La stanza da letto dell’elefante

Quantunque l’isola del Borneo sia piuttosto scarsa di elefanti e abbondi invece in modo straordinario di carnivori, tuttavia la battuta organizzata dal seguito del Sultano aveva ottenuto risultati grandiosi.

Un grosso drappello di elefanti, che scendeva dalle Montagne del Cristallo, era stato sorpreso a tempo, un po’ prima della caccia delle pantere, ed i poveri pachidermi, spaventati da colpi di fuoco, e da palle di canapa imbevute di resina, si erano diretti a poco a poco verso l’agguato precedentemente allestito, in piena foresta.

Per intraprendere simili cacce occorrono molte persone e molto spazio, poiché si tratta di chiudere i malcapitati bestioni dentro una enorme gabbia formata da due ordini di pali non più alti di un uomo.

Appena dentro, degli agili mahut si cacciano fra le zampe dei colossi e con un coraggio che rasenta la follia gettano loro dei lacci. Ogni volta che si intraprende una simile caccia molti uomini ci lasciano la pelle, ma in quei paesi non ci si bada, non avendo la vita umana quasi nessun valore.

Durante la battuta i pachidermi resi furiosi dai colpi di fuoco e dai gongs che venivano percossi furiosamente, avevano fatto parecchie corse furiose attraverso la foresta, prima di lasciarsi incanalare fra i pali, che dovevano condurli alla grande gabbia.

Molti erano riusciti a prendere il largo, ma una trentina, tutti belli e vigorosi, dopo essersi inutilmente spossati contro le piante, abbattendone moltissime, avevano dovuto lasciarsi imprigionare nella grande trappola. E da questa non sarebbero usciti che dopo essere stati bene ammansati dai cornacs e da una mezza dozzina di elefantesse, le quali si prestano assai volentieri a calmare i più riottosi, percuotendoli a gran colpi di proboscide ed anche atterrandoli.

Il Sultano, avvertito del felice esito della gigantesca caccia, aveva piantato le pantere, senza più occuparsi del suo milord, ed aveva raggiunto alla lesta il suo campo.

Sotto una vasta e comoda tenda finalmente Yanez riuscì a scovarlo fra quel pandemonio di battitori, di cortigiani, di rajaputi e bajadere le quali urlavano a squarciagola non meno degli uomini.

Vedendolo comparire dinanzi con quella nuova scorta, il Sultano si era alzato, movendogli incontro.

– Ah, milord! – esclamò. – Di dove venite voi? Spero che avrete la pelle delle due pantere nere che vi siete lasciato fuggire.

– Ho ucciso qualche cosa di meglio, Altezza – rispose Yanez asciuttamente.

– Se volete la pelle di due urangs mandate i vostri scikari nella macchia vicina a quella dove noi cacciavamo.

– To’! Ed io che credevo che voi, milord, vedendo gli elefanti rovesciarsi attraverso la foresta, foste corso a rifugiarvi in qualche luogo sicuro.

Siete sempre un tiratore meraviglioso.

– Riparleremo più tardi delle cacce, Altezza, se credete: io sono venuto qui per chiedervi delle spiegazioni.

– Non sareste più il mio buon milord? – disse il Sultano con una sottile punta d’ironia.

– Anzi lo sarò sempre, avendo ricevuto incarico dal mio paese di proteggervi con tutte le mie forze contro i nemici interni ed esterni. –

Selim-Bargasci-Amparlang, colpito dalla gravità di quelle parole aveva fatto un gesto di stupore.

– Sì, Altezza, – rispose il portoghese – mentre io cerco di difendervi, voi nascondete nel vostro accampamento dei sicari, che per poco non hanno ucciso me e la signora olandese.

– Che i pirati siano giunti fino qui? Io non ho veduto intorno a me che della gente appartenente alla mia corte e ben conosciuta.

– Eppure, Altezza, è proprio un miracolo se sono sfuggito ai colpi di fucile di quegli uomini che si tenevano imboscati sull’orlo della macchia battuta dalle pantere.

– E non sapete dirmi chi sono quei birbanti che osano sparare contro un ambasciatore inglese per crearmi più tardi mille grattacapi?

– Se non m’inganno, sono quei tali che continuano a gridare ai quattro venti che sono stati colati a fondo da me.

– Cominciano a diventare noiosi quei signori e vi lascio carta bianca di fucilarli come cani, in qualunque luogo li troviate.

Io son pronto a proteggervi, milord.

– Sapete che cosa è successo alla baia?

– I miei corrieri quando cacciano lasciano da parte gli avvenimenti anche più importanti, per correre dietro ad un semplice babirussa.

Quali nuove avete dunque ricevuto, milord?

– Che il mio yacht è stato sequestrato.

– Da parte di chi? – domandò Sadi Bargasci, alzando la voce e lanciando uno sguardo minaccioso sui suoi ministri.

– Dall’uomo che da mesi e mesi va gridando a tutti i venti che io ho affondato la sua nave.

– Ed ha osato tanto? Chi lo ha aiutato nell’impresa?

– Alcune cannoniere che pare siano venute da Labuan.

– Si ignora dunque che solamente io comando sulle acque della mia baia e che nessuno può intraprendere alcuna impresa senza il mio permesso?

– Pare che sia così, Altezza, – rispose Yanez – poiché se domani avessi il desiderio di tornarmene in India o…

– Ma, milord, in questi paesi quando un uomo dà troppe noie si spedisce in un mondo migliore, con una palla attraverso il corpo.

Quell’uomo mi ha dato troppe noie di già e finirà per compromettermi cogl’inglesi di Labuan e fors’anche cogli olandesi di Pontianak.

– Che cosa dovrei fare?

– Aspettarlo in mezzo alla foresta, scambiarlo per un urango e fucilarlo senza pietà – rispose il Sultano. – Questa sera io vi offro l’occasione di sbarazzarvi per sempre di quella mignatta.

– Spiegatevi meglio, Altezza, – disse Yanez, stringendo le pugna e lanciando sui cortigiani, i quali sorridevano ironicamente, degli sguardi terribili.

– Dico che dovete ucciderlo; e io non vorrei trovarmi al posto di quell’uomo quando voi sparerete la vostra carabina o le vostre pistole.

Mi pare di sentirmi già lacerare le carni dal piombo.

– È un assassinio quello che mi consigliate, Altezza, – disse Yanez.

– Un uomo che cade nelle nostre immense foreste, vi rimane per sempre, perché nessuno si è mai occupato nel mio Stato di andare a cercare i cacciatori disgraziati.

Io ve ne assolvo fin d’ora.

Purché non manchiate il colpo, certo l’occasione non vi mancherà, milord…

Ma i miei battitori hanno scoperto il letto d’un elefante solitario, che seguiva in coda la grossa truppa, e noi ora andremo a sorprenderlo. Quando la passione della caccia mi prende, non mi arresto più.

Rassicuratevi, milord, e cenate con me, con una proboscide cotta al forno insieme con due zampe.

Non avrete mai mangiato niente di più appetitoso. –

Il Sultano aveva fatto un segno al suo cuoco, ed in un baleno dinanzi alla tenda furono stese delle bellissime stuoie variopinte, coperte da gigantesche foglie di banano.

Proprio dinanzi alla tenda, alla vista di tutti, un fuoco bruciava lentamente spandendo intorno balsamici aromi.

– Che cosa vi è in quel forno? – chiese la bella olandese a Yanez, il quale, malgrado le sue molte preoccupazioni, si sentiva ancora disposto a dare l’assalto al gigantesco arrosto.

– Vi è una testa di elefante intera, signora, – rispose il portoghese. – Un vero boccone da Sultano, ve lo assicuro.

– E non avete osservato in questo Selim-Bargasci-Amparlang qualche cosa di diverso dall’ultima volta che l’abbiamo veduto?

– Purtroppo signora, ma ormai è troppo tardi per dare indietro e sarebbe pericoloso per tutti noi se facessimo ritorno a Varauni. Quantunque sia ben certo che si tenterà di uccidermi, i grandi boschi sono più sicuri, per ora, della costa.

– Non vi insospettisce questa caccia?

– Sì e no, – rispose Yanez. – D’altronde, non andremo soli; e se si tenterà di sopprimerci, daremo una battaglia disperata.

– Aspettate che le bande della Tigre della Malesia siano discese dai Monti del Cristallo – disse Kammamuri, il quale assisteva al colloquio. – Senza il rajah del lago noi non potremmo condurre a buon fine la grande impresa.

– Ho già spedito due corrieri verso i boschi della montagna perché facciano affrettare la marcia della Tigre della Malesia e di Tremal-Naik.

I malesi ed i dayachi sono grandi camminatori e le orde del re del lago potrebbero giungere qui in brevissimo tempo. –

Una folata di scintille in quel momento li avvolse, costringendoli a rifugiarsi sotto la tenda dove il Sultano ed i suoi ministri li aspettavano armati di coltellacci da far paura.

Due robusti malesi avevano disperso i rami aromatici che bruciavano sopra il forno ed avevano messo allo scoperto la buca ardente in fondo alla quale, avvolta in foglie di banano, crepitava una intera testa d’elefante.

– A colazione, signori, – disse il Sultano, il quale pareva che avesse riacquistato un po’ del suo buon umore. – Assaggeremo questa, in attesa di provare quella del solitario. –

Il monumentale arrosto era stato, dopo laboriose fatiche, levato dal forno e deposto su di uno strato di foglie di areca.

Un profumo squisito sfuggiva da quella massa cucinata coi suoi immensi orecchi e la sua proboscide. – Abbiamo bisogno di prender vigore per cacciare l’elefante solitario nella sua stanza da letto. –

Dei piatti d’argento cesellato di manifattura indiana (gli abitanti di Borneo non sono che dei famosi armaiuoli, mercè il loro acciaio naturale che dopo essere stato fucinato mostra le sue vene) erano collocati dinanzi ai convitati.

Ma non era solamente il Sultano che si permetteva quel lusso, poiché l’accampamento era illuminato da fuochi, sui cui tizzoni ardevano, crepitando, trombe, piedi e cosce intere d’elefanti.

La colazione fu fatta alla lesta avvicinandosi l’alba, poi il Sultano, che da qualche momento pareva inquieto, disse a Yanez:

– Milord, volete formare voi il drappello di caccia? Pochi uomini ma sicuri, poiché i solitari se montano in furore nessuno più li arresta, nemmeno il cannone.

– Permettete che conduca anche la signora?

– Se non ha paura, venga pure. Io conto di avere, fra un paio d’ore, la testa del solitario.

Mi aspetterete presso il capo degli scikari, il quale avrà anche stamane la direzione della caccia.

– Andiamo dunque a vedere questa camera dell’elefante – rispose Yanez.

Dopo un’abbondante bevuta di toddy, quel vinello dolciastro e spumante che si ricava dalle arenghe saccarifere, la tenda fu calata sul dinanzi, in modo che nessuno potesse vedere ciò che succedeva nell’interno.

Il Sultano attese qualche minuto, accese una torcia resinosa, poi batté leggermente su di un gong sospeso all’ossatura principale della tenda.

Un istante dopo un uomo entrava. Se Yanez si fosse trovato ancora là non avrebbe tardato a riconoscerlo per John Foster, il terribile capitano che aveva giurato di vendicare la sua nave.

– Siamo soli – disse Selim-Bargasci-Amparlang, muovendo incontro al marinaio – quindi possiamo discorrere tranquillamente senza che nessuno ci oda, poiché ho fatto circondare la tenda.

– Mi avete fatto chiamare? – chiese John Foster togliendosi con rabbia uno straccio insanguinato che gli cingeva il collo e gettandolo al suolo.

– Dite piuttosto che vi ho fatto cercare, perché fino a poche ore fa ignoravo la vostra presenza nel mio accampamento.

– E mi sarei anche guardato dal farmi scorgere – rispose l’irascibile inglese – giacché io non ho potuto ottenere da voi nessuna protezione.

– Quale motivo vi ha spinto qui?

– La vendetta! – rispose il capitano, digrignando i denti.

Io non me ne andrò se non avrò prima abbattuto quell’avventuriero che minaccia di mettere a soqquadro il vostro Stato.

– Voi dunque non lo credete un autentico ambasciatore inglese.

– No, Altezza.

– Eppure le sue credenziali erano in perfetta regola.

– Le ha rubate.

– Lo dite, ma le prove? E io non vorrei fare una tale offesa alla potente Inghilterra, la quale potrebbe togliermi il Sultanato. Che cosa vorreste fare, Sir?

– Levar di mezzo quell’uomo prima che vi procuri delle noie infinite e dei grandi pericoli.

Conoscete la storia di James Brooke e di Muda Hassim rajah di Sarawak?

– Perfettamente, e mi guardo perciò da certi avventurieri che piombano sulla Malesia come se fosse una terra di conquista.

– Altezza, sapete con quale nave è giunto quel terribile avventuriero, che dopo pochi mesi si era acquistato il titolo terribile di sterminatore di pirati?

– Con una nave bene armata dalla Compagnia delle Indie che mitragliò inesorabilmente tutti gli abitanti della costa.

– E questo ambasciatore, chiamiamolo per il momento così, con che cosa è giunto? Pure con una nave rapidissima e fortemente armata. Anzi, montata da equipaggio più numeroso di quel che avete creduto.

– Voi sapete qualche altra cosa e non volete dirmela, – osservò il Sultano. – Quando avete lasciato la costa?

– Qualche ora prima di mezzanotte, guidato da uno dei vostri scikari.

– È vero che là, nella mia capitale, si minacciano dei gravi disordini?

– Io so che delle risse ferocissime sono avvenute fra i marinai dello yacht dell’ambasciatore – rispose il capitano.

– Contro chi?

– Pare che dopo la nostra partenza, tutta la popolazione della vostra capitale sia stata presa da un fremito guerresco, poiché non si parla che di stragi.

– Saranno quei maledetti cinesi! – disse il Sultano. – Lo so che cercano di minare il mio trono e di mandarmi a gambe levate! Dovrò devastare, come venticinque anni fa, il kampong degli uomini gialli e fare una grande raccolta di teste umane da regalare anche ai dayachi dell’interno. Ma voi perché siete venuto qui? – chiese il Sultano dopo un breve silenzio.

Un lampo feroce illuminò gli occhi dell’irascibile inglese.

– Sono venuto per ucciderlo, perché non tocchi a voi ciò ch’è toccato al Sultano di Sarawak.

Vi dico che voi finirete come Muda Hassim: perderete il trono e la vita.

– Non correte tanto, Sir, – disse il Sultano. – Ho sottomano una guardia imponente, che non teme gli assalti degli abitanti di Varauni.

– Sia pure, ma mentre voi vi divertite alle cacce, nel kampong cinese si trama contro di voi.

– Chi ve l’ha detto? – gridò il Sultano scattando.

– L’ho saputo.

– Aizzati da chi?

– Dal preteso ambasciatore! – disse l’inglese, con voce acre.

– Che cosa vuole dunque quell’uomo da me?

– Scavarvi sotto i piedi un abisso e compromettervi cogli inglesi di Labuan e cogli olandesi dei porti del sud.

– E perché, Sir?

– Politica europea, Altezza.

– Se mi lasciassero vivere tranquillo questi avventurieri europei, dei quali ho sempre avuto a dolermi, farebbero molto meglio.

Ho sempre dinanzi agli occhi l’esempio di James Brooke e non voglio perdere il trono e la vita in mezzo ad una rivoluzione spaventevole.

Voi mi dite, Sir, che i cinesi si agitano?

– Tutti lo sanno a Varauni e credo che ben pochi dei vostri sudditi dormano i loro sonni tranquilli.

