un istante all’altro, questi selvaggi, dei grandi cacciatori?

Che slancio!…

– Bada alla tua testa, amico, – consigliò Yanez. – Non odi come fischiano le palle?

– E sento anche i pezzi di piombo fra i tronchi del nido, signore.

– Fortunatamente questi hanno uno spessore tale da metterci completamente al coperto. –

La carica continuava sempre più tremenda, sotto la foresta. I bornesi spaventavano i pachidermi con fuochi d’artifizio e con fuochi a salve, costringendoli a dirigersi là dove il capo dei battitori aveva preparata la grande trappola, poiché quelle cacce si fanno sempre in grande.

Quando un Sultano desidera procurarsi degli elefanti, fa mandare i suoi battitori nella grande foresta, accompagnati da parecchi pachidermi ammansati.

Sono le femmine che si prestano a questo tradimento, poiché i maschi si azzufferebbero terribilmente, facendo crollare i pali che formano la prigione, la quale viene mascherata da un gran numero di piante alzate lì per lì.

Per fare quelle battute occorre uno spazio immenso ed occorrono pure molti uomini i quali devono, prima di tutto, piantare profondamente nel suolo dei tronchi d’albero così fitti, che i grossi pachidermi non possano passare.

Una volta che la truppa, spaventata dai cacciatori, si getta dentro la trappola, ha poche speranze di uscita, poiché le mal fide femmine, con richiami e con carezze ed anche, all’occorrenza, con dei buoni colpi di proboscide, la conducono direttamente dentro, come se provassero una gioia feroce a privare della libertà degli animali che fino a quel giorno scorrazzavano le foreste.

Dietro ogni tronco d’albero si cela un uomo, armato d’un laccio formato di robustissime fibre di gomuti per incatenare i piedi ai prigionieri se si rivoltassero.

– Pare che la caccia stia per finire – disse Kammamuri a Yanez. – Se discendessimo?

– Per pigliare qualche palla di rimbalzo? I sudditi del Sultano non fanno economia di munizioni e sparano come coscritti mal pratici.

– Anche quassù, signor Yanez, i proiettili non cessano di fischiare.

– Gettati col ventre contro il nido – rispose il portoghese, e dopo un momento soggiunse: – Eppure mi viene un sospetto.

– Quale, signor Yanez?

– Che fra i battitori del Sultano vi siano anche dei naufraghi del vapore, poiché il fuoco continua in modo inquietante, mentre non vi sono più da uccidere né urangs e tanto meno elefanti.

– Che si siano infiltrati anche fra il seguito del Sultano? – chiese la bella olandese.

– Scommetterei una palla di fucile contro un diamante del valore di duemila fiorini.

Udite questi colpi di fuoco che sono proprio diretti verso di noi?

Qui sotto vi è la zampa di quel dannato John Foster, lo giurerei.

– Che voglia la vostra pelle?

– Parrebbe, signora Lucy: sono già due volte che tenta togliermi la vita, ma spero di essere ancora buono a difenderla contro quel cattivo lupo di mare. –

In quel momento tre palle di fucile fischiarono agli orecchi del portoghese, costringendolo a gettarsi precipitosamente nel fondo del nido.

– È proprio contro di noi che fanno fuoco, signor Yanez – disse l’indiano, il quale si guardava bene di mostrarsi, per non ricevere un proiettile nella testa. – È quassù che sparano e non contro gli elefanti.

– Lasciamoli fare, per ora. A nostra volta ci prenderemo una rivincita.

Finché quel John Foster non se ne sarà andato, noi saremo esposti ad un continuo pericolo.

– E dàgli coi colpi di fucile! – disse Kammamuri. – Che i naufraghi abbiano vuotata la polveriera del vapore per sprecare tanti proiettili?

– Bada alla tua testa, invece.

– Non corre nessun pericolo, signor Yanez, anche perché quei marinai sparano come uomini che hanno impugnato per la prima volta le armi.

E se provassimo a rispondere anche noi, signor Yanez? Giacché ci assalgono, difendiamoci.

