Capitolo XIII – La canoa

La capanna di Giro Batoë si rizzava a poca distanza dalle rive di un ruscello, al coperto di un grande artocarpo che la proteggeva contro i raggi cocenti del sole e contro le pioggie. Era una baracca anziché un’abitazione, capace di ricoverare tutt’al più un indigeno che non sapesse procurarsi di meglio nel mezzo della foresta. Era bassa quanto mai, stretta tanto da potervisi appena muovere, costretta grossolanamente con rami intrecciati a erbe e col tetto terminante a cupola, mal formato, coperto di foglie d’arecche, una mezza dozzina delle quali erano state più che sufficienti a tale uopo.

L’interno non valeva meglio dell’esterno, tutto riducendosi a un letto di foglie secche, a una provvista di legna, a una scodella gigantesca di terra cotta, frutto dell’industria indigena e a due sassi mezzi sepolti nella cenere che servivano di camino. Non si poteva star comodi, ma a ogni modo offriva un rifugio e una difesa contro i venti e gli abitanti troppo pericolosi della foresta.

Giro Batoë, nell’entrare, fece fuggire un mondo d’insetti che avevano di già preso alloggio, e fece gli onori della capanna al capitano che non pareva malcontento di prendere un po’ di riposo e di satollarsi.

— Vedete capitano la mia abitazione non offre comodi di sorta, ma è sempre preferibile alle abitazioni degli indigeni che puzzano d’olio di pesce e di carne corrotta. Se volete dormire avete un letto che sarà forse migliore di quello che offre la foresta; se avete sete vi ha una scodella sempre ripiena di acqua limpida; se avete fame vi sono delle frutta e una dozzina di costolette di babirussa giovane che ho avuto la fortuna di sorprendere nel suo covo.

— Non domando di più, Giro Batoë; è anche troppo quando si ha fame e si sa di avere dei bracchi a due gambe alle calcagna. Accendi un po’ di fuoco e arrostisci un pezzo di carne.

— Non avrete d’aspettare che si cucini, capitano, e frattanto sbarazzatemi, se vi piace, un po’ di quelle frutta che occupano mezza abitazione. Troverete degli ananassi succolenti, delle patate che non avete mai gustato a Mompracem, delle frutta d’artocarpo d’inverosimile grossezza e delle noci di arecche che non domandano che di essere masticate. La mia dispensa è a vostra disposizione.

Il Malese, intanto che Sandokan poneva a profitto le parole di lui assaltando un cavolo palmista che non pesava meno di venti libbre, afferrò due pezzi di legno e si mise a fregarli l’un contro l’altro fino a trarre una fiamma colla quale accese le legne accumulate sul primitivo focolare.

— Sapete, capitano, che questo fumo potrebbe essere scorto dagli Inglesi? Non sarei per nulla meravigliato se fra qualche ora ci facessero una sgradita visita.

— E che, Giro Batoë, ti danno tanto a pensare adunque essi? — chiese Sandokan che divorava un pezzo di cavolo il cui sapore gli rammentava quello delle mandorle. — Io me ne infischio di tutti i soldati di Labuan.

— Non è per me, capitano, ma per voi. Se tra coloro che ci inseguono, vi fosse qualcuno che anche sotto la truccatura di sergente vi conoscesse?

«Avete un’aria troppo fiera, uno sguardo troppo vivo per credervi un indiano.

— Non dartene pensiero, tigrotto mio. Se essi capitano mi darò l’aria di uno stupido indiano, e comanderò loro di fare un fronte indietro verso il sud. Non vi ha che un uomo che io temo, il baronetto William, ma è assai lontano.

— Oh! Avete fatto delle conoscenze? — chiese Giro Batoë che metteva sui carboni ardenti un grosso pezzo di babirussa.

— E perché no? Ho trovato modo di stringere amicizia con personaggi alti, con baroni e conti io, il pirata che essi volevano appiccare io, la Tigre della Malesia! — Sandokan diede un gran scroscio di risa, al quale fece eco il Malese.