– Per quei pappagalli gialli ho la mia guardia! – disse il Sultano. – E poi, non hanno armi da fuoco a loro disposizione.

– Potreste ingannarvi, Altezza, perché io ho veduto con questi miei occhi scaricare dallo yacht delle casse che dovevano contenere dei fucili.

– E ceduti a chi? – gridò il tirannello, facendo un gesto d’ira.

– Al capo Kamponkang cinese – rispose John Foster.

– Quell’uomo viene a portarmi la guerra in casa?

– Mi stupisce, Altezza, che ve ne siate accorto così tardi, poiché ho sempre udito dire che i bornesi in fatto di astuzia non hanno chi li raggiunga in tutta la famiglia malese.

– Che cosa mi consigliate di fare? – chiese il Sultano, il quale si era messo a passeggiare per la tenda, tenendo la destra chiusa intorno alla guardia d’oro della sua splendida scimitarra. – Anche i miei ministri mi avevano detto ciò che voi mi avete asserito ora – disse il Sultano.

– Sopprimetelo!

– Voi odiate quell’uomo perché vi ha, come affermate, mandato a fondo un piroscafo: perché non l’avete fatto assassinare a Varauni?

– Mi ci sono provato, Altezza, ma ho avuto la peggio.

– Tutto dipende dal non avere scelto bene il momento opportuno, ma se volete vendicarvi di quell’avventuriero senza nulla rischiare, io sono pronto a darvene i mezzi.

– Voi, Altezza! – esclamò John Foster, facendo due passi innanzi. – Non lo proteggete, dunque?

– Vi confesso che quest’uomo comincia a farmi paura e sarei ben lieto se trovassi un altr’uomo coraggioso e risoluto che lo facesse cadere sotto queste foreste.

– Metto a vostra disposizione la mia carabina ed anche il mio coltello da caccia, che vale assai meglio dei vostri kriss. Dov’è questo milord?

– Sta preparando la caccia ad un elefante solitario che fu scoperto ieri sera e che ai primi albori andrà ad appoggiarsi al suo albero.

– Saremo soli?

– Non correte troppo, Sir, – disse il Sultano. – Se continuate così finirete col domandare a me di sbarazzarvi di quell’individuo che vi dà tante noie.

– Viaggia sempre con una scorta imponente formata di uomini saldi al fuoco come i vostri rajaputi?

– Saremo quasi soli.

– Allora tutto andrà bene – rispose il capitano.

– Tra una mezz’ora andiamo a scovare l’animale in un luogo già scelto.

Quando le vedete comparire, invece di abbattere il bestione, ammazzate l’uomo, e tutto è fatto.

Nessuno potrà dir nulla: si tratta di un accidente di caccia; ed io non avrò da rispondere della vita di uno sconosciuto che viene a cacciarsi fra i miei battitori senza essere stato invitato.

Siete un buon tiratore?

– Sì, Altezza.

– Allora milord, fra un paio d’ore non sarà più vivo – disse il Sultano. – Così voi vi sarete vendicato e mi avrete sbarazzato di un uomo che comincia a preoccuparmi.

– Non chiedo di meglio! – esclamò John Foster, battendo la palma sulla doppia canna della sua carabina inglese. – Il primo colpo che uscirà di qui abbatterà per sempre quell’uomo.

– Badate che anche lui è un famoso tiratore.

– Me l’hanno già detto, Altezza, ma io non farò fuoco che di sorpresa e quando mi si presenterà proprio a tiro. –

Il Sultano prese il fiasco di toddy che era rimasto sulla tavola ed empì due tazze, dicendo:

– Alla vostra salvezza ed alla morte di milord. Più tardi io saprò ricompensarvi largamente di quanto avrete fatto per me. –

I due furfanti vuotarono le tazze, senza che un muscolo dei loro visi li tradisse, poi il Sultano fece cenno all’inglese di uscire.

– Avete capito? – gli disse. – Invece dell’elefante sarà l’uomo che cadrà.

Trovatevi un posto adatto per un buon agguato.

– Corpo di Satana! – ruggì John Foster, facendo volteggiare la carabina. – Andiamo a cacciare l’elefante. –

Era appena scomparso, quando il Sultano percosse leggermente la piastra di bronzo sospesa all’ossatura della tenda.

Un istante dopo i due lembi di tela della tenda esterna venivano allontanati dai rajaputi della guardia e Yanez faceva la sua entrata, seguito dal fedele cacciatore indiano che portava in ispalla due grosse carabine di forte calibro.

La bella olandese, sempre flemmatica e sorridente, l’aveva accompagnato, armata d’una piccola carabina inglese colla quale aveva fatto già dei tiri famosi insieme con suo fratello.

Il portoghese, abituato a dubitare di tutto e di tutti, appena entrato aveva fissato i suoi sguardi sulle due tazze che erano ancora rimaste presso al fiasco di toddy come se avesse indovinato che avevano bevuto alla sua morte imminente.

– Milord, – disse il Sultano, avanzandosi verso Yanez – voi volete farmi perdere l’occasione di avere questa sera per cena una squisita testa d’elefante.

Il solitario deve essere già in moto per raggiungere la sua stanza da letto e fare la sua solita dormita fino a mezzodì.

– Avete un parco pieno di pachidermi, Altezza, – rispose il portoghese, il quale osservava attentamente tutto. – Avete forse qualche invitato per questa sera?

– Perché mi fate questa domanda? – chiese il Sultano trasalendo. – Come avete indovinato che questa sera io avrò degli amici carissimi ai quali da molto tempo ho promesso una testa di elefante intera?

– Sono stati poco fa qui quei vostri amici? – chiese Yanez, fissando intensamente il Sultano, il quale si era affrettato a coprirsi gli occhi colle mani, come se non potesse sopportare quello sguardo gravido di minacce.

– Altezza, – aggiunse Yanez, colla sua solita calma posando le mani sulle sue pistole – io ho viaggiato molto nelle isole della Sonda e lungo le coste del Borneo. Ed ho sempre udito raccontare che quando un uomo si copre gli occhi, augura ad altri prossima la morte.

– Finora io non ho motivi di lagnarmi di voi, quantunque mi abbiano detto che i cinesi si agitano, dopo che hanno ricevuto da voi delle armi da fuoco.

– Quello che ve l’ha raccontato è un pazzo, Altezza, poiché io sono venuto al Borneo per fare una semplice crociera e nient’altro.

Siate franco, Altezza, voi avete ricevuto poco fa quell’uomo che si lamenta sempre della perdita della sua nave.

– L’ho invitato infatti a cacciare l’elefante – rispose il Sultano.

– Assieme con me? – chiese il portoghese trasalendo.

– Egli mi ha assicurato di essere un bravissimo cacciatore.

– Lo vedremo alla prova.

– Avete formato il drappello di caccia?

– Sì, Altezza.

– Vi prenderà parte la vostra scorta? I miei uomini sono tutti abili tiratori che non si arrestano né dinanzi ad un elefante, né dinanzi ad un rinoceronte.

Vi dico questo perché se l’elefante solitario si accorge della presenza di molte persone se ne va e non ritorna più.

Andiamo milord: l’alba spunta, come vedete, ed è questo il momento propizio per sorprendere il bestione grigio nella sua stanza da letto. –

Degli uomini erano entrati portando delle tazze di toddy.

Poi il capo degli scikari si fece avanti e disse:

– È l’ora, signori.

– Partiamo! – rispose il Sultano. – Andiamo a fare la conoscenza con questi elefanti solitari che si dice siano terribili.

– Vostra Altezza – disse sorridendo la bella olandese – mi regalerà l’orecchio destro, che è un boccone prelibato.

– Avevo già pensato, signora, di farvene l’offerta – rispose il Sultano.

Afferrò un martelletto di legno e si mise a battere rapidamente sulla lastra di bronzo, producendo un fracasso infernale.

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