Le furie sanguinarie di John Foster

I pochi lumi a olio che illuminavano le gettate stavano per spegnersi, quando la scialuppa di Yanez prese terra, insieme con Kammamuri e i due malesi di scorta.

Mati, che aveva accompagnato il padrone, perlustrò rapidamente la riva, poi ritornò verso la scialuppa dicendo:

– Nulla, signor Yanez.

– Nessun uomo in agguato?

– No.

– Sbarchiamo!

– Chi temete? – chiese Kammamuri, ergendo il suo poderoso torso e le sue braccia muscolose, mentre faceva tintinnare con una mossa energica i grossi orecchini che gli pendevano dagli orecchi.

– Il capitano del vapore. Padar ti avrà già raccontato quanto ci è accaduto.

– Sì, signor Yanez.

Nell’India quando un uomo dà noia gli si fa subito, possibilmente, un passaporto per l’altro mondo.

– È quello che cercheremo di fare anche noi, se ci capiterà fra i piedi – rispose il portoghese. – Sono sicuro che quell’uomo è sempre in agguato in Varauni per giocarmi un brutto tiro.

– Ci guarderemo dal lui, signor Yanez. Andiamo al kampong cinese, è vero?

– Sì, mi preme vedere un vecchio celestiale, che in altri tempi ha reso a me ed alla Tigre della Malesia dei segnalati favori.

– Speriamo che non sia morto. –

Mandarono indietro i marinai della scialuppa, dopo averli avvertiti che nella notte non sarebbero tornati a bordo dello yacht, e saltarono sulla gettata che in quell’ora era quasi deserta.

Solo pochi gruppi di malesi, raggomitolati intorno ai vecchi cannoni che servivano d’ormeggio alle navi, stavano chiacchierando e masticando del betel, lordando di rosso tutte le pietre del pavimento.

In lontananza luccicava una fila di lumi, accesi dinanzi alle taverne del kampong.

Yanez, che conosceva già la città, si orizzontò rapidamente e guidato da quelle lanterne che spandevano delle luci multicolori, si fece rapidamente innanzi, seguito da vicino dai suoi uomini, i quali, al pari di lui, in quell’ora, in un luogo ormai quasi deserto, temevano un qualche attentato.

Per dieci minuti seguirono la rena, osservando attentamente i piccoli gruppi dei malesi che sonnecchiavano all’aria aperta, poi si cacciarono in un dedalo di viuzze fangose, puzzolenti, fiancheggiate da case di stile cinese ancora di bell’aspetto.

La luce non mancava poiché gli abitanti, seguendo le abitudini dei loro paesi, avevano appese dinanzi alla porta delle lanterne monumentali.

Passarono così dinanzi a sette o otto taverne che portavano dei titoli rimbombanti ed entrarono in una che portava dipinto sul fanale un battello carico di fiori, come se si trovasse sul Sikiang ossia sul meraviglioso fiume delle Perle che feconda la Cina meridionale.

– Dev’esser qui – disse Yanez. – Giorni fa venni a ronzare da queste parti, e però sono sicuro di non sbagliarmi.

Questa è la taverna del vecchio compare. –

Aprì la porta sgangherata, che invece di vetri aveva dei fogli di carta oliata, ed entrò risolutamente tenendo le mani sul calcio delle sue famose pistole indiane.

Il cinese doveva aver fatto una bella fortuna, poiché invece d’una semplice stanza era riuscito a montare parecchie salette, dove dei celestiali, sdraiati su delle lunghe sedie di bambù, si ubriacavano sconciamente d’oppio, lanciando in aria nuvoli di fumo oleoso e fetente.

– Vi è una stanza libera? – chiese Yanez. – Andiamo ad occuparla prima che giungano altre persone.

Nessuno deve sapere quello che io dirò al vecchio Kien-Koa. –

Infatti la saletta, tappezzata con carta di thung ormai sbiadita, ma che pur faceva una bella figura colle sue lune sorridenti ed i draghi vomitanti enormi getti di fuoco, era deserta.

Un ragazzo cinese, giallo come un limone, che aveva un codino lungo appena tre dita, segno evidente che il suo padrone glielo scorciava per punirlo delle sue mancanze, fu lesto ad accorrere.

– Doy, il padrone, – disse Yanez. – Vi sarà una mancia generosa se farai presto.

Il fanciullo scomparve lesto come uno scoiattolo e poco dopo ritornava seguito da un vecchio cinese che sembrava ormai una mummia, ma con due lunghi baffi pendenti ed una magnifica coda che gli giungeva fino a terra.

Vestiva di cotone rosso a grandi fiorami, e nella cintura portava, come per indicare la sua qualità, due coltellacci atti a sgozzare.

Vedendo l’uomo bianco, il celestiale s’inchinò, muovendo contemporaneamente le mani distese sul petto, poi disse:

– Sono ai vostri ordini: suppongo che vorrete cenare.

– Sì – rispose Yanez – se la vostra cucina non sarà a base di lombrichi salati e di prosciutti di cane.

– Ho per voi, milord, degli occhi di montone all’aglio, che farebbero risuscitare anche un morto.

– Perché mi avete chiamato milord? Un tempo ci siamo conosciuti, ma da allora sono trascorsi moltissimi anni e molti avvenimenti sono accaduti.

Voi siete Kien-Koa, è vero?

– Sì, milord.

– Avanti colla cena allora.

– Stamani nella baia hanno pescato delle magnifiche aragoste e molti calamari.

– Servite un po’ dell’uno ed un po’ dell’altro.

Più tardi poi riprenderemo il nostro discorso, che fino ad ora è poco interessante. –

Il cinese chiamò a raccolta i suoi garzoni, tutti brutti esseri sparuti e quasi privi della coda, e fece preparare la tavola.

– Portate delle bottiglie, – comandò Yanez. – Noi non siamo bevitori di thè.

– Subito, milord. Ho ricevuto appunto ieri una cassa di vino portoghese che farà proprio per voi.

– Che fortuna! – esclamò Yanez, ironicamente. – Hanno pescato, hanno scannato montoni e spedito bottiglie per farci cenare allegramente.

Su via, vecchio Kien-Koa, fa’ portare intanto gli occhi di montone conditi coll’aglio. Ne ho mangiati altre volte e li ho trovati sempre buoni. –

Alle chiamate del padrone, i garzoni si affrettarono a stendere sulla tavola una tovaglia di carta, deponendovi poi sopra due splendide aragoste ed un piatto d’occhi che, se producevano un certo effetto strano a guardarli, dovevano essere nondimeno assai appetitosi.

Yanez, Kammamuri ed i due malesi di scorta avevano appena cominciato a mangiare, quando dei nuovi avventori invasero la taverna, facendo un chiasso indemoniato.

– Che debba pentirmi di essere venuto qui? – si chiese il portoghese. – Questi nuovi arrivati sono inglesi e, come al solito, alticci.

Fortunatamente ci hanno lasciati tranquilli.

– Che cosa temete, signor Yanez, dagl’inglesi? – chiese Kammamuri.

– Che cosa vuoi? dopo che la loro nave è stata affondata, si sono fissati nel cervello che io ne sia stato l’autore.

– Mentre vi trovavate lontano, è vero, signor Yanez?

– Io sono sempre lontano quando succedono dei malanni – rispose il portoghese.

– E la Tigre della Malesia?

– Si avanza lentamente dal suo Stato e non dev’essere ormai lontana dalle frontiere del sultanato.

– Spazzeremo tutti? Abbiamo delle forze imponenti.

– Vedremo: per ora preferisco giocare d’astuzia col Sultano.

– Ma la riconquista di Mompracem è decisa?

– Non tornerò nell’Assam se prima non vedrò sventolare sull’alta roccia, dove un giorno sorgeva la capanna e la batteria di cannoni, la rossa bandiera colla testa di tigre.

– Ed il mio padrone? Mi pare che siano trascorsi ormai dei lunghissimi mesi.

– Eppure, mio caro Kammamuri, lo abbiamo sbarcato appena venti giorni or sono nella baia di Poitou. Come sei impaziente, tu!

– Avrà raggiunto Sandokan?

– Aveva sei prahos di scorta, quindi non gli poteva succedere alcun malanno. –

Avevano fatto sturare delle bottiglie di quel famoso vino portoghese che somigliava molto all’aceto e, non potendo avere di meglio, si erano messi a bere.

– Ora riprendiamo la conversazione con Kien-Koa. Se non abbiamo dalla nostra i cinesi, nemici accaniti dell’elemento malese e dayaco, i rajaputi del Sultano, quantunque non numerosi, potrebbero darci molto da fare.

Poi, vedendo passare un garzone, gli gridò dietro:

– Mandaci quella mummia di Kien-Koa. –

Il vecchio, che doveva aver qualche dubbio sul vero essere di Yanez, non si fece pregare e si sedette alla tavola.

– Ebbene – disse il portoghese – non mi si conosce più?

– No, milord, quantunque io sia certo d’avervi incontrato in qualche luogo.

– Sapete dove?

– No, davvero?

– A Mompracem. –

Il vecchio cinese ebbe un sussulto e divenne terreo.

– Allora – continuò Yanez – Kien-Koa non era un onesto taverniere, e quando si prestava l’occasione, corseggiava colla sua giunca rispettata da tutte le tigri di Mompracem.

– Chi siete voi?

– Il fratello della Tigre della Malesia. –

Il cinese si lasciò sfuggire un grido di stupore e alzò le mani come per abbracciare il portoghese, il quale prudentemente si gettò indietro, per evitare quella stretta poco piacevole.

– Voi! – esclamò. – Sì, sì! Sono trascorsi moltissimi anni, eppure, guardandovi bene, il vostro viso non mi è sconosciuto.

Come mai, milord, vi trovo ora qui?

– Prima rispondi ad una mia domanda, Kien-Koa, – disse Yanez. – Chi comanda nel kampong giallo?

– Sempre io, signore.

– Allora tu sei in grado di conoscere come i tuoi sudditi la pensino verso il Sultano.

– È un ladro! – gridò il cinese. – Non si può più andare innanzi. Ci tosa come fossimo un branco di pecore, e guai a rivoltarsi! Allora fucilazioni ed annegamenti in massa nella baia. Guardate quanto quell’uomo è avaro: per tenercelo in buona gli abbiamo regalato uno zaffiro che non costa meno di mille tael.

– E come vi ha compensati? – chiese Yanez ridendo.

– Con un lurido pesce-cane a cui ha fatto prima togliere le pinne per metterle nello sciroppo.

Canaglia.

– Lo sapevo – disse Yanez – poiché il pesce-cane che vi ha regalato il vostro buon Sultano l’ho pescato io quest’oggi, fuori della baia di Varauni.

– E non vi ha dato nemmeno un sapeki od un fiorino! Il Sultano non usa pagare mai, a quanto pare.

Usa derubare o meglio scannare noi cinesi. Solamente sull’oppio, che è l’articolo principale della nostra importazione, quel miserabile si prende una cassa ogni due.

– E così, siete furibondi?

– Siamo risoluti a rivoltarci. Non è già la prima volta che noi facciamo tremare quel poltrone.

Quello che ci manca è solamente un capo.

– E se questo capo fosse la Tigre della Malesia?

– Che si mostri soltanto, ed io scatenerò i miei uomini attraverso le vie di Varauni.

– In quanti siete?

– In mille e cinquecento – rispose il cinese.

– Avete armi?

– Se non molte da fuoco, moltissime da taglio, milord.