Siamo nel nostro diritto.

– Lascia fare a me, Kammamuri: la prima palla la voglio collocare a posto come m’intendo io. –

Intanto aveva attraversato il nido carponi, tenendo la carabina nascosta sotto la casacca.

La foresta era sempre in convulsione. Gli elefanti, spaventati dai fragori assordanti prodotti da centinaia e centinaia di tam tam percossi furiosamente, continuavano a galoppare in fuga spaventevole.

Alberi, cespugli, tutto andava all’aria come falciati da una banda di titani, e gli scricchiolii sempre più impressionanti si confondevano con barriti formidabili.

Pareva che sotto la macchia fosse avvenuto uno scontro fra gli elefanti selvaggi che continuavano le loro corse precipitose ed i battitori, i quali rispondevano con dei colpi di fuoco.

Ad un tratto il durion su cui si trovava collocato il nido degli urangs subì una scossa così forte, da fare stramazzare l’uno sull’altro la bella olandese, Kammamuri e Yanez.

Si era udito uno schianto terribile, come se la gigantesca pianta avesse ceduto contro i continui assalti di quelle enormi masse di carne, che si scagliavano attraverso il bosco cercando di aprirsi un passaggio e di evitare la trappola che li aspettava nella parte più fitta già precedentemente preparata dai battitori.

– L’albero cade! – gridò Kammamuri.

– Che nessuno abbandoni il nido, – ordinò Yanez. – Ci potrà essere ancora utile.

Un nuovo urto aveva sradicata la pianta, la quale s’inchinava lentamente, traendo seco molte altre piante.

– Non sparare, Kammamuri, – aveva detto Yanez. – Conserviamo i nostri colpi per quando saremo a terra.

Qui ci hanno preparato un tradimento, e si cerca di farci cadere senza combattimento.

Fortunatamente non ci hanno ancora nelle loro mani.

– Credete che sia un tiro dei naufraghi? – chiese Kammamuri.

– Ormai ne sono convinto.

– Eppure non ne ho veduti nel campo del Sultano.

– Si saranno guardati bene dal mostrarsi – rispose Yanez.

– Invece io qualcuno ne ho veduto – disse la bella olandese. – L’ho sorpreso due sere or sono mentre discuteva animatamente col Sultano.

– Non ci mancavano che quei pesci-cani d’acqua dolce! Ne abbiamo perfino troppi dei fastidi sulle spalle ed eccone un altro che giunge.

Fortunatamente ho sottomano dodici uomini che non si terranno quando io dirò loro di dare addosso ai rajaputi del Sultano.

Ohé!… Tenetevi fermi!… Si cade! –

Il durion continuava infatti ad inclinarsi verso il suolo, seco trascinando degli ammassi enormi di rotangs e di gomuti, fra i quali si dibattevano disperatamente alcune di quelle brutte scimmie bornesi chiamate nasi-lunghi, perché hanno un’appendice rossa, screpolata, come se vivessero esclusivamente di liquori inebrianti.

Yanez aveva cinto alla vita la bella olandese e la teneva appoggiata all’orlo del nido degli urangs, il quale poteva servire per attutire in qualche modo il colpo.

L’albero si andava abbassando sempre più, ma senza scosse, perché gli elefanti dovevano essere stati cacciati nella trappola, non udendosi più che dei barriti lontani.

A una ventina di metri dal suolo l’albero ebbe una prima sosta, poi riprese a cadere, quantunque fosse trattenuto da un vero ammasso di piante parassite.

– Vedi nessuno sotto di noi? – chiese Yanez a Kammamuri, il quale aveva fatto un brusco movimento come se cercasse di scoprire qualche persona.

– Sì, signor Yanez, – rispose l’indiano. – Ho scorto delle ombre umane raccolte intorno al tronco d’una pianta.

– Che siano i naufraghi?

– Ne ho il sospetto. –

Yanez, quantunque avesse coraggio da vendere, si passò una mano sulla fronte e guardò con inquietudine la bella olandese, la quale invece conservava sempre la sua calma meravigliosa.

– Prendete le mie pistole, signora, – le disse – e non badate a uccidere. Se quelle canaglie ci prendono, ci faranno passare un terribile quarto d’ora.

– Grazie, milord, – rispose Lucy. – So adoperare questi gingilli. –

In quel momento il durion, dopo aver fracassato col suo peso enorme un gruppo di sagu e di palme, fece una nuova discesa, appoggiando i rami al suolo.

Una voce furiosa si alzò subito:

– Ah, birbanti! Finalmente vi abbiamo presi! –

Un’ombra umana si era slanciata in mezzo alla radura, dove il durion si appoggiava, e tendeva minacciosamente il fucile.

– Ehi, compare, – disse Yanez, tentando di scherzare. – È con noi che l’avete?

– Certo: sono diversi giorni che aspettiamo pazientemente l’occasione di vendicare il vostro infame atto di pirateria ed anche il colpo dato a John Foster.

– È vivo ancora il comandante? – chiese il portoghese, il quale cercava di guadagnare tempo colla speranza che qualcuno giungesse.

– Ah, canaglia! – urlò il marinaio, cercando di avanzarsi fra i forti rami del durion. – Hai ancora voglia di scherzare? Aspetta di cadere nelle nostre mani, e ti leveremo per sempre la voglia di ridere delle disgrazie degli altri.

– Intanto, alto là o faccio fuoco! – gridò Yanez, il quale si teneva sempre dietro al parapetto del nido degli urangs, coricato a fianco della bella olandese.

– Fate fuoco?… Osereste darci battaglia?

– Sono sempre vissuto fra le battaglie – rispose Yanez colla sua solita voce ironica. – Io non posso vivere se non fra i colpi di fucile.

– Camerati! – gridò il marinaio, tentando di farsi più avanti. – Prendiamo questi pirati, e giacché qui non c’è quell’imbecille di Sultano, appicchiamoli subito.

Toddy, dammi la tua corda. –

Un altro uomo armato di fucile si era avanzato, agitando una funicella.

– A te prima, allora! – gridò Yanez, facendo rapidamente fuoco.

Toddy cadde colle braccia allargate, senza mandare un grido. Una palla lo aveva fulminato.

Alcuni spari rimbombarono qualche istante dopo. Un gruppo d’uomini, poco numeroso fortunatamente, rispondeva all’aggressione, quantunque si trovasse impacciato da una vegetazione così fitta, che non permetteva loro di prendere la mira.

– Da’ dentro, Kammamuri, – disse Yanez all’indiano. – Qui giochiamo ben altro che l’isola di Mompracem. –

Il maharatto, il quale si teneva prudentemente dietro un enorme ramo, lasciò partire due colpi i quali furono seguiti da un alto vociare e da uno scrosciare di foglie secche.

Gli assalitori, sapendo d’aver da fare con uomini risoluti e benissimo armati, per il momento avevano rinunciato alla lotta, salvandosi nel folto della macchia.

– Avrei preferito che si spingessero all’assalto – disse il portoghese. – La nostra situazione peraltro è abbastanza buona ed i rami ci accordano larga protezione.

Signora Lucy non alzate la testa se vi preme la vita, poiché non è solamente con noi che l’hanno quei ribaldi. –

La voce del marinaio tornò ad echeggiare preceduta da una lunga sequela di bestemmie:

– Vi arrendete sì o no? Abbiamo fretta, per la morte di Saturno!

– E noi, nessuna – rispose il portoghese, il quale cercava di scoprire qualcuno degli assalitori per mandarlo a tener compagnia a quello che aveva già attraversato lo Stige.

– Siamo ancora in quattro e non so come potreste resistere ad un nostro abbordaggio.

– E noi siamo in venti – rispose il portoghese.

– Mentite, perché vi abbiamo seguiti passo passo da Varauni fino a qui e non possedete che tre bocche da fuoco.

– Più terribili delle tue.

– Ah, basta, basta, signor mio!… Abbiamo chiacchierato abbastanza.

Abbiate la bontà di lasciare il vostro rifugio e di farvi stringere al collo una solida funicella.

– Vieni a stringerla, dunque. –

Due colpi di fucile, che andarono a vuoto fra la moltitudine di rami e di piante parassite, rimbombarono subito dopo, accompagnati da minacce feroci.

– Amici, – disse Yanez al maharatto ed alla signora olandese – non rispondete che a colpo sicuro, per conservare fino all’ultimo momento le nostre cariche.

Quei ribaldi tendono a farci esaurire le munizioni.

– Dove si saranno cacciati gli uomini del Sultano? – si chiese con angoscia l’indiano. – E la nostra scorta? Ah, se fosse qui, questi uomini sarebbero a quest’ora tutti fuori di combattimento.

– Ehi, Kammamuri, – disse Yanez – non sognare l’India misteriosa coi suoi misteriosi idoli, e occupa il tuo tempo a decimare quei ribaldi prima che giungano sotto e ci prendano.

– Pare che non abbiano alcuna premura di avanzare, signor Yanez, – rispose l’indiano.

– Puoi dire invece che non hanno premura di far fagotto per l’altro mondo.

Ormai sanno che le nostre palle non vanno perdute.

– Se andassimo a scovarli?

– Sono in quattro e non hanno voglia di fare una brutta figura in questo momento, sapendo ormai che la nostra polvere non la bruciamo come coscritti inesperti.

– Eppure ritorno sempre alla mia prima idea, signor Yanez, – disse Kammamuri. – Questo assedio può continuare delle settimane. Volete occuparvi per cinque minuti della signora Lucy?

– Che cosa vuoi fare?

– Vado a fucilare quei mascalzoni – rispose risolutamente l’indiano. – Datemi le vostre pistole e vedrete come li farò urlare.

– E le palle non le conti?

– Al mio paese si combatte sotto il fuoco con dei semplici fastelli di legna – disse Kammamuri.

– E non muoiono al tuo paese?

– Ma che! Basta saper eseguire a tempo il salto della pantera.

– Un giuoco che io non ho mai fatto, ma che stimerei pericolosissimo, mio caro Kammamuri, almeno per chi non conoscesse a fondo questo paese.

– Fate invece come me, signor Yanez, e vedrete che daremo non poco da fare a quei traditori – rispose Kammamuri.

Si era messo a rompere dei rami, formando dei grossi fastelli, composti per la maggior parte di piante resinose.

– Volete venire, signor Yanez? – chiese l’indiano.

– Provochiamo prima una scarica, amico, così ci rimarranno da fare meno salti della pantera. –

Appoggiò la sua carabina su una spalla dell’indiano e, dopo di avergli raccomandata la massima immobilità, lasciò partire due colpi in direzione dell’albero sotto il quale si celavano i naufraghi.

Quattro spari risposero quasi subito e delle palle si cacciarono crepitando, fra i tronchi che formavano il nido degli urangs, sibilando agli orecchi degli assediati.

– Sparate anche voi, signora, – disse Yanez alla bella olandese, la quale aveva già impugnate le pistole indiane.

La flemmatica donna si accomodò prima sul parapetto del nido per non esporsi troppo al tiro dei traditori, poi fece fuoco.

Nello stesso tempo Kammamuri dava fuoco al suo fastello formato di rami resinosi e lo lanciava destramente verso l’albero. Una grande fiammata si alzò, mostrando al portoghese, sempre in agguato, quattro individui che si tenevano raggruppati al piede d’un gigantesco pombo.

– Ecco il giorno! – mormorò Yanez, imbracciando la carabina. – Con questa luce si potrebbero far cadere a uno a uno.

È meglio affrontare gli elefanti selvatici delle grandi foreste, che quegli esseri umani che nascondono un cuore da tigre. –

Il portoghese parlava, ma agiva anche, perché approfittando subito di quella luce, fece nuovamente fuoco, e fu imitato dalla bella olandese e dall’indiano.

