Capitolo XVI – La spedizione di Labuan

L’audace quanto rapida risoluzione di Sandokan non aveva che uno scopo: impedire il matrimonio, si dovesse pure mettere a ferro e a fuoco l’intera Labuan, rubando la giovanetta che ormai si credeva in pieno diritto di far sua.

La spedizione, alla quale prendeva parte anche il Portoghese, fu deciso che avesse a comporsi per prima di un solo prahos montato da un numero limitato di scelti pirati, onde non allarmare gli incrociatori inglesi.

Sandokan non ignorava che una imprudenza poteva cagionare una vera catastrofe, come non ignorava che fosse capace di fare lord James per impedire che sua nepote avesse a cadere fra gli artigli della Tigre della Malesia.

Poteva darsi che il maledetto insospettito avesse ad abbandonare Labuan portando seco Marianna, e si ritirasse nei possedimenti inglesi di Sarawak sotto la potente protezione di James Brooke, e il pirata che sentiva di non poter guarire dalla terribile malattia che albergava nel suo cuore, voleva a ogni costo distruggere anche il più piccolo dei sospetti.

L’ordine di mettersi in mare venne, di conseguenza, subito dato. I pirati, che da tanto tempo agognavano questa spedizione su Labuan per dissetarsi, e trarne tremenda vendetta, al comando della Tigre si precipitarono come un sol uomo verso i prahos, agitando furiosamente scimitarre e scuri.

— Vendetta! Sangue! Sangue! Abbiamo sete Tigre! moriamo dalla sete! — erano le sole grida che si udivano uscire da quella folla frenetica entusiasmata.

Sandokan dovette usare tutta la sua autorità per impedire che s’imbarcassero tutti; egli ne scelse venticinque dei più risoluti, e dei più forti, anime perdute che avrebbero messo a sacco la Mecca stessa quantunque maomettani, vere tigri che non avrebbero esitato un solo istante a gettarsi anche su di un reggimento intero.

Uno dei più grandi e dei più solidi prahos, coi madieri rivestiti di lamine di ferro, armato di quattro cannoni da dodici e zeppo d’armi, fu subito messo a disposizione dell’audace banda.

Un momento prima di partire, mentre che l’equipaggio stava imbarcando una mezza dozzina di spingarde di grosso calibro, Sandokan chiamò attorno a sé tutti i pirati della costa e mostrando loro il Malese Gira Batoë:

— Ecco un uomo che ha la fortuna di essere coraggioso come una vera tigre — disse egli. — È uno dei due che sopravvissero alla sfortunata spedizione di Labuan. Mentre io parto, ubbidite a lui come ubbidivate a me.

Stette un momento silenzioso guardando il mare, poi traendolo verso la spiaggia:

— Ascoltami, Giro Batoë — gli disse. — Noi andiamo a Labuan; tu conosci la foce del fiumicello e puoi condurre dei prahos alla piccola palude senz’essere visto dagli incrociatori. Tu sai che venticinque uomini sono pochi per cozzare contro gl’Inglesi dell’isola che si tengono in guardia. Odimi bene ora: lascia scorrere due giorni, poi vieni a raggiungermi alla palude con una settantina dei più valorosi tigrotti e due prahos. Io sarò là ad aspettarti.

— Bene, capitano, vi sarò — rispose il Malese.

— Un’ultima raccomandazione, Giro Batoë. Fà sorvegliare attentamente il caporale; se ci scappa può rovinarci. Addio.

Ciò detto Sandokan, salutato da tutti i pirati, salì sul prahos dove l’aspettava Yanez.

— Partiamo — diss’egli brevemente.

A un cenno del Portoghese la gomena fu ritirata a bordo e le vele furono sciolte. Il piccolo legno abbandonò la darsena e uscì in pieno mare colla prua volta a Labuan.

Il cielo era sereno e il mare calmo come l’olio, però al sud apparivano certe nuvolette di una tinta particolare e di una forma strana, che non promettevano nulla di buono. Sandokan che oltre essere un cannocchiale vivente poteva chiamarsi un barometro vivente, fiutò qualche perturbamento atmosferico non troppo lontano. Tuttavia non se ne inquietò, prima conoscendo le buone qualità nautiche del suo legno che aveva lottato più volte coi più terribili cicloni, poi deciso di tutto sfidare purché approdare il più presto che fosse possibile a Labuan, dove i più forti motivi lo spingevano.

— Se alcuna forza umana fu mai capace di arrestarmi, meno ancora mi arresterà la tempesta — diss’egli al Portoghese. — Mi sento tanto forte nella passione da sfidare anche la natura.

— Credi che avremo tempesta? — chiese Yanez.

— Sì, fratello mio, e una tempesta che se non m’inganno ci farà rollare terribilmente.

— E non la temi?

— Temerla! Come posso temerla, quando Marianna m’aspetta, quando Marianna corre un pericolo? Vedi, Yanez, sono ammalato, ma atrocemente ammalato e a segno, che se io avessi a perdere la cara giovanetta, mi suiciderei. Ho la gelosia che mi avvelena il sangue, mi sembra avere mille serpi che rodano il cuore, mi sembra avere un vulcano qua, in mezzo al petto e che mi faccia ribollire il sangue. Bisogna che la faccia mia, come tu vedi, perché io possa guarire e la farò. Non mi fanno paura né le loro navi, né le loro forze, solo ho paura dei tradimenti, ma mi sento tanto forte e le forze mi vanno così crescendo man mano che mi avvicino a Labuan e che la passione ingigantisce da sfidarli. Sfiderei Maometto e Dio stesso.

— Ma vorresti tu cacciarti sotto il naso di qualche incrociatore, Sandokan, se esso avesse l’idea di sbarrarti la strada? Sarebbe pazzia, sarebbe un mettere in sull’avviso il lord ed il baronetto che si affretterebbero a ritirarsi in mezzo ai loro compatrioti se non trovano di meglio di battere in ritirata fino a Sarawak per essere più sicuri.

— E che, Yanez, vorresti tu che io dovessi ritornarmene a Labuan un’altra volta? No, te lo giuro, fratel mio, attaccherò qualsiasi legno che mi sbarrerà la via.

— Non dico questo. Se si vuol arrivare in tempo d’impedire il matrimonio e di prevenire la loro fuga, bisognerà andar innanzi anche se dieci incrociatori vegliano. Ma abbiamo prudenza, non destiamo all’armi che in questi momenti sono più che pericolosi; cerchiamo assumere l’aria di onesti trafficanti in rotta per Varauni tanto da ingannare i più astuti lupi di mare. Quando saremo fuor di pericolo faremo rotta falsa, e con quattro bordate e una arrancata, se il vento non ci sarà propizio, andremo a Labuan. Si troverà bene qualche fiumicello o qualche calanca da nascondere il prahos a occhi troppo indiscreti.

— Hai ragione, Yanez, giuocheremo di astuzia ora, poi giuocheremo col cannone.

— Meno che sarà possibile, Sandokan — disse il Portoghese. — Siamo venticinque e dei più risoluti, altri sessanta verranno dopo: benissimo, saremo in tutto novanta tigrotti, ma non bisogna commettere pazzie e urtarsi con tutta Labuan. A che creare imbarazzi quando si possono evitarli? Non mi hai assicurato tu, che la giovanetta ti seguirà ovunque?

— Sì, essa me lo ha giurato — rispose Sandokan il cui ricordo gli strappò un sospiro.

— Bene, nulla di più facile, una bella notte, il più presto che sia possibile onde evitare guai, andare al parco senza destar all’armi. Comprendi il resto. Se la rapirò senza far fracasso, quando gl’Inglesi si saranno accorti del bel tiro, noi saremo lontani e su falsa via perché non abbiano a raggiungerci coi loro dannati vapori che filano di più dei più rapidi prahos. Andremo sulle coste del Borneo per esempio, mentre essi fileranno verso Mompracem. Vi sarà un doppio giuoco.

— E credi tu che la villa non sia guardata, Yanez? Oh! Io li conosco quel lord e quel baronetto: essi sanno bene che sia capace di fare la Tigre. Dormiranno con un sol occhio o meglio ancora, saranno svegli con qualche compagnia di soldati o di marinai, coi quali bisognerà venire bravamente alle mani.

Il Portoghese si mise a mordere i mustacchi come faceva quando era imbarazzato.

— Io penso, Sandokan — disse egli, — che tu possa avere ragione. In tal caso ti suggerisco una via di mezzo senza aver bisogno di precipitare gli avvenimenti nel fondo dei quali si potrebbe trovare una seconda sconfitta e tu sai che si sfugge difficilmente due volte a simili pericoli. Non arrischiamo i nostri venti uomini contro delle muraglie dietro le quali vi possono essere delle centinaia d’uomini. Prendiamo le cose con calma e aspettiamo gli altri. Che ne dici?

Sandokan non rispose. Il suo sguardo dopo aver percorso il mare erasi arrestato sulla nuvoletta poco prima osservata che andava sempre più oscurandosi.

— Orsù, fratello, a che vai pensando? — chiese Yanez.

— Che il tuo piano potrebbe convenire ad altri ma non a me. Ma lasciamo le cose lì come stanno. Sai, Yanez, che le giacche rosse avranno un alleato?

— Un alleato? Forse il sultano di Borneo? O forse quel dannato Inglese che governa a Sarawak?

— Né l’uno né l’altro fino ad ora. Parlo dell’uragano che si avanza a gran passi. Il miserabile fra poco verrà a subissarci colle sue ondate. Ma non aver paura, Yanez, che lo sfideremo. Io andrò a Labuan a dispetto di tutte le tempeste del globo.

— Credi tu che il vento ruggirà?

— Sì e fortemente, ma saremo pronti a riceverlo. Lo vedrai, Yanez, domani a notte getteremo l’âncora sulle coste di Labuan.

Sandokan abbandonò il Portoghese che si era messo a guardare le nubi con qualche inquietudine, e andò a sedersi sul cannone di prua col capo stretto fra le mani e gli occhi fissi all’oriente fantasticando sui suoi progetti.

Egli si sentiva suo malgrado invaso da mille timori, non per la tempesta della quale se ne rideva, non per Mompracem che ormai era destinata a tramontare ma per la giovanetta abbandonata fra le braccia del lord e del baronetto.

L’impazienza lo rodeva come lo rodeva la gelosia. Calcolava la distanza che lo separava da Labuan, contava metro per metro la via guadagnata, trovando che il vento era debole e il suo prahos una carcassa.

Avrebbe voluto colla forza della sua passione animare quel legno, spingerlo e animare egualmente quel vento che a poco a poco scemava, e accorciare la via che per la prima volta in sua vita trovava terribilmente lunga.

Anche i suoi uomini, quantunque solamente animati dalla vendetta, che avevan giurato compiere e ben strepitosamente, s’impazientavano. Andavano e venivano pel ponte imprecando al vento che non trovavano abbastanza buono, cangiavano velatura ogni dieci minuti per cercar di accelerar la corsa aggiungendovi qualche nuovo fiocco di loro invenzione e ponendosi spesso ai remi, nonostante che il legno divorasse senza fatica i suoi quattro o cinque nodi all’ora e continuasse a crescere sotto i primi buffi di vento umido del sud e sud-ovest.

Dell’uragano che minacciava scoppiare seriamente, e che in quei mari sa infuriare e ben terribilmente, non se ne inquietavano di troppo. Abituati, sino dall’infanzia, a quei pericoli, che essi chiamavano di seconda classe, abituati a combatterli a bordo dei prahos, se ne ridevano. Tutto sarebbe terminato con qualche vela lacerata e dei buoni colpi di mare, un nulla infine che non avrebbe impedito di andarsene a Labuan e di approdarvi all’indomani al calar del sole.

Il vento accrebbe di velocità dopo il mezzodì quando si trovavano a una ventina di miglia da Mompracem, segno infallibile che la tempesta, che andava formandosi al sud, cominciava a predisporsi per iscoppiare o alla notte o all’indomani. Le nubi piccine e che potevano essere sfuggite a più di qualche occhio alla mattina, cominciarono con una mossa che avrebbe sembrato impercettibile a levarsi sull’orizzonte prendendo una tinta fosca e distendendosi su larga zona.

Chiunque, nel vederle, si sarebbe affrettato a virar di bordo e cacciarsi prudentemente in qualche sicura baia aspettando che tutto fosse passato, ma Sandokan quantunque si trovasse a sole venti miglia da Mompracem, ove sapeva di trovar un rifugio più che sicuro, non lo pensò nemmeno e meno ancora lo pensarono i suoi uomini che avevano cieca fiducia in lui. Lo aveva detto che né gli uomini né le tempeste di tutto il globo lo avrebbero arrestato ed era uomo da mantenere la parola.

Che importava se il vento ruggiva, se il mare si gonfiava, se il prahos rollava e beccheggiava, se perdeva vele e alberi, quando lei era là, quando forse lo aspettava, quando si correva pericolo di non ritrovarla più mai?

Fosse stato pur sicuro di approdare a Labuan una seconda volta ferito o come naufrago, solo e con le giacche rosse alle calcagna a inseguirlo per la seconda volta attraverso le foreste, non gli sarebbe importato purché trovarsi a Labuan e giungere in tempo di rapirla prima della catastrofe.

Solo il Portoghese ebbe qualche timore sulla buona riuscita della spedizione. Egli l’espose a Sandokan.

— L’uragano si addensa, fratello mio. Sarai tu capace di sfidarlo impunemente? Il nostro prahos è un buon legno, non vi ha da dubitare, ma la via è ancora lunga e potrebbe darsi che dovessimo cambiare rotta. Non credi tu che sia cosa saggia poggiare su Mompracem fino a che la burrasca si sia un po’ sfogata? Il caporale inglese ha detto fra quattro giorni, quindi il tempo mi pare più che sufficiente per lasciar passare il tifone che ordinariamente non dura molto.

— Non pensarlo nemmeno, Yanez — disse il pirata. — Non ho mai avuto paura di una tempesta e meno l’avrò oggi che si tratta di Marianna. Un ritardo, mi capisci, potrebbe diventarmi fatale e un sospetto potrebbe precipitare la catastrofe. Anzi io penso che questo mare infuriato ci sia di aiuto per passare inosservati la crociera.

— E sui pericoli di un naufragio, hai tu pensato? Annegata la Tigre, sarebbe la morte di lady Marianna.

Il pirata si mise a sogghignare.

— Il naufragio non lo temo, e la morte della Tigre non avverrà né oggi, né domani, né mai. Mi sento invulnerabile e sento pure che toccherò le coste di Labuan sano e salvo!

Il pirata aveva pronunciato queste parole con una sicurezza tale da credere quasi che fosse egli il padrone assoluto dei destini umani.

Il Portoghese credette bene di lasciar lì il discorso ben sapendo che la Tigre non avrebbe ceduto. Persuadere un tale uomo, che credevasi invincibile, sarebbe stata follia.

La velocità del prahos si accelerò ancor più verso le sette della sera, raggiungendo i sei nodi, velocità più che bastante per trovarsi all’indomani sulle coste di Labuan. Pareva che il legno fosse diventato un vero pesce guizzante, meglio ancora pareva un gigantesco uccello che radesse le onde, il cui becco ne era il bompresso e le ali le enormi vele.

Qualche ora dopo verso il nord fu segnalato un grosso brigantino, un bel mercantile dal ventre rigonfio, per far uso di una frase piratesca, la cui vista destò qualche idea di saccheggio fra i pirati.

Ma Sandokan che non aveva né voleva perdere tempo, sebben la presa di quel vascello promettesse bei guadagni vedendolo venire dal sud, la via che ordinariamente tengono le navi provenienti dall’India, da Giava, da Sumatra o dal Timor e che si recano a Varauni o alle Filippine, cariche delle più preziose merci da far venir l’acqua in bocca a un pirata meno innamorato di lui o meno frettoloso, lasciò che il brigantino continuasse tranquillamente la sua via, il che fece dire a qualche pirata che la Tigre della Malesia era cangiata, certamente stregata durante il suo soggiorno nelle foreste di Labuan.

Tuttavia, è d’uopo dirlo, nessuno ardì mormorare; i più ammisero che se agiva così doveva avere le sue buone ragioni di cui non erano obbligati, né autorizzati a indagare.

Solo il Portoghese, che, come si disse, godeva una confidenza illimitata, ardì farne parola.

— Che diavolo — disse egli fra il serio e il malizioso, — hai tu già dimenticato il tuo mestiere, Sandokan?

— Forse — si accontentò di dire il pirata e poi, cangiando tono, — il brigantino, Yanez, non è già inglese, né m’interessa molto. A qual pro sacrificare uomini che oggi sono indispensabili quanto rari, pel capriccio di guadagnare delle stoffe o delle spezierie che non si saprebbe ove porle e perdere del tempo che è più prezioso di tutti gli ori della mia capanna! Non lamentarti troppo presto, Yanez, potrebbe venir un giorno che per volontà di lei abbia a stancarti di tante prede e assieme a te stancare i miei uomini.

— Bene, Sandokan — disse il Portoghese abbassando la voce, — potrebbe adunque darsi che tu tornassi la Tigre?

— Sì, se lei lo vorrà; non capisci che oggi la Tigre è incatenata e che la mia volontà non dipende che da lei?

— Ma cercherai almeno tu di persuaderla a seguirti a Mompracem e di diventare la compagna della Tigre? Guarda, perduto tu, fuggito con lei o morto, Mompracem cadrà. Perderà quella potenza che tu le avevi dato. Vivo tu, e ancor pirata, brillerà tanto, acquisterà una fama sì grande, da eclissare e far fremere gli stranieri annidati su questi mari. Vi sono centinaia di Malesi e di Dayachi, che alla prima tua chiamata, correrebbero a Mompracem a ingrossare la formidabile schiera dei pirati.

— Lo so, Yanez, e forse lo tenterò. Ma vuoi tu che io releghi lei in una isola selvaggia come la mia, fra gente che sa solo trar archibusate e menar il kriss e la scure? Vuoi tu che io ne faccia una piratessa di lei, così timida, così dolce, così buona? Vuoi tu che la getti in mezzo al sangue, che le mostri per ogni dove scheletri umani e stragi? Vuoi tu che la soffochi col fumo dei nostri moschetti, che la esponga a un eterno pericolo, che l’assordi con le urla dei combattenti, con gemiti di feriti, col ruggito dei cannoni? Dimmi, Yanez, lo faresti tu?

Il Portoghese lo guardò, crollando il capo con dubbio… e non rispose.

— No, Yanez — continuò il pirata con accento appassionato, — io non lo farò mai! mai!…

— Sicché questi sono gli ultimi giorni per Mompracem? Pensa, Sandokan, a quei tempi in cui tu brillavi per la tua potenza, a quei giorni in cui il ruggito della Tigre della Malesia spandeva il terrore per trecento miglia all’intorno, a quei giorni dove tu eri il padrone assoluto di questi mari.

— Ho pensato a tuttociò — rispose la Tigre con voce soffocata.

— Ebbene, Sandokan, e non ti ha detto nulla il cuore?

— Sì, l’ho sentito sanguinare.

— E nondimeno lasci morire la tua potenza, lasci morire la grandezza di Mompracem. Come puoi soffocare quei ricordi tanto cari?

— Non lo so, ma li soffoco. Vorrei allontanarli per sempre, vorrei distruggerli, non vorrei…, no, non vorrei mai essere stato la Tigre della Malesia.

— E tuttociò…

— E tuttociò per Marianna Guillonk — rispose il pirata quasi con ferocia.

— Ma bisogna bene che tu abbia ad amarla per anteporla alla tua gloria.

— Immensamente, Yanez. Giammai uomo al mondo amò come amo io la Perla di Labuan.

In quell’istante un lampo abbagliante squarciò le tenebre illuminando il mare che montava a vista d’occhio muggendo spaventosamente. Sandokan si scosse tutto: rialzò fieramente il capo come lo sapeva rialzare quando era Tigre e stendendo la mano verso il sud:

— La tempesta!…

Attraversò il ponte e si collocò alla ribolla del timone, nel mentre che i suoi tigrotti saltati in piedi si disponevano ai bracci delle manovre pronti a sostenere i primi assalti del mare.

— Avanti, uragano, io non ti temo — disse Sandokan. — Ti sfido!

I primi colpi di vento umido capitavano di già dal sud con quella rapidità che sogliono acquistare nelle tempeste, accompagnati dai primi colpi di mare.

Il prahos colla velatura ridotta si mise a filare all’oriente, tenendo bravamente testa agli elementi che cominciavano a scatenarsi, e senza deviare di una sola linea dalla rotta di Labuan non ostante i violenti rollii e beccheggi.

Però la tempesta, come si credeva, non iscoppiò interamente e la notte passò relativamente tranquilla, rotta solo dal muggito del mare e dallo scrosciar delle scariche elettriche che pareva crescessero a ogni istante d’intensità, dallo scricchiolar dell’alberatura che si curvava sotto i soffi ripetuti, dal fischiar delle corde che si urtavano le une colle altre scorrendo nei boscelli cigolanti e dal crepitar delle vele che sbattevano vivamente sotto i rollii o i beccheggi.

Sandokan in tutta la notte non abbandonò la ribolla del timone, e il Portoghese non lasciò un istante il ponte. Approfittando di quella tregua lasciata dall’uragano, aiutato dai pirati, si affaccendò ad assicurare i cannoni e le spingarde, armi la cui perdita sarebbe stata un’illimitata disgrazia, da che si correva verso le pericolose coste di Labuan. Nel medesimo tempo non si dimenticò di assicurare le imbarcazioni e qualche manovra che a suo credere non presentava una certa solidità.

All’indomani l’uragano si scatenò in tutta la sua terribile maestà, seguito da tutto un corteo di lampi, di fulmini e di pioggia. Capitò improvvisamente verso le dieci del mattino, mettendo sottosopra l’oceano che montò in un batter d’occhio.

Le nubi accavallate e minacciose sin dal giorno prima si illuminarono sotto la luce dei lampi, abbassandosi tanto da tuffare i loro negri lembi nel seno delle acque spumeggianti, le quali si urtavano fra mille fragori a cui rispondevano tutti i tuoni del cielo. Il povero prahos, vero guscio di noce che sfidava la natura irritata, fu battuto, soffocato sotto le montagne d’acqua che correvano all’assalto urlando; barcollava furiosamente sulle creste dei marosi irritati, veniva precipitato negli abissi per essere di poi sobbalzato nuovamente fino alle nubi, rovesciando tutti gli uomini e perdendo ora un lembo di tela strappatagli dal vento e ora un attrezzo portatogli via da un colpo improvviso di mare.

Con tuttociò, Sandokan non dava indietro, non diminuiva di un centimetro la superficie delle vele enormemente gonfie deciso a tenere la sua rotta per Labuan a dispetto della tempesta.

Fermo alla ribolla del timone, cogli occhi in fiamme, coi lunghi capelli sciolti al vento, irremovibile fra gli scatenati elementi che ruggivano a lui d’intorno, pareva ancora la Tigre della Malesia, che non contenta di aver sfidato gli uomini, sfidava la natura. I suoi pirati, aggrappati alle manovre, se ne stavano impassibili dinanzi a quei furiosi assalti del mare, conservando quella calma che è tanto necessaria all’uomo di mare in quei momenti supremi, e tenendo gli occhi fissi sulla Tigre pronti a eseguire i più pericolosi comandi a dispetto del vento e delle ondate.

Il prahos, un vero giocattolo, tutto coperto dalle sue immense vele che rumoreggiavano con iscoppi che somigliavano a scariche di piccoli pezzi d’artiglieria, non cessava un sol istante dal correre, tenendo bravamente testa al mare che sempre più infuriato avventava le sue ondate fino al mostravento degli alberi.

Si sbandava sempre più spaventosamente, si drizzava pari a cavallo imbizzarrito, gemeva maledettamente, si tuffava sferzando le acque colla prua, si lasciava rubare dalla coperta tutto ciò che non era ben legato, ma non dava indietro né torceva cammino di una sola quarta.

La terribile lotta continuò così il giorno intero e senza che l’uragano cessasse un sol minuto, anzi la sera raddoppiò d’intensità accrescendo così l’orror della notte.

La situazione peggiorò qualche ora dopo che si fe’ oscuro e a segno che Sandokan dovette suo malgrado lasciarsi andare un po’ al nord ma senza diminuire la superficie delle vele, che straordinariamente gonfie curvavano gli alberi minacciando di spezzarli.

Non vi si vedeva più; il mare saltava a bordo muggendo e coperto di candida spuma, scuotendo sempre più il povero legno che rollando disperatamente precipitavasi negli avvallamenti delle onde dalle quali non ne usciva che a gran pena e a prezzo di manovre e fatiche senza nome.

Lottare più a lungo, tenere ancora la via dell’est ostinatamente contrastata dal vento e dalle onde che andavano a gara per infuriare, quasi avessero giurato di misurarsi in una formidabile tenzone, sarebbe stata follia. Il legno cominciava a fendersi, i madieri minacciavano di disunirsi per dar passaggio a vie d’acqua e gli alberi di spezzarsi.

Il Portoghese lo vide, e capì che era imprudenza ostinarsi più a lungo a tener testa a quegli elementi scatenati. Si staccò dalla murata alla quale sino allora erasi tenuto aggrappato e stava per avvicinarsi a Sandokan per indurlo a cangiare rotta, quando una detonazione scoppiò improvvisamente al largo. Un istante dopo l’albero di maistra del prahos spaccato a metà da una palla di cannone, ruinava sul ponte!

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