– Un giorno Sandokan salvò la tua giunca, mentre stava per naufragare sulle scogliere delle Remades, e risparmiò la tua testa, quella dei tuoi uomini e le tue ricchezze.

– Me ne ricordo benissimo, milord.

– Ora sta per giungere il momento di aiutare le tigri di Mompracem.

Siamo in buon numero e spazzeremo via il Sultano: così non vi taglieggerà più.

– Fosse vero! – esclamò il cinese alzando le braccia.

In quel momento in una delle sale attigue, occupata dagl’inglesi, scoppiò un alterco terribile.

Le stoviglie volavano in tutte le direzioni, pestando nasi ed ammaccando occhi, con un fracasso indemoniato.

Kien-Koa si alzò un po’ inquieto, guardando Yanez.

– Non temere – gli disse questi – io sarò sempre pronto a proteggerti contro quegli ubriaconi. –

Il chiasso era finito, ma le bestemmie si seguivano con un crescendo spaventoso. Erano grida selvagge, urli rauchi pieni di minaccia, ma i bicchieri non volavano più, forse per il semplice motivo che tutti dovevano essere stati distrutti.

Yanez, non molto tranquillo, a sua volta si era alzato, facendo segno a Kammamuri ed ai due malesi di tenersi pronti.

Ad un tratto fece un gesto d’ira:

– John Foster! – esclamò. – Il capitano della nave che io ho affondata e che ha giurato di farmi la pelle.

– Avrà prima da fare con noi! – disse Kammamuri. – Ne abbiamo spacciati nell’India di questi prepotenti! –

In quell’istante il vecchio cinese ricomparve, cacciato innanzi a calci da una mezza dozzina di marinai, guidati da John Foster e sconciamente ubriachi. –

Il disgraziato strillava come se gli togliessero la pelle di dosso e spiccava dei salti da ranocchio, per risparmiare la parte più rotonda del suo corpo. John Foster l’aveva afferrato per il codino e lo spingeva, urlando ferocemente:

– Cane d’un celestiale! Tu non tornerai in Cina col tuo codino.

– Chi ve l’ha detto, signor mio? – gridò Yanez, affrontando risolutamente l’inglese. – Ci siamo anche noi e non siamo uomini da tollerare prepotenze da parte di marinai sconciamente ubriachi.

Il comandante della nave rimase un momento silenzioso, poi balzò innanzi, urlando:

– Ah, il pirata! Vedremo se uscirai vivo di qui! Abbiamo un grosso conto da saldare io e te, e vorrei liquidarlo prima di domani mattina, canaglia!

– Chiamatemi milord, o Altezza! – rispose il portoghese. – Ve l’ho già detto che sono un nababbo indiano che viaggia i mari della Malesia per divertirsi.

– E per affondare anche le navi, è vero, signor nababbo straccione?

– Io credo che voi, John Foster, abbiate sognato e che la vostra nave galleggi ancora e forse coi fuochi accesi.

– Per la morte di Urano! Siete un magnifico commediante.

– E tu, John Foster, un imbecille che va in cerca di qualche dura lezione.

– Da chi?

– Da me – rispose Yanez.

L’inglese inarcò le braccia e prese la guardia di boxe, scatenando uno dietro l’altro una mezza dozzina di pugni dati con vigore straordinario.

Yanez aveva fatto un salto indietro, poi aveva levato dalla cintura un coltello americano, chiamato bowie-knife, dalla lama solidissima e taglientissima.

– Capitano, – gli disse, facendo scattare la molla del coltello, – se volete provarvi, sono uomo da tenervi testa.

Voi avete bevuto troppo questa sera ed una buona cavata di sangue potrebbe salvarvi.

– Per la morte di Noè! A me cavare del sangue! Sarà il tuo che farò uscire a grandi zampilli dalla tua carcassa. –

L’insolente, aveva appena terminate quelle parole, quando Kammamuri, che sino ad allora era rimasto silenzioso, piombò sul brutale capitano, e gli appioppò un ceffone così sonoro, da mandarlo a baciare la parete di fronte.

I cinque o sei marinai che accompagnavano l’inglese avevano tratti risolutamente i coltelli e si erano gettati innanzi, credendo di aver facilmente ragione dell’ambasciatore.

Anche i malesi erano balzati innanzi, puntando le carabine e gridando imperiosamente: – Giù i coltelli, o facciamo fuoco. –

John Foster, inferocito dalla durissima lezione avuta, appena rimessosi in gamba era tornato alla carica impugnando un coltellaccio.

– Ti bucherò come un maiale, Altezza! – disse. – Voglio vedere se nelle tue vene scorre sangue azzurro o rosso.

– Hai troppa paura, amico, – rispose Yanez. – Sei pallido come un morto e, quando uno impallidisce dinanzi al pericolo, vuol dire che non ha coraggio da vendere.

– Io? – urlò John Foster ferocemente. – Non sapete ancora chi io sia.

– Come voi non sapete ancora chi sia io! – rispose Yanez.

– Il pirata che ci ha affondato il piroscafo.

– Andate a dirlo al Sultano.

– Quello è un cretino! non capisce e non vuol capir niente.

– Lasciamo che il Sultano dorma i suoi sonni tranquilli e sbrighiamo tra noi la nostra faccenda.

I miei uomini ed i vostri serviranno da testimoni.

– Se non si avventeranno, al momento opportuno, contro di voi.

– Allora, mio caro John Foster, risponderemo con dei colpi di fuoco e vedremo chi avrà la peggio. –

Yanez s’avvicinò ad una finestra e strappò una mezza tenda di nanchino, avvolgendosela intorno al braccio sinistro.

John Foster si mise a ridere:

– Ecco come sono questi coraggiosi predatori del mare. Si fasciano prima per paura d’un taglio! Ah, ah!

– Ah, ah! – fecero i marinai in coro.

Yanez aveva fatto un gesto energico.

Kammamuri ed i due malesi avevano subito puntato le loro carabine contro i marinai, minacciando di far fuoco.

– John Foster – disse Yanez con voce grave. – Se volete attaccare briga con me per sfogare le vostre furie sanguinarie di bestia feroce…

– A me bestia feroce?

– Io sono qui pronto ad aspettarvi a piè fermo – proseguì Yanez. – Vi avverto per altro che se i vostri uomini faranno un solo passo innanzi, comanderò il fuoco.

– Basta colle chiacchiere, per centomila pesci-cani! – gridò l’irascibile capitano. – Sono impaziente di vedere il vostro sangue principesco o piratesco che sia.

– Kien-Koa, – disse Yanez al cinese – fa’ chiudere la porta affinché nessuno venga a disturbarci. –

Ciò detto si mise in guardia, avanzando il braccio sinistro riparato dalla tenda e spinse ben avanti la gamba destra per evitare qualche colpo di sgambetto.

– È comodo il signore? – gridò il capitano.

– Ho l’abitudine di non aver mai fretta quando devo dare una lezione ad un individuo come voi.

– E voi credete di tener nelle vostre mani la mia pelle? Oh, oh! La vedremo caro principe. –

Si era messo anche lui in guardia, a tre passi dal portoghese.

Un silenzio profondo regnava nella saletta, quel silenzio prodotto da una estrema ansietà.

Nemmeno i marinai, minacciati dalle tre carabine della scorta, avevano più osato ribattere parola. Anzi avevano ricacciati nelle cinture i coltelli di manovra che poco prima impugnavano come se dovessero montare da un momento all’altro all’assalto.

John Foster si parò col braccio e si spinse coraggiosamente innanzi, menando a Yanez un colpo terribile.

Il portoghese, abilissimo in tutti gli esercizi anche i più pericolosi, si liberò con un salto di fianco.

– Per tutti i venti del mare! voi mi fuggite! – urlò il capitano.

– Faccio il mio giuoco, signor mio.

– Che sarà breve, spero.

– Questo si saprà più tardi.

– Se non mi scapperete.

– Ho fatto chiudere le porte, più per voi che per me.

– Questo è troppo! Bisogna che vi uccida.

– Fate pure: io vi aspetto. –

John Foster tentò un secondo colpo, che Yanez parò rapidamente colla lama del suo coltello.

L’inglese, che aveva la punta imbrogliata fra le pieghe della tenda, fu costretto a fare un gran salto indietro.

– Pare che siate voi ora che fuggite – disse Yanez ironicamente.

– Dove avete imparato la scherma col coltello, voi?

– Nella Spagna che è la terra classica per questi terribili corpo a corpo.

– Non capisco più nulla – borbottò il capitano, il quale pareva un po’ impensierito. – Eppure con quest’arma sono sempre stato forte anch’io.

– Gl’inglesi si battono meglio a pugni.

– Io no, perché voglio vedere di che colore è il vostro sangue.

– Non ci tengo nemmeno io: è una lotta da facchini. A voi, John Foster! –

Yanez era piombato improvvisamente sul capitano e gli aveva vibrato un terribile colpo in pieno petto.

Anche l’inglese era certamente assai abile nella terribile scherma col coltello, poiché fece ancora in tempo a parare.

– Un momento di ritardo ed io ero spacciato, – borbottò.

Era diventato pallidissimo e la sua fronte si era coperta d’un freddo sudore: mai aveva veduto la morte così da vicino.

Yanez aveva ripresa la sua magnifica guardia, quella guardia che nella Spagna distingue i valienti, ed aspettava il momento opportuno.

Portò un primo attacco, che costrinse l’inglese a indietreggiare nuovamente; poi un secondo, quindi un terzo.

Il capitano, che non riusciva più a tener testa a quella grandine di colpi, stava per essere messo contro il muro.

– Badate di non farvi inchiodare! – gli disse Yanez. – Mi dispiacerebbe per il mio coltello, il quale potrebbe spuntarsi.

– Uh, che sicurezza!

– Non abbiamo ancora finito, signor mio.

– E nemmeno io sono ancora morto – rispose John Foster.

– Spero che lo sarete fra poco.

– Ah! –

Il capitano aveva fatto un altro salto di fianco, tentando di spaccare il cuore al portoghese.

Fortunatamente il portoghese non aveva l’abitudine di farsi sorprendere.

Parò col braccio sinistro, poi attaccò a fondo.

Non fu la punta del coltello che colpì l’inglese: fu l’impugnatura del bowie-knife, la quale, spinta a tutta forza, fracassò una mascella all’avversario.

L’inglese rimase un momento ritto, sputò una boccata di sangue mescolata a diversi denti, poi allargò le braccia e si lasciò cadere di peso al suolo, mandando un’imprecazione.

– Ne avete abbastanza, John Foster? – chiese Yanez, facendo un passo innanzi.

– Sotto, marinai! – urlò l’inglese con voce che più nulla aveva d’umano.

I malesi, udendo quel grido, alzarono le carabine e le puntarono contro i marinai, mentre Yanez impugnava le sue pistole e gridava con voce minacciosa:

– Chi si avanza è un uomo morto! Se avete assistito allo spettacolo dell’aloun-aloun offertomi dal Sultano, vi sarete persuasi che io non manco mai il bersaglio quando sparo un colpo.

– Sotto, marinai! – ripeté John Foster, sputando un altro paio di denti.

I quattro uomini, tenuti in rispetto dalle carabine dei malesi, volsero le spalle e si allontanarono rapidamente, bestemmiando e minacciando.

– Altezza, – disse l’irascibile capitano, il quale era stato coricato su un traliccio di fumatori d’oppio – questa sera le ho prese, ma guardatevi da me, poiché tutto tenterò per perdervi e smascherarvi.

– Andate a raccontarlo al Sultano. Ve l’ho già detto.

– Se è sempre ubriaco!

– Aspettate il mattino per andarlo a trovare. Almeno avrà la testa libera.

– Ricorrerò ad altre persone ben più potenti di quell’imbecille – rispose il capitano del piroscafo. – Buona sera; ci rivedremo presto.

Volete un consiglio? Fate sorvegliare attentamente il vostro yacht.

– Se vorrete investirlo sarete padronissimo – rispose il portoghese. – Ditemi l’ora ed il momento.

– Non ho mai ora io.

– Già, i banditi sorprendono sempre a tradimento! – disse Yanez, dardeggiando sull’inglese uno sguardo feroce. – Kien-Koa, apri la porta a queste canaglie, prima che qui succeda una strage.

– Signor Yanez, – disse Kammamuri con voce commossa – voi vi esponete troppo.

– È necessario farsi temere da certe mignatte! – rispose il portoghese. – D’altronde non ho ricevuto nemmeno una semplice scalfittura, quantunque quell’uomo, devo riconoscerlo, sia assai forte.

A bordo, Kammamuri: temo qualche brutta sorpresa da parte dei naufraghi.

– Kien-Koa, – disse poi – ci rivedremo domani. Prepareremo il nostro piano di guerra che tu maturerai, mentre io andrò in campagna col Sultano.

È necessario divagarlo quel povero uomo o finirà per diventare un tale cretino da non capire nemmeno che il suo trono è meno sicuro di quello che crede.

A me malesi! Tenete pronte le carabine! –

Staccarono una lanterna di carta oliata e lasciarono la taverna preceduti dai malesi e da Kammamuri, i quali ispezionavano attentamente tutti gli sbocchi delle viuzze, temendo un improvviso attacco da parte dei marinai.

La notte era oscurissima e soffiava forte il vento sopra i quartieri di

Varauni, ululando sinistramente.

– Alta la lanterna! – aveva comandato Yanez. – Il dito sul grilletto delle carabine. –

Percorsero un mezzo chilometro, scendendo verso il porto e raggiunsero la scialuppa legata ad un palo e montata da due dayachi.

– Nulla di nuovo? – chiese a loro Yanez.

– Non vi fidate, signore, – risposero. – Delle scialuppe sono venute a ronzare questa sera intorno allo yacht.

– Chi le montava?

– Mi parvero bianchi.

– Ho capito: si tratta di aprire quattro occhi invece di due.

– E credo che farete bene, signor Yanez. Qualche brutto giuoco lo tenteranno di certo contro di noi.

Quel capitano deve essere un pessimo individuo.

– Io lo so – rispose Yanez. – Sono scampato dalle sue coltellate per non so quale miracolo. A quest’ora io dovrei essere morto.

Aspettiamoci da lui, quando sarà guarito, qualunque cosa.

– Dovevate finirlo, signor Yanez.

– Sarebbe stata una ingenerosità – rispose il portoghese. – Ne avrà nondimeno per un bel po’, quantunque quegli inglesi siano duri come macigni. –

In quell’istante la scialuppa urtò contro qualche cosa di molle che pareva galleggiasse a fior d’acqua.

– Stop! – gridò il timoniere.

Yanez si era slanciato verso prora, tenendo la lampada che aveva presa nella taverna di Kien-Koa.

– Un annegato o un tradimento? – si era chiesto.

Con suo stupore vide galleggiare sul mare una pelle di cavallo o di bue, la quale pareva che avesse servito a nascondere qualcuno.

Prese le sue famose pistole indiane e sparò quattro colpi contro quella, colla speranza di ammazzare il nuotatore, nel caso che si fosse trovato sotto la pelle.

Nessun grido si udì.

– Ci siamo ingannati – disse il portoghese – ma questa pelle abbandonata qui mi dà dei gravi sospetti.

A bordo, amici! –

Cinque minuti dopo si trovavano tutti a bordo dello yacht.

Speak Your Mind

*

 

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.