Degli uomini, dopo d’aver risposto al fuoco, erano caduti dinanzi al gigantesco albero, esponendosi al pericolo di venire arrostiti, poiché le foglie secche avevano preso fuoco insieme coi ricchi e resinosi festoni di giunta-wan, che calavano giù lungo l’enorme pianta.

– A terra! – gridò Yanez, vedendo che i bricconi scappavano come lepri. – Diamo loro la caccia e cerchiamo di raggiungere la nostra scorta.

Stava per abbandonare il nido degli urangs, quando un fischio giunse ai suoi orecchi, modulato su diversi toni.

– Mati! – esclamò. – Siamo salvi! –

Poi lanciò una sequela d’imprecazioni.

– Mati, qui! – riprese. – Perché hai abbandonato il mio yacht? Presagisco qualche sventura.

Si mise due dita in bocca e rispose al segnale.

Un momento dopo il mastro dello yacht, accompagnato da una scorta di dodici uomini, usciva dalla macchia e si avanzava verso il gigantesco durion.

Yanez si era già lasciato cadere a terra, mentre Kammamuri aiutava la bella olandese.

– Tu, Mati! – esclamò facendo un gesto di stupore. – Che cosa vieni a fare qui?

– A salvare il mio signore – rispose il mastro dello yacht.

– Che cos’è dunque accaduto durante la mia assenza?

– Delle cose gravissime, signor Yanez. Qui si prepara un doppio agguato, uno nella baia contro il nostro yacht ed un altro in queste foreste.

– Spiègati meglio, Mati.

– Il capo del kampong cinese, che è venuto a ritirare, a vostro nome, uno stock d’armi, mi aveva avvertito che si sarebbe cercato di uccidervi durante le grandi cacce.

– Da parte dei naufraghi; è vero?

– Sì, signor Yanez.

– Ed il mio yacht chi lo comanda?

– Padar.

– Nessuno lo minaccia?

– Non lo so, signore, poiché l’altra mattina giunsero nella baia tre cannoniere, due inglesi ed una olandese, ed affondarono le loro àncore in modo da chiudere il passo.

– Sono diventati tutti pazzi a Varauni, durante la mia assenza! – esclamò Yanez.

– Lo credo un po’, signore, perché i nostri equipaggi non possono più scendere sulle calate senza essere disturbati da bande di malesi piombate non si sa da dove.

– Hanno assalito i miei uomini?

– Non ancora, ma credo che non tarderanno a farlo. Il Sultano vi abbandona alla vostra sorte e non interverrà di certo nei vostri affari, signor Yanez.

– Che cosa mi consigli di fare?

– Di rimanere qui, capitano, – disse un marinaio dello yacht, che giungeva in quel momento sudato ed infangato fino ai capelli.

– Anche tu qui! – esclamò Yanez. – Rechi qualche grave notizia tu pure?

– Sì. Da ieri mattina il vostro yacht è stato sequestrato per ordine dei comandanti delle cannoniere – rispose il marinaio.

– Crolla dunque tutto intorno a noi? Dopo aver tanto lavorato, vedremo svanire questo bel sogno! Che cosa fare ora?

– Vi consiglio anch’io di rimanere in questi luoghi fino all’arrivo delle bande di Sandokan – disse Mati.

– A Varauni sareste meno sicuro – aggiunse l’altro.

– E Padar che cosa ha fatto?

Non ha protestato contro il sequestro del mio yacht?

– Dite anche del piccolo veliero, che è stato pure messo in quarantena.

Egli ha fatto coprire i ponti colla bandiera inglese, dopo aver avvertito che qualunque persona fosse salita a bordo, sarebbe stata gettata in mare.

– Non v’era altro da fare! – mormorò Yanez. – O impegnare la lotta in condizioni disastrose o, per il momento, cedere.

Andiamo a trovare il Sultano.

– Guardatevi da lui, signor Yanez, – disse Mati – poiché il cinese mi ha avvertito che si tenterebbe di farvi la pelle. –

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