Un terribile momento

Cominciava ad imbrunire, quando lo yacht entrò nella vasta e pittoresca baia di Varauni, salutando la bandiera del Sultano con un colpo di cannone, subito restituito dalla vecchia crollante batteria.

La piccola nave si era appena ancorata alla boa, quando Mati che osservava attentamente tutto, segnalò la barca dipinta in rosso coi bordi dorati, che quattro giorni prima aveva trasportato Yanez all’aloun-aloun.

– Signore, – disse, precipitandosi nella cabina dove il portoghese stava visitando una cassetta d’acciaio piena di diamanti indiani e di smeraldi e rubini birmani. – Viene…

– Chi?

– Il segretario del Sultano.

– E ti inquieti per questo, amico? Ho qui di che corrompere tutti i favoriti di S. A. Fa bene a venire, perché non gli ho ancora offerto nessun regalo.

– E dopo?

– Dopo? Mio caro, abbiamo una nave a vapore sotto pressione, sempre pronta a prendere il largo. Chi mi darà la caccia? I giongs sgangherati del Sultano? Ne mettesse in linea anche venti, noi passeremmo ugualmente su di loro. E poi a Gaya abbiamo una riserva imponente, capace di bombardare la città ed anche di prenderla d’assalto.

– Non fidatevi del Sultano.

– Uh! Un vero fanciullone! –

Prese una manata di rubini, di diamanti e di smeraldi, se li mise in tasca e richiuse la cassetta che doveva contenere parecchi milioni.

– Andiamo a vedere che cosa desidera quella mezza scimmia, – disse salendo in coperta.

La barca, che era montata da dodici remiganti, era già sotto la scala.

L’antipatico segretario in un baleno fu a bordo, salutando Yanez solamente con un mezzo inchino.

– Che cosa abbiamo dunque di nuovo, amico? – gli chiese bonariamente il portoghese.

Il segretario tirò il fiato, sgranò gli occhi e dopo d’aver fatto una brutta smorfia, disse con un certo sforzo:

– S. A. vi aspetta a cena.

– Accetto subito, perché questa corsa al largo mi ha fatto venire un appetito da pesce-cane. Speriamo che sia di buon umore.

– Lo è sempre, quando ha bevuto.

– Allora ci penso io. Padar!

– Signore!

– Metti in un canestro dodici bottiglie di gin con qualcuna di champagne e portalo nella barca.

– Andate solo?

– Formami una buona scorta di dodici uomini ed io rispondo di tutto. –

Poi, avvicinandosi al segretario e levandosi dalla tasca un magnifico rubino, gli disse:

– Amico, vi prego di gradire questo come ricordo dell’ambasciatore dell’Inghilterra. –

Il segretario, con grande stupore del portoghese, il quale sapeva quanto erano venali i bornesi, invece di allungare la mano, la ritirò.

– Rifiutate? – gli chiese.

– Se non so ancora chi siete voi.

– Come?… Briccone! Non ho presentato le mie credenziali in piena regola al tuo padrone?

– Eppure vi sono molte persone che vi accusano.

– Di essere un furfante?

– Io non lo so, milord.

– Ah, la vedremo rispose Yanez. – Per Giove, per chi mi si prende? Per una scimmia delle foreste bornesi?

Il mio naso non è ancora diventato rosso, né si è screpolato. Su via, prendete: vale almeno duecento fiorini e potrete far felice qualche bella fanciulla del vostro harem. –

Questa volta il segretario fu pronto ad allungare la mano e a chiudere le dita intorno al rubino.

– Avrà degli invitati questa sera il Sultano? – gli chiese Yanez. – A me piace molto la compagnia.

– Temo che ne troverete troppa, dopo la cena.

– Niente di meglio: improvviseremo una festa da ballo e faremo saltare le belle bornesi. Andiamo, signor segretario. –

Si passò nella fascia le due pistole indiane che Padar gli porgeva, raccomandò di tenere la nave sempre sotto vapore ed i pezzi carichi e scese nell’imbarcazione colla sua scorta completamente equipaggiata, come se dovesse entrare subito in campagna.

La calma del portoghese era per altro più apparente che reale, poiché gli era sorto il dubbio che il Sultano lo mettesse dinanzi ai naufraghi della nave a vapore e che gli domandasse anche stretto conto della cannoniera, che più nessuno aveva veduto rientrare nella baia, mentre le detonazioni dei pezzi erano state udite da non poche persone.

Ma confidava nella sua straordinaria audacia e sul suo sangue freddo, per giuocare la terribile partita che si presentava con pessime carte, e colla speranza di vincere ancora.

La scialuppa, spinta dai suoi dodici remi energicamente manovrati, varcò la baia ed approdò dinanzi alla gettata, dove l’attendeva il carro dalla cupola dorata e le colonnine bianche, tirato dagli zebù.

– Seguitemi alla corsa – disse Yanez ai suoi uomini, mentre i piccoli bovi partivano, galoppando abbastanza bene.

I dodici malesi, abituati alle lunghe corse attraverso alle foreste, si erano slanciati dietro il carro, tenendosi ben vicini.

In meno di dieci minuti giunsero dinanzi al bellissimo palazzo del Sultano tutto bianco e leggero, con cupolette e lunghe gallerie.

Mezza compagnia di rajaputi si trovava schierata dinanzi alla porta.

Yanez la passò in rivista; poi preceduto dal segretario salì un grandioso scalone illuminato da un gran numero di lanterne cinesi, le quali lasciavano piovere sotto di loro una luce dolce e tranquilla.

Ad ogni pianerottolo vi erano altre guardie in alta tenuta e completamente armate. Quell’apparato di forze diede un colpo al cuore di Yanez.

– Che vada proprio a gettarmi come uno stupido nella bocca della tigre del Borneo? – si era domandato con una certa apprensione. Ah, no, no; io spero di avere ancora qualche buona carta da giuocare.

Calma e sangue freddo, amico. –

Dopo d’aver attraversato alcune verande piene di fiori e di vasi cinesi e giapponesi, il segretario lo introdusse in una immensa galleria, dalle cui balconate si potevano scorgere benissimo le navi che entravano ed uscivano dalla baia.

Una tavola lunghissima era stata preparata.

Vasellame d’argento scolpito, bicchieri di vero cristallo scintillavano sotto le venti lampade cinesi.

Il Sultano, che indossava il solito costume di seta bianca e che portava al fianco una scimitarra dalla guaina d’oro, troppo pesante per le sue braccia, era già a tavola insieme coi suoi due ministri ed una mezza dozzina di cortigiani dalla pelle assai oscura e che indossavano dei sarongs assai vistosi, a fiorami larghi.

– Ah, siete qui, milord! – esclamò vedendo entrare Yanez. – Vi fate aspettare.

– Sono tornato tardi, Altezza.

– Dove siete stato dunque?

– A cacciare in alto mare.

– Ed avete preso?

– Quattro miserabili rondoni di mare, che i pesci-cani si sono mangiati sotto i miei occhi.

– Deve essere bello cacciare in mare, a bordo d’una rapida nave come la vostra.

– Qualche volta sì, Altezza.

– M’inviterete domani a fare una corsa?

– Il mio yacht è a vostra disposizione.

– Allora possiamo cenare. –

Dei giovani malesi s’avanzarono tosto, portando su dei grandi piatti d’argento fritture di pesce, arrosto di babirussa, cavallette in salsa piccante, delle mostruose frittate.

Yanez aveva fatto cenno all’uomo che portava il canestro pieno di bottiglie.

– Altezza, – disse permettete di offrirvi quanto ho di meglio a bordo del mio yacht.

– Voi siete ben gentile, milord, – rispose il Sultano con un certo sorrisetto che non tranquillizzò affatto Yanez.

La cena, quantunque assai abbondante, fu rapidamente divorata, poi, dopo le frutta, Yanez sturò una bottiglia di champagne ed empì il bicchiere del Sultano, dicendo:

– Lunga vita a Vostra Altezza.

– Dove si fabbrica questo vino? – chiese il Sultano, il quale aveva già vuotato d’un colpo il bicchiere.

– In Francia, Altezza.

– È un paese che ho udito solo vagamente nominare.

– Vi piace, Altezza?

– Domani, se ne avete delle altre di queste bottiglie, le vuoteremo a bordo del vostro yacht. –

Quella insistenza di recarsi a bordo della sua piccola nave aveva messo una pulce in un orecchio a Yanez. Guai se non si fosse sbarazzato del vero ambasciatore!

Il capitombolo sarebbe stato completo.

Fu portato del moka eccellente, servito in tazze giapponesi color del cielo dopo la pioggia, poi il Sultano, che pareva molto di buon umore, rovesciandosi improvvisamente sullo schienale della sua larga e comoda sedia di bambù sormontata da uno stemma vistoso che rappresentava un’isola fra il mare burrascoso, chiese bruscamente a Yanez, il quale non aveva mancato di accendere la sua sigaretta, mentre i ministri ed i favoriti masticavano noci d’areca, con una sensualità bestiale, lanciando sul bianco pavimento dei ripugnanti getti di saliva rossastra.

– Sapete, milord, che cosa si dice nella mia capitale?

– Non mi sono mai occupato dei pettegolezzi degli altri – rispose il portoghese, il quale conservava un sangue freddo meraviglioso.

– La voce è grave, milord e nella mia qualità di Sultano io devo appurare che cosa ci può essere di vero in quelle dicerie che vi offendono molto da vicino.

– Chi, Altezza? – chiese Yanez.

– Voi.

– Che cosa si dice dunque di me? Dite pure Altezza. –

Il Sultano esitò qualche istante a rispondere, poi disse:

– Quando siete uscito dalla baia, non avete incontrato delle scialuppe piene di naufraghi, rimorchiate da una cannoniera?

– Sì, le ho incontrate.

– Quella cannoniera ora non è più ritornata, milord, – disse il Sultano, con voce grave.

– E spero che non tornerà mai più – rispose audacemente il portoghese.

– Perché?

– Perché in questo momento si trova coricata sul fondo del mare, completamente crivellata dalle mie artiglierie.

– L’avete assalita?

– Avevo ricevuto ordine formale dal mio governo di dare la caccia a quella nave a vapore che apparteneva al rajah di Balaba.

– Non è possibile! – esclamò il Sultano. – Aveva la bandiera olandese sul suo albero. Io l’ho veduta perfettamente da questa galleria.

– Una bandiera non vuol dir nulla, Altezza, – rispose Yanez sorridendo. – Si fa presto a cambiarla. Come vi ho detto quella cannoniera era stata acquistata, non si sa ancora presso quale stato, dal rajah delle isole, coll’evidente intenzione di corseggiare il mare. Spero che non vorrete darmi a bere, Altezza, che quel rajah non eserciti la pirateria su vasta scala.

– Non lo nego – rispose il Sultano. Ho avuto da dolermi di lui parecchie volte e la lezione che gli avete data in nome dell’Inghilterra l’approvo pienamente. L’avete dunque affondata quella nave?

– Dopo un combattimento durato appena qualche ora.

– È bene armato il vostro yacht?

– Ed anche bene montato, – aggiunse Yanez.

– E ditemi, milord, i vostri pezzi non hanno fatto fuoco su nessuna altra nave?

– No, Altezza.

– Eppure vi sono delle persone che hanno lanciato contro di voi delle terribili accuse. Voi sareste responsabile dell’affondamento d’un vapore che veniva dal nord.

– Devono aver scambiato il mio yacht per un altro e può anche darsi, poiché mentre navigavo verso la baia, mi parve d’averne veduto uno filare a tutta velocità all’orizzonte.

– Un altro yacht?

– Sì, Altezza.

– Appartenente a chi?

– Ah, questo non lo so.

– Che il rajah delle isole si prepari a farmi la guerra? – si chiese il Sultano con voce tremante.

– Finché ci sarò io, nessuna nave entrerà nel porto, se non sarà di commercio. Siete ora convinto della mia innocenza?

– Mi resta ancora un dubbio.

– Che cosa vorreste fare?

– Nella veranda attigua ci sono trenta o quaranta dei naufraghi giunti colle scialuppe. –

Yanez impallidì, ma non perdette il suo sangue freddo.

– Fateli venire dunque – disse.

Io li confonderò. –

Il Sultano batté le mani.

Una porta, che fino allora era stata custodita da quattro rajaputi, fu aperta, ed i naufraghi entrarono guidati da John Foster, il capitano del vapore affondato.

Vi erano uomini ed anche signore, e queste non erano meno furibonde di quelli.

Yanez si era alzato per sfidare meglio la bufera che gli si addensava sul capo.

Il capitano, vedendolo, lo minacciò col pugno e gridando:

– Ecco l’infame pirata!

– Sì è quello che ha affondata la nostra nave senza alcun motivo.

– Fatelo impiccare!

– Vendetta! Vendetta, Altezza! –

Yanez li lasciò dire, guardandoli ben bene ad uno ad uno, poi avendo potuto il Sultano ottenere un po’ di silenzio, disse:

– Siete ben certi che sia stato io od un altro?

– Voi! – urlò John Foster. – Vi ho riconosciuto.

– Vi sono delle persone che si rassomigliano.

– Voi siete il pirata!

– Io vi mostrerò ora che voi stati affondati da uno yacht che non era il mio.-

Fra i naufraghi aveva veduto Lucy Wan Harter, la bella olandese, la quale aveva assistito alla scena tumultuosa senza aprir bocca.

– Signora, – le disse, muovendole incontro – è vero che quattro settimane or sono noi siamo stati insieme, ad un thè danzante offerto dal governatore di Macao?

– Verissimo – rispose la donna, malgrado le occhiate furibonde dei suoi vicini.

– Che divisa indossavo quella sera?

– Quella d’ambasciatore inglese.

– È troppo! – vociò John Foster, agitando le braccia come le ali d’un molino.

– Tacete! – disse il Sultano. – Milord, riprendete la parola.

– Quella sera a questa signora io ho regalato un anello che brilla ancora in un suo dito. È vero?

– Verissimo – rispose l’olandese sempre calma.

– Voi vedete, Altezza, che queste persone si sono ingannate. Qualche altro yacht può averli assaliti e colati a fondo, guidato da un uomo che per una singolare combinazione mi rassomiglia.

– Vi si inganna, Altezza! – gridò John Foster, che pareva lì lì per scoppiare dalla bile. – Io accuso formalmente quell’uomo di aver affondato il mio vapore e di aver portato via un personaggio che si diceva ambasciatore. Se si visitasse il suo yacht lo si troverebbe ancora.

– Basta! – disse il Sultano. – Coi vostri urli non avete provato niente, ed io debbo credere alle parole di quella signora. Potete ora ritirarvi. –

Yanez fece un segno a Lucy Wan Harter, affinché non uscisse col gruppo. John Foster fu l’ultimo a varcare la porta della veranda e, tendendo nuovamente il pugno verso Yanez, gli gridò:

– Non sarò contento finché non vi avrò ammazzato. –

Il portoghese rispose con un’alzata di spalle.

– Voi dunque, signora, – disse il Sultano, facendola sedere alla sua tavola – affermate di aver conosciuto a Macao milord.

– L’ho detto e lo sostengo.

– Indossava la divisa d’ambasciatore?

– Sì, Altezza.

– Allora vi è qualche briccone che vi rassomiglia straordinariamente, milord, – disse il Sultano. – Vorrei scovare quell’uomo ed appiccarlo all’antenna della mia bandiera.

– Per ora non c’è da pensarci, Altezza, – rispose Yanez. – Fatto il colpo, non sarà così stupido da ritornar qui.

– Mi viene ora un dubbio, milord.

– Quale?

– Che quei naufraghi abbiano scambiata la cannoniera del rajah delle isole per il vostro yacht.

– Lo sapremo subito. –

Si volse verso la bella olandese che stava sorseggiando un bicchiere di champagne, e le chiese:

– L’attacco è avvenuto di giorno o di notte, signora?

– Di notte e molto inoltrata.

– Chi guidava quegli uomini?

– Un personaggio che vi rassomigliava.

– Vedete, Altezza, che quei naufraghi mi hanno accusato a torto. Quella sera erano ciechi come talpe e, probabilmente, ubriachi, ciò che accade sovente ai marinai inglesi. Altezza, i vostri ordini per domani. Voi mi avete detto che desiderate visitare il mio yacht e fare una corsa al largo.

– Dopo il mezzodì sarò sulla vostra nave. –

Yanez affondò una mano nella tasca e trasse una manata di pietre preziose, le une più splendide delle altre e le depose sulla tavola, facendo sprigionare dalle loro faccettature lampi bianchi, rossi, verdi, azzurri.

– Altezza, – disse – queste le distribuirete fra le vostre donne.

– Dopo che mi sarò servito io – rispose il Sultano, il quale fissava le pietre con due occhi scintillanti.

– A questo penserete voi. –

Si alzò e porse galantemente il braccio alla bella olandese, poi, rivoltosi al Sultano soggiunse:

– Finché quel furibondo capitano non se ne sarà andato, voi sarete mio ospite, Altezza. Quell’uomo è capace di tutto, anche di uccidervi.

– Fortunatamente ci siete voi, milord.

– Vi assicuro che quando comincio una battaglia non faccio nessuna economia di proiettili. Si mostri e lo calerò a fondo.

– E farete bene a non risparmiarlo, milord.

– Basta che lo incontri e vedrete che cannonate gli sparerò nei fianchi. Posseggo dei pezzi d’una potenza grandissima.

– Dovreste farmene avere anche a me – disse il Sultano.

– Chi vi minaccia?

– Quello yacht misterioso che va, viene, affonda navi in alto mare, turba i miei sonni. Vorrei anzi farvi una proposta, milord.

– Dite pure, Altezza. –

– Se facessimo una corsa fino all’isola di Balaba, per mostrare a quell’insolente tirannello che ho dei pezzi così grossi da spianargli la capitale? Accettereste, milord?

– Sì, purché mi procuriate un ottimo pilota pratico di quelle scogliere e di quei frangenti.

– Vi manderò a bordo il mio grande ammiraglio.

– Benissimo, Altezza.

Faremo colazione a bordo del mio yacht, poi andremo a cacciare le rondini di mare sulle sponde di quelle isole. Si dice che siano salangane, è vero?

– Sì, milord.

Voi mi permettete di far tuonare i vostri pezzi contro la capitale del rajah delle isole.

– Gliela incendieremo, Altezza.

– Milord, buona notte. –

Yanez aveva ridato il braccio alla bella dama bionda, la quale, pur conservando un gran sangue freddo, apparve piuttosto inquieta per le minacce di John Foster.

– Non tremate, signora, – le disse Yanez – sono qui io a proteggervi e tengo sotto le mie mani una scorta capace di montare all’abbordaggio anche in questo momento. Quel Foster avrà da fare con me. Altezza, a domani. –

La scorta si era messa in fila, colle carabine ad armacollo per essere più pronta a far fuoco, e con i pesanti e terribili parangs alla cintola.

Il drappello staccò una lanterna cinese e lasciò il palazzo del Sultano, inoltrandosi attraverso le oscurissime viuzze della capitale del sultanato.

– Grazie, signora, – le disse Yanez.

– Di che cosa? – gli domandò la flemmatica olandese.

– Di avermi salvato.

– È costato così poco. Una semplice menzogna, che nessuno poteva contraddire.

– E che, ritardata, mi avrebbe creato dei gravissimi imbarazzi col Sultano.

– Tutto è finito bene ora, milord, ed il Sultano non vi seccherà due volte.

– Eh, non bisogna fidarsi di questi orientali doppi e falsi. –

Così discorrendo, sempre seguiti dalla scorta, si erano avanzati su una via piuttosto larga, fiancheggiata da un numero infinito di viuzze.

Yanez che si teneva in guardia, aspettandosi qualche brutto tiro da parte dell’irascibile John Foster, ad un certo momento si era fermato, dicendo:

– Passate dietro di me, signora. Attenti! –

Delle ombre erano sbucate da un viottolo ed avevano invasa la strada.

Dovevano essere certamente i marinai del piroscafo affondato.

Due colpi di pistola rintronarono, squarciando coi lampi la profondissima oscurità.

Yanez si gettò prontamente da un lato e comandò:

– Fuoco! –

La scorta fece una scarica, spazzando la via. Si udirono urli, bestemmie, gemiti; poi una voce minacciosa tonò in mezzo all’oscurità:

– Cane! Avrò la tua pelle! –

Era John Foster.

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