— Suvvia — continuò, — ci rivedremo fra breve con quel povero lord James che mi lasciò scappare senza soddisfare il conto dell’ospitalità accordatami. Sai Giro Batoë, che fra una diecina di giorni noi ritorneremo su quest’isola a dispetto di tutte le giacche rosse e dei loro piroscafi?

— Oh! capitano! — esclamò il Malese sorpreso. — Voi pensate di ritornare? Si tratta di fare un massacro di tutti gl’Inglesi della colonia? Se è così, ci prepareremo a mordere.

— Non si tratta di far scorrere un fiume di sangue, Giro Batoë — disse Sandokan con voce sorda. — Ho un appuntamento.

— Con chi?

— Non chiedermi nulla, Giro Batoë. Solo tieni in mente ciò che ti dico: questo appuntamento darà un colpo mortale a Mompracem.

— Voi mi fate paura.

— Non una parola di più su questa faccenda. A pranzo, ora che l’arrosto è pronto. Questa notte penseremo a metterci in mare colla prua volta al nostro nido.

Il Malese levò il babirussa dai carboni e lo presentò al capitano su di una gran foglia d’arecche, poi andò a frugare in un angolo della stanza, sollevò la terra colla punta del kriss, trasse una bottiglia a metà spezzata, ma ricoperta accuratamente da un pezzo di tela, e ritornò verso di lui guardandone il contenuto con occhio ardente.

— Dell’acquavite, mio capitano! — diss’egli deponendo la bottiglia dinanzi a lui. — Ho dovuto tanto lavorare per poterla guadagnare o meglio strappare agli indigeni, e la teneva nascosta come un liquido prezioso per rinforzarmi una volta preso il mare. Ora siamo due marinai, che non hanno bisogno di una sorsata per lottare contro le onde e contro i venti; potete vuotarla fino all’ultima goccia.

— Grazie, Giro Batoë, ma ne avrai la tua parte — rispose Sandokan che mangiava per due come un uomo che non è sicuro all’indomani di fare il medesimo pasto. — Orsù, devi avere fame dopo l’inseguimento che quasi ti costava o un braccio di meno o un sonno per tutta l’eternità. Siedi di fronte a me e fa gli onori della tua capanna. Se vuoi questa notte avere del coraggio per passare sotto il naso degli incrociatori e dinanzi la bocca dei loro cannoni, e della forza per manovrare al remo, se il vento ha la malaugurata idea di non soffiare, empi il tuo stomaco. Domani forse non ne avrai il tempo.

— È giusto, capitano — rispose il Malese, che assalì vigorosamente l’arrosto, masticando con certi denti da far invidia a un gaviale. — E supponendo che una palla di cannone, guidata da una mano cattiva, venisse a sfasciare il nostro povero canotto, che si farà? Vedete, sono cose che potrebbero capitare.

— Ebbene, non sei capace di nuotare forse? Ci tufferemo e guizzando sott’acqua come i pesci raggiungeremo la costa e di là la capanna. Gli alberi non mancano, le nostre armi hanno ancora del filo per tagliare, il fuoco si fa presto ad accenderlo, e nulla di più facile con tutto ciò costruire una seconda canoa. Passeranno due giorni, quattro, una settimana, un mese se vuoi, ma bisognerà che una volta o l’altra gl’incrociatori prendano il volo per altri lidi. Sarà quello il momento per ritornare a Mompracem. E poi, credi tu che i nostri amici non si metteranno in mare? Il Portoghese, per esempio, non ignora che la mia intenzione era quella di venir a incrociare sulle coste di Labuan per vedere la Perla. Quando vedrà passare i giorni senza che noi abbiamo a mandar nuove, s’immaginerà che ci è accaduta una disgrazia.

— Lo credo, e poi quando io sono a fianco di voi, mi sembra di essere a Mompracem.

Sandokan si mise a sorridere, poi vuotò mezza acquavite e porgendo la bottiglia al compagno che allungavasi per vedere se ne rimaneva una goccia:

— Bevi, Giro Batoë, e rinchiudimi la capanna. Il sole è ancor alto e a mio dire non devono essere ancora le quattro; abbiamo del tempo prima che diventi notte oscura. Non si potrà dormire una volta a bordo della canoa. Nulla di meglio d’approfittare dell’occasione.

— E se vengono gl’Inglesi? — domandò il Malese, che tremava per Sandokan.

— Te lo dissi ancora, li manderemo al sud — e la Tigre si distese sul letto di foglie colla faccia abbuiata e la mente fissa alla giovanetta, che temeva di abbandonare nelle braccia del lord e forse in quelle del baronetto William.

Il Malese vuotato sino all’ultima goccia il contenuto della bottiglia, spense il fuoco, chiuse la porta e si aggomitolò in un angolo della capanna sognando di trovarsi già a Mompracem in mezzo ai suoi compagni avvoltolandosi sui frutti di tanti saccheggi e librandosi su cento bottiglie di acquavite.

Sandokan però non fu capace di chiudere occhio. Non già per tema del nemico, né per le difficoltà che poteva incontrare nell’abbandonare le coste di Labuan, ma perché sentivasi atrocemente morso da una terribile gelosia e assalito da una folla di tetri pensieri che invano cercava scacciare.

Che poteva mai essere accaduto di Marianna dopo che egli si era precipitato dalla fenestra? Che era avvenuto fra il lord e il baronetto William? Quali misure mai avevano prese per infrangere l’amore nato fra l’ultima discendente dei conti Guillonk e la terribile Tigre della Malesia?

— Ah! — esclamò il pirata dimenandosi sul suo letto di foglie. — Darei mezza della mia vita per trovarmi ancora in quella abitazione. Povera Marianna, chi sa quali timori agiteranno il suo picciol cuore. Forse mi crederà vinto, prigioniero, insanguinato, fra le catene dei miei nemici e chi sa, fors’anche morto.

«Vorrei perdere goccia a goccia tutto il mio sangue pur di rivederla, purché strapparla da quelle angoscie, purché dirle che la Tigre della Malesia è viva e più viva anche di prima.

«Orsù, coraggio, che ne ho proprio bisogno. Questa notte fuggirò meco portando il suo giuramento e ritornerò alla mia isola, al mio covo e poi… sì, per Cristo, poi, dovessi farmi una seconda volta moschettare, dovessi perdere una seconda volta quaranta tigrotti, ritornerò. Ritornerò per istrapparla dalle mani di quell’odiato rivale, ritornerò per vendicare i miei prodi che caddero sotto il ferro delle giacche rosse! Sì, l’avrò, sarà mia, mia. E allora…

Il pirata si tacque portandosi ambe le mani agli occhi e sospirò dolorosamente.

— Allora farò ciò che lei vorrà. Non l’ho giurato io? Non le ho detto che per lei tradirei i miei tigrotti, darei un addio e per sempre alla mia vita d’avventuriere, alla mia isola, al mio mare e a tutto ciò che fino a oggi mi ha allettato, mi ha fatto vivere?

«Sì tutto farò per questa sublime giovanetta che ha saputo colpire l’inaccessibile cuore della Tigre della Malesia. Tutto farò per questa giovanetta che io amo, che io adoro, che io idolatro!

Il pirata passò il tempo pensando sempre alla giovanetta, che parevagli talvolta vedere dinanzi triste e lagrimante.

Quando il sole cadde all’occidente e le tenebre ebbero invaso tutti i recessi della foresta egli svegliò il Malese che russava come un tapiro.

— Andiamo, Giro Batoë, non perdiamo un momento di più — diss’egli. — La notte è oscura: le stelle e la luna sono coperte da un nero velo di nubi. vieni, Malese, vieni, che ho la febbre. Sento che se io restassi una mezz’ora di più mi rifiuterei di seguirti.

— Oh! che vi salta mai in testa? Vi sarebbe dubbio che…

— Zitto, per la barba di Allah! Zitto, Giro Batoë! — esclamò Sandokan quasi con ira. — Dov’è la canoa?

— Nascosta sotto un banano. Basterà farla scorrere sui truogoli per spingerla in mare.

— Vi hai cacciato qualche cosa entro?

— Ho pensato a tutto, capitano. Non manca né d’un albero, né d’una vela, né di pagaie. Di più, vi ho posto un gran vaso ricolmo d’acqua e una provvista di frutta capaci di nutrirci fino a Pulo Condor.

— Sta bene: andiamo, Giro Batoë. Ciò che non ci è di nessuna utilità, lascialo qui. Potrebbe darsi che domani avessimo a ritornare a questa capanna.

— Lo so io, capitano. Non sarà facile varcare la crociera, ma infine lo si tenterà. Udite come le foglie degli alberi stormiscono? È buon segno: il vento non mancherà e noi fileremo rapidi e in silenzio verso Mompracem. Forse domani potremo ridere di averla fatta bella alle giacche rosse di Labuan.

Sandokan non rispose e si mise in marcia, non già rapidamente come l’avrebbe voluto il Malese che sentivasi scottar la terra sotto i piedi, ma lentamente, stentatamente a malincuore.

A lui, che venti giorni prima avrebbe dato una delle sue braccia per poter ritornare a Mompracem, ora riusciva atrocemente penoso allontanarsi da quest’isola, sulla quale lasciava senza difesa la donna del suo cuore.

A ogni passo che faceva e che l’avvicinava al mare, parevagli che un lembo del suo cuore gli si staccasse e parevagli che la distanza che lo separava dalla Perla di Labuan accrescesse spaventosamente.

— Andiamo, andiamo — mormorò egli. — Tiriamo innanzi, siamo forti, fuggiamo. Poi, sì, poi ritornerò, ma ritornerò vincitore e la rivedrò in mezzo ai miei trionfi. Dieci giorni per me, sembrano l’eternità, ma passeranno.

La notte, come l’avevano predetto, era oscurissima, senza luna e senza stelle essendo coperte da grossi e foschi nuvoloni.

Non si vedeva a dieci passi lontano, ma il Malese era come un nittalopo e conosceva a menadito quei luoghi. Si cacciava senza esitare sotto i cespugli, in mezzo ai quali strisciava come un serpente, scalava come una scimia gruppi d’alberi che sbarravano il cammino, aggrappandosi alle liane e ai rotang e senza far rumori di sorta, quantunque avesse la certezza che il nemico si trovasse lontano e che Sandokan colla sua divisa di sergente avrebbe bastato per far abbassar qualsiasi moschetto.

Il suo compagno lo seguiva, imitando tutte quelle aeree manovre, taciturno, tutto concentrato nelle sue pene, col volto alterato da un atroce dolore.

Per un’ora continuarono a camminare, l’un vicino all’altro, poi Giro Batoë s’arrestò tendendo l’orecchio.

— Udite questo fragore che giunge quasi indistintamente sino a noi? — chiese egli.

— Lo odo: è il mare — rispose Sandokan. — Dove si trova la tua canoa?

— Qui vicino.

Egli guidò la Tigre attraverso una folta cortina di fogliame e fatti cinquecento passi tornò a fermarsi additando il mare che brontolava al largo e le cui onde venivano a spumeggiare ai piedi della foresta.

— Ci siamo — diss’egli sottovoce. — Vedete laggiù, sotto le foglie di quel banano qualche cosa di nero che ha una forma allungata? È la canoa.

— Andiamo a dare un’occhiata sulla spiaggia. Fa oscuro ma si può distinguere un incrociatore che dorme all’âncora.

— Ah! — esclamò Giro Batoë. — Se quei maledetti fossero andati al sud! Ma non vale; siamo tanto piccini rispetto a essi, che non ci vedranno.

I due pirati guadagnarono il limite della boscaglia e scesero sulla costa. Il mare era negro come fosse diventato d’inchiostro e, fin dove giungeva lo sguardo, perfettamente deserto.

— Alla canoa! — comandò Sandokan facendo uno sforzo nel pronunciare quella parola che per lui era tremenda.

Il Malese lo condusse sotto il banano, che colle sue gigantesche foglie nascondeva per intero l’imbarcazione. Sandokan l’esaminò attentamente. Era una pesante barcaccia scavata nel tronco d’un albero col fuoco e col ferro, e somigliante a quelle che adoperano gli indiani dell’Amazzoni e i polinesiani del Pacifico.

Sfidare il mare con simile battello dalle forme barocche era follia, sarebbe bastata un’onda per capovolgerla, ma i due pirati non erano gente da dare indietro. La fecero scorrere sui truogoli e in meno che lo si dica la spinsero in mare. Il Malese fu lesto a saltarvi entro e a prendere i remi.

— Venite, capitano, venite! — diss’egli. — La strada fra mezz’ora non potrebbe essere più libera.

— Un minuto ancora, Giro Batoë — rispose Sandokan, con voce sorda. — Poi andremo a Mompracem.

Strappò un pezzo di carta da un libricino, frugò nelle tasche, trasse una matita e per quanto la notte fosse oscura scrisse a gran caratteri queste parole:

«A lady Marianna Guillonk.

«Varcate le linee nemiche felicemente, imbarcato per Mompracem. Chi avesse a trovare la carta, portarla immediatamente a lei. Ordine di lord James Guillonk.

«Whu-Pulau il Malese».

L’appese a un ramo basso, in maniera da esser veduto a qualche distanza, poi balzò nella canoa chiudendo gli occhi e gettando un sospiro che sembrava un profondo ruggito.

— E ora — diss’egli, — a Mompracem!…

Il vento soffiava dall’est, vale a dire propizio. L’albero fu rizzato, la vela tesa e la canoa leggermente sbandata, cominciò a filare rapidamente verso l’ovest lasciandosi dietro una striscia fosforescente che andava oscurandosi mano mano che si allontanava dalla costa, frapponendo fra il cuor del pirata che si sentiva commosso per la prima volta e quello della giovanetta traboccante d’angoscia e di spavento, il mare della Malesia.

Il pirata si assise a poppa manovrando al remo che serviva di timone, e il Malese a prua alla vela, l’uno taciturno e cupo e l’altro sorridente e felice, l’uno cogli occhi sanguinosamente fissi su Labuan che allontanandosi perdevasi fra le tenebre, l’altro cogli occhi fissi verso il punto ove sorgeva Mompracem che andava man mano avvicinandosi.

— Orsù — disse il Malese che aveva notato quel rapido cangiamento operatosi nel capitano. — Diventate cupo ora che si tratta di avvicinarsi alla nostra isola? Si direbbe che rimpiangete quasi Labuan.

— Sì che la rimpiango — mormorò con voce sorda Sandokan. — La rimpiango, Giro Batoë!

— Oh! Avete forse lasciato qualche cosa laggiù che vi dispiace di abbandonare? In fede mia, che comincio a credere che Labuan vi abbia ammaliato. Eppure — continuò il Malese, — ci si dava una caccia accanita, ci si inseguiva vigorosamente per i boschi e si cercava tagliarci la via per mare. Consolatevi, capitano, di averla fatta grossa agli Inglesi. Vorrei domani esser io là, a vederli mordersi le dita pel furore e per udir le maledizioni delle loro donne. Sapete, capitano, che ci odiano anch’esse.

— Oh! Non tutte! — esclamò Sandokan torcendo la pagaia fino al punto di farla gemere.

— Oh! — mormorò Giro Batoë sorpreso. — Trovate forse, capitano, che quelle vipere sieno da meno degli uomini?

— Taci, Giro Batoë! Se tu avessi a ripeterlo quell’insulto, mi sentirei capace di precipitarti nei flutti!…

Vi era un tale accento di minaccia, un che di imperiosità, che il Malese non ardì parlare. Egli si accontentò di guardare il pirata che fissava Labuan con due occhi di fuoco, comprimendo i battiti del cuore con ambe le mani e la faccia sconvolta da un terribile dolore.

— Gl’Inglesi l’hanno stregato! — mormorò Giro Batoë guardando la Tigre con occhio compassionevole.

Il vento si manteneva stabile. La canoa filava rapidamente più di quello che si avrebbe potuto credere, malgrado la sua pesantezza e il suo scafo barocco che infrangeva le onde anziché tagliarle. In capo a mezz’ora si trovava a più di due miglia da Labuan che cominciava a scomparire del tutto fra le tenebre.

Il Malese, lasciando il capitano in preda ai suoi pensieri, temendo che interrompendolo non avesse a effettuare la minaccia, di cui lo sapeva capace, si teneva all’erta vegliando attentamente cogli occhi volti ora al sud, ora all’est, all’ovest e al nord, per paura che qualche incrociatore si mostrasse improvvisamente sulla linea dell’orizzonte e prendesse la canoa a colpi di cannone.

Nessun naviglio si mostrò peraltro e la canoa poté veleggiare tranquilla tutta la notte, durante la quale Sandokan non fece una sol parola né staccò mai gli occhi da Labuan.

All’indomani ai primi raggi del sole si trovavano a più di venticinque miglia dalle coste di Labuan ormai scomparse da parecchie ore dall’orizzonte. Nessun aveva dormito sebben il mare si fosse tenuto fortunatamente calmo, e poi chi l’avrebbe pensato in quei momenti in cui il pericolo poteva capitare da un istante all’altro? Sandokan, che man mano che si allontanava, provava tutte le dolorose impressioni di un cuore che amava furiosamente e i morsi di una terribile gelosia che nessuna cosa avrebbe valso a soffocare, non l’avrebbe fatto, e il Malese che fremeva dalla gioia all’idea di avvicinarsi a Mompracem e di averla fatta alle giacche rosse non l’avrebbe sognato. Di più, la manovra esigeva delle braccia vigorose e maestre per dirigere una imbarcazione così pericolosa, dove si correva pericolo di trovarsi nell’acqua alla prima raffica.

Quando il sole apparve del tutto sull’orizzonte il vento scemò di qualche poco ma non tanto da impedire di filar senza fatica due nodi. A quella leggera alterazione Sandokan, che teneva ancora gli occhi fissi verso il luogo ove era scomparso Labuan, si volse verso il Malese. Ma non era più l’innamorato della notte, era ridiventato la Tigre, il cui sguardo balenante, affascinante, magnetizzava.

— Quanta via credi tu che abbiamo fatto? — chiese egli dopo qualche istante di silenzio.

— Una trentina di miglia, Tigre della Malesia — rispose Giro Batoë e avrebbe voluto aggiungervi qualche altra parola, ma la minaccia della notte lo frenò.

Sandokan lo guardò a lungo fisso fisso.

— Ah! — esclamò egli alfine. — Credi tu che io meriti ancora il mio antico nome?

— Sì, capitano, e oggi, e domani, sempre. Sapeva io, che non avreste tardato a ridiventare il terribile uomo di una volta.

— Hai scorto in me qualche segno di debolezza, per credere che lo avessi perduto? Forse ieri sera quando lasciavamo le spiagge di Labuan?

— No, ma eravate agitato, mi pareva che foste un po’ impazzito. Parlavate sì stranamente, guardavate in certo modo la terra che noi ci lasciavamo a poppa e mi avete minacciato così bruscamente…

— Avevi ragione, Giro Batoë — disse Sandokan tristamente. — Ma se tu sapessi ciò che io soffriva qua entro… Basta, tutto è finito e ridivendo la Tigre della Malesia assetata di sangue e anelante la vendetta!

— Lo sapeva, capitano. Fu un lampo di pazzia che vi colse ieri sera.

Sandokan increspò le labbra ad un amaro sorriso e portò un dito alle labbra come per intimargli silenzio.

Stette un momento sopra pensiero, poi tornò alla pagaia mentre Giro Batoë si sedeva a prua alla scotta della vela, tenendo gli occhi fissi all’ovest. La canoa beccheggiando pericolosamente, affondando nei cavi delle onde, le cui creste spumeggianti giungevano fino ai bordi, riprese la via lasciandosi a poppa le Tre Isole.

La navigazione fu lenta pel vento che nelle ore più calde cessò dal soffiare. Alla notte vi fu qualche colpo di mare che empì a metà la pesante imbarcazione e qualche colpo di vento che obbligò i due pirati a prendere i terzaruoli per diminuire la superficie della vela.

Tutto il giorno seguente la canoa filò all’ovest sempre lottando penosamente coi marosi. Al cader del sole, il Malese che si teneva in piedi a prua, segnalò la tanto sospirata costa della selvaggia e temuta Mompracem.

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