Capitolo XXVII – La regina di Mompracem

Pur troppo Mompracem, l’inaccessibile nido dei pirati, la sede della terribile Tigre della Malesia, era stata attaccata e bombardata.

Gl’Inglesi, messi probabilmente al corrente della spedizione che Sandokan aveva intrapresa sulle coste di Labuan, seco portando il fiore dei suoi uomini, più che sicuri di trovare l’isola quasi indifesa, l’avevano improvvisamente e con forze schiaccianti assalita ed erano corsi un pelo di prenderla definitivamente e di dare l’ultimo colpo di grazia alla già crollante potenza dei pirati.

Ancora una mezz’ora di tempo, e forse meno, e il saccheggio avrebbe tenuto dietro alla distruzione delle trincee; ancora un ritardo, e tutti i cannoni sarebbero stati inchiodati, il villaggio interamente incendiato, la dimora della Tigre violata e la rossa bandiera della pirateria abbattuta e per sempre.

Quando Sandokan e i suoi uomini sbarcarono, tutti i pirati di Mompracem, la maggior parte feriti, stavano schierati sulla spiaggia, cupi, tremanti, colle teste chine sul petto come colpevoli dinanzi alla giustizia.

— Tigre della Malesia — disse uno dei capi facendosi innanzi a Sandokan che contemplava con truce espressione quelle ruine ancor fumanti. — Noi abbiamo fatto quanto era possibile per iscacciare il nemico che sbarcò nel momento che noi eravamo alla scorreria, seco portando il caporale inglese. Se tu credi che noi siamo colpevoli, subiremo senza lamento la condanna che tu ci imporrai.

Sandokan non rispose. Un doloroso sospiro sollevò l’ampio petto e crollò con gesto di scoraggiamento la testa. Egli guardò con ispavento lo scarso drappello di prodi, ridotto a una cinquantina di uomini dei cento e più che aveva lasciato; egli guardò quelle trincee sfondate che ormai non offrivano un riparo sufficiente contro la incalzante potenza degli Inglesi, a quel villaggio semi-arso, a quelle coste un dì tanto temute e or violate, e provò una terribile stretta al cuore.

— Tigre della Malesia! — esclamarono i pirati tendendo supplicanti le mani verso di lui.

Sandokan si prese la testa fra le mani con gesto disperato. Un rauco singulto gli montò alla gola.

— Andate, andate, miei prodi! — disse egli con accento straziante. — Vi perdono.

Egli gettò le braccia attorno al collo di Marianna che lo guardava tristamente e l’abbracciò senza dir verbo.

— Sandokan — mormorò la giovanetta. — Coraggio mio prode amico. È la fatalità che così vuole.

— Sì, Marianna, la fatalità — rispose Sandokan con impeto feroce. — La fatalità che s’è giurata di spezzare la mia potenza e d’infrangere compiutamente il cuore dell’antica Tigre. Ah! È troppo! È troppo, Marianna!

La giovanetta lesse sul suo volto tutti i dolori che laceravano la sua anima. Ebbe pietà e paura. Lo prese per le mani e traendolo dolcemente verso la spiaggia:

— Sandokan — gli disse con voce rapida ma ferma. — Tu rimpiangi la tua passata grandezza, tu soffri atrocemente, lo leggo nei tuoi occhi, non puoi dire di no. Senti, mio eroe, vuoi tu che io rimanga teco a Mompracem, fra i tuoi tigrotti? Vuoi tu che io divenga la moglie della Tigre della Malesia? Vuoi tu che io mi faccia piratessa, che io impugni come te la scimitarra, che io combatta al tuo fianco? Dillo, Sandokan, lo vuoi tu?…

La voce della giovanetta era ferma, ma si capiva quanto le costasse quella proposta. Lei, la giovanetta che si commoveva alla vista di un ferito, lei, la gentil Perla di Labuan assuefatta alla poetica vita dei boschi, trarla e tenerla in un’isola di pirati, a Mompracem, travolgerla fra le pugne, mostrarle stragi, morti e moribondi? Chi l’avrebbe fatto?

Sandokan ne fu commosso. La guardò con occhi stravolti, con ammirazione, ma comprese l’immenso sacrificio.

Si precipitò verso di lei quasi fuori di sé, l’abbracciò delirante, poi, traendola verso la costa:

— Tu sei divina! — le disse. — Tu sei insuperabile, ma io non voglio che tu diventi la moglie di un pirata, non lo voglio, no. Sarebbe una mostruosità che io ti obbligassi a rimanere a Mompracem, che io avessi ad assordarti coi fragor dei cannoni, colle urla dei feriti, che ti mostrassi ogni dì massacri orrendi e che ti esponessi ad un eterno pericolo.

«Due felicità sarebbero troppe, non le voglio. No, andremo lontani da questi luoghi, tanto che non possa udire né il tuonar dei bronzi, né le urla delle vittime. Non tentarmi, Marianna, non tentarmi. Lascia che abbandoni la mia potenza e la mia gloria e che si spenga il mio nome. Avrò te, e tu sarai più di tutto quello che io perdo.

— Ah! — esclamò Marianna. – È proprio vero adunque che mi ami più della tua isola e dei tuoi uomini!

— Sì, anima mia, più di tutti — rispose Sandokan baciando i suoi dorati capelli. – È destino che la mia potenza abbia a cadere, Marianna. Lascia che si compia questo destino inesorabile.

Egli tornò bruscamente verso la sua banda che lo guardava con viva ansietà.

— Compagni — diss’egli con quell’accento fermo, altero, risoluto che imponeva. — Io vi ringrazio di ciò che voi avete fatto sino ad oggi per me, per sostenere il mio nome, per compiere la mia tremenda vendetta contro coloro che mi straziarono il cuore, per difendere la mia isola e la mia bandiera. Tigrotti, io vi chiedo ancora un favore che probabilmente sarà l’ultima volontà della Tigre della Malesia, volontà che io voglio sperare che nessun di voi ardirà osteggiare.

— Parlate, capitano, parlate! — esclamarono ad una voce i pirati, affollandosi attorno a lui.

— Ascoltatemi, miei prodi. Il nemico ci è alle spalle; voi potete vederlo laggiù in quella cannoniera che fuma arditamente presso le nostre coste, e che non è altro che l’avanguardia.

Le giacche rosse hanno forti motivi per ritornare sulla nostra isola; quello di vendicare coloro che noi uccidemmo sotto le foreste di Labuan, e di strapparmi la donna che condussi meco; mia moglie!

«Fra qualche giorno essi saranno qui, ne ho il presentimento, e saranno qui numerosi e potenti più determinati ad espugnare l’isola che non lo fummo noi ad espugnare le Romades. Voi mi capite. Sarà l’ultima partita che noi giocheremo a Mompracem ma io voglio che questa partita s’abbia a vincere a ogni costo. L’ultima volontà della Tigre voglio che si compia con un corteo di scheletri e con un fiume di sangue!

— Tigre della Malesia — disse Balamê, uno dei capi — accanto a voi noi diverremo tigri pur noi, che a un vostro cenno sapranno morire come sono morti eroicamente coloro che pugnarono sulle coste dell’isola maledetta. Difenderemo fino all’ultimo anelito, fino a che avremo una goccia di sangue nelle vene e la forza di alzare un’arma la nostra Mompracem, voi e vostra moglie giacché lo volete. Ordinate: noi siamo pronti a sacrificare le nostre vite. Perché parlare ai vostri tigrotti di ultima volontà? Quale mai sarà l’audace che avrebbe tanto ardire di toccarvi colla sua scimitarra? Quale mai sarà la palla che non si spezzerà contro l’invulnerabile vostro petto?

Sandokan lo guardò commosso. E chi non poteva commuoversi alle parole di quei prodi, che, dopo aver perduto i loro compagni, offrivano ancora le loro vite a colui che era stato la causa delle loro sventure?

La Tigre ruggì in cuor suo di non poter spezzare le catene di Marianna e di riporsi alla testa di quegli eroi. Soffocò un singulto che salivagli alla gola.

— Compagni — diss’egli quasi con ira. — Vi ha la fatalità che dopo averci perseguitati ci condanna. Curvate anche voi il capo sotto questo crudele destino che è inesorabile. Lo curvo pur io che mi si chiamava la Tigre!…

Egli volse altrove la faccia sulla quale leggevansi le traccie d’un dolore sconfinato, porse il braccio a Marianna sui cui occhi brillavano due lagrime, che andavano ingrossandosi sotto le palpebre, e si allontanò col capo inclinato sul petto. Il Portoghese lo seguì, dopo aver gettato un triste sguardo sugli avanzi della terribile banda, le cui faccie cupe esprimevano una disperata rassegnazione.

— Fatalità! Fatalità! Fatalità! — ripeté Yanez. — Sei pur troppo con noi senza pietà.

Essi salirono la stretta gradinata che menava sulla cima della rupe, seguiti dagli occhi di tutti i pirati che parevano li guardassero come per l’ultima volta e che s’empivano a poco a poco di lagrime.

Sandokan attraversò rapido la piattaforma con Marianna, prima che questa potesse vedere fra le trincee sfondate gli scheletri umani ancor dispersi, ed entrò nella sua dimora.

— Marianna — disse Sandokan con sospiro. — Questa era l’antica abitazione della Tigre della Malesia, questo era il covo tanto temuto dove viveva Sandokan pirata… È tuo, fino a che tu rimarrai sull’isola di Mompracem, poi ritornerà deserto come prima che io avessi ad abitarlo… È un nido lugubre, nel quale si svolsero terribili drammi; un nido indegno di ospitare la Perla di Labuan, ma sospeso sull’abisso, inaccessibile a ogni essere umano, e sul quale il nemico non potrà giungere che dopo aver freddato l’ultimo pirata di Mompracem e d’essere passato sul mio corpo. Marianna, se tu fossi diventata la regina di Mompracem, l’avrei abbellito, ne avrei fatto una reggia… Orsù, a che parlare di cose impossibili? Tutto è morto o sta per morire.

Sandokan portò le mani al cuore e il suo volto si sconvolse dolorosamente. Marianna gli gettò le braccia attorno al collo.

— Sandokan, tu soffri, tu hai il cuore spezzato, tu mi nascondi i tuoi dolori — diss’ella.

— No, Marianna. Non sono che commosso. La vista di quegli uomini feroci, la vista di quegli eroi che piangevano mi ha impressionato, mi ha…

— Sandokan!…

— Che vuoi, anima mia, li amo e mi pare che mi si spezzi qualche cosa nel petto all’idea di doverli lasciare. Orsù questa sera svelerò ogni cosa a loro, che tutto ignorano. È d’uopo che tutti lo sappiano e che si preparino alla separazione.

— E di me, che diranno di me, causa di tutte le sventure che colpirono la sfortunata loro isola? Ah! Sandokan!…

— Oh! Non temere, anima mia! — esclamò Sandokan, i cui occhi s’accesero di sdegno al sol pensarlo. — Nessuno ardirà gettare un’accusa contro la Perla di Labuan, nessuno ardirà alzare una mano verso di te. Guai, guai all’audace che l’oserebbe. La Tigre gli berrebbe tutto il sangue delle vene dopo avergli fatto soffrire mille indicibili tormenti.

«Non supporlo, Marianna. Sono per essi la terribile Tigre della Malesia, il loro capo, il loro padrone, il loro dio!…

— Ma, nel fondo del cuore, malediranno la Perla che strappò dalle loro braccia la Tigre.

Sandokan emise un ruggito furioso.

— Non ti malediranno nemmeno nei loro cuori: io lo voglio!…

Egli trasse a sé la giovanetta e, cangiando tono:

— Marianna, questa sera io li chiamerò tutti attorno a me, e dirò a loro ogni cosa prima che abbiano a lottare per l’ultima volta col nemico sulle spiagge della mia isola. È d’uopo che sappiano che io voglio che tu sia difesa, è d’uopo che giurino che essi faranno dei loro petti scudo a te, è d’uopo che abbiano a sacrificarsi per difendere la Perla di Labuan, la moglie del loro capo, della Tigre.

«Questa notte tu sarai la regina di Mompracem, e perciò voglio che tu sii brillante, onde abbia ad affascinarli come hai affascinato me che pur aveva un cuore inaccessibile per lo strale dell’amore.

«Mi tenteranno, invocheranno la passata nostra grandezza, la nostra potenza un dì formidabile, ma sarò irremovibile come la rupe su cui mi trovo; ti tenteranno poiché tu abbia a rimanere, ti pregheranno, piangeranno fors’anche ai tuoi piedi, ma giacché non vuoi essere la regina della mia isola, rifiuterai, e rifiuterai senza esitazioni, senza paura.

«Orsù, siamo forti all’ultima ora. La fatalità gravita su di noi: si compiano i destini d’Allah. Io scompaio e dietro di me scompariranno i pirati e Mompracem.

I suoi occhi rotearono trucemente nelle orbite e si copersero d’un velo sanguigno.

Afferrò la giovanetta, la sollevò e accostò le sue labbra a quelle di lei.

— Lascia, lascia, che io libando l’amore sulle tue labbra divine disperda i miei dolori e soffochi i miei tormenti!

La depose a terra, poi gettò un fischio.

I due Malesi addetti all’abitazione comparvero.

— Ecco la vostra padrona — disse loro. — Chiamatemi Ladgia.

La donna che portava questo nome comparve un istante dopo. Era questa una Dajacha superba, come sono in generale tutte quelle della sua razza, dal portamento ardito, dal volto leggiadro, con occhi che brillavano d’un fuoco selvaggio. Aveva le gambe e le braccia cariche d’anelli di rame e d’ottone che tintinnavano graziosamente quando camminava, i capelli rialzati e abbelliti da lunghe e variopinte piume, e portava attraverso il corpo una cintura di anelli sostenenti di una corta bidang di stoffa rigata.

Questa ragazza, che era la più bella che vantassero i dajachi laut del Borneo, Sandokan l’aveva adottata come figlia dopo che suo padre era stato ucciso in un abbordaggio. Egli l’aveva mandata a prendere appositamente alle Romades dove viveva, per farne un dono a lady Marianna.

— Ladgia — disse il pirata. — Tu porti un nome di guerra dovuto alla tua audacia e al tuo coraggio. Ecco qui la tua padrona, sappi difenderla e proteggerla come la proteggerò e la difenderò io.

Stette un istante muto, poi, volgendosi verso Marianna:

— Coraggio, amor mio. Finché rimani su questa terra, sii la regina di Mompracem.

Uscì con passo rapido come volesse nascondere l’emozione che tornava a riprenderlo. Yanez lo seguì. Essi discesero sulla spiaggia nella quale andavano e venivano tacitamente i tigrotti di Mompracem.

La cannoniera fumava sempre a poche miglia dalla costa, andando e venendo, ora dirigendosi al nord, ora all’est, e ora avvicinandosi fino a tre o quattrocento passi dalla temuta isola. Pareva che cercasse qualche cosa, e che s’impazientisse. Sandokan indovinò subito che aspettava degli aiuti da Labuan per cominciare il bombardamento del villaggio, e fremette di paura, non per sé, non pei suoi tigrotti, ma ancora per Marianna.

— Lo vedi, Yanez — diss’egli volgendosi al Portoghese e indicando con gesto scoraggiante la cannoniera. — Tutto è finito per la povera Mompracem.

— Hai paura di quella vaporiera?

— Credi tu che sarà sola a bombardarci e a tentarne l’assalto? Essa aspetta dei rinforzi, aspetta quelli di Labuan e fors’anco la flotta di Sarawak! Ah! Yanez, ho un funesto presentimento radicato nel cuore, il presentimento che domani o dopodomani la nostra bandiera venga abbattuta per sempre, e le nostre coste fino a ieri inviolabili e temute, abbiano a cadere nelle mani dei nostri rivali di Labuan.

— Ma ci difenderemo estrenuamente — disse Yanez. — Abbiamo ancora cannoni, polveri e palle, abbiamo ancora dei tigrotti assetati che sotto la condotta della Tigre della Malesia faran prodigi di valore. Vedrai, Sandokan, che non avranno tanto ardire d’assaltare la Tigre nel suo covo.

— Non illuderti, Yanez — rispose tristamente il pirata. — La nostra potenza se ne è andata colla morte dei nostri tigrotti. E poi credi tu che gl’Inglesi non sappiano che io sono stregato? Credi tu che la Tigre si getterà perdutamente sul nemico come faceva nei tempi passati quando non aveva catene e il cuore inaccessibile?

«Ah! Yanez! la mia gloria è tramontata per sempre col mio nome!

— Ma allora noi corriamo un serio pericolo e prima di tutti lady Marianna!

La Tigre si scosse e lo guardò fissamente.

— Marianna! — esclamò egli.

— Se tu non senti di possedere l’antico tuo valore, è certo che gli Inglesi irromperanno sulle nostre coste e che ci piglieranno tutti quanti.

— Chi sarà mai quella mano che ardirà alzarsi sulla moglie della Tigre? — chiese Sandokan, rizzandosi fieramente. — Credi tu che io me la lascierò rapire? Morrà il mio nome, la mia potenza, la mia isola, ma Marianna, giammai!

— E se gli Inglesi ci respingessero?

— Mi ritirerei nelle foreste, e di poi prenderei il mare.

— E se ti mettessero alle strette, se ti circondassero, se la fuga fosse diventata impossibile?

— In tal caso darei fuoco alle polveri e salterei abbracciato a Marianna, colla mia bandiera e i miei tigrotti.

— Si vede che tu parli seriamente. E io con chi morrò abbracciato?

— A Ladgia — disse Sandokan, sforzandosi a sorridere mentre il Portoghese si imbarazzava. — Io so che tu l’ami, Yanez.

— In fede mia, tu indovini proprio, amico mio, e sia. L’ho amata alle Romades, l’amerò egualmente a Mompracem, e se mi toccherà morire, morrò abbracciato a Ladgia. Lavorerò per due, difenderò tutte e due, rizzerò da me solo una trincea.

— Andiamo allora, Yanez, mi occorrono uomini per fare delle batterie da difendere il villaggio contro i bombardatori.

I pirati di già si erano messi febbrilmente al lavoro. Una parte di essi abbattevano e trasportavano alberi aiutati da una dozzina d’indigeni dei dintorni, altri empivano i gabbioni di terra rizzando terrapieni di uno spessore non comune, e altri ancora piantavano palizzate fitte, empiendole di rottami, di macigni, di ferraccio. Si picchiava, si zappava, si abbatteva stimolati dalla Tigre e dal Portoghese che li incoraggiavano colla voce e coll’esempio.

I più abili artiglieri lavoravano dietro ai cannoni. Mettevano in batteria i più grossi riparandoli con lastroni di ferro e palizzate, preparavano le spingarde disarmando i prahos che ormai dovevano cadere sotto il fuoco del nemico, eccetto tre, i più rapidi e i più solidi, destinati per le coste occidentali onde proteggere la fuga se questa diventasse necessaria. Gli armaiuoli, e fra di essi se ne contavano dei più esperimentati, che avrebbero potuto dar dei punti a quelli indiani, si affaccendavano a schiodar cannoni che fortunatamente erano in numero ragguardevole.

L’intera giornata fu passata attorno alle trincee e ai terrapieni e alle batterie, dove la stessa Marianna si adoperò aiutata da Ladgia, una vera guerriera, a porre in batteria una piccola spingarda. Prima di sera il villaggio, se non era inespugnabile, presentava almeno degli ostacoli non facili a superarsi. Quei quaranta uomini avevano lavorato per cento.

Ventidue bocche da fuoco dei calibri di 18 e di 12 erano state messe in batteria sulla sinistra del villaggio, altre dieci della medesima portata, con parecchie spingarde, erano sulla destra, e tre grossi cannoni da 24 in un terrapieno isolato sul dinanzi del villaggio. Palizzate e trincee, fossati e terrapieni, si succedevano su ben quattro linee, presentando quattro difese, dietro le quali potevano ritirare i cannoni.

Appena che il sole si tuffò nelle onde, i tre prahos, bene armati, con un equipaggio di venti uomini fra i quali la metà indigeni presero silenziosamente il largo dirigendosi verso le coste meridionali per guadagnare di poi quelle occidentali.

Uno di essi, il più grande e il meglio armato, portava la maggior parte delle incalcolabili ricchezze di Sandokan, frutto di sei e più anni di saccheggi. La sua stiva riboccava addirittura di oro, di perle, di diamanti, in quantità tale da arricchire Pontianak, Varauni e Sarawak assieme. Qualche momento dopo Yanez, Ladgia, Giro Batoë e trenta dei più devoti e più coraggiosi pirati che avesse Mompracem, salivano la rupe ed entravano nella capanna per dare l’ultimo addio alla loro vita d’avventurieri, per dare l’ultimo addio alla loro esausta potenza, e al nome della Tigre che doveva fra poco morire per sempre.

La sala dell’abitazione era stata arredata col maggior lusso possibile. Scintillanti lumiere versavano torrenti di luce sugli arazzi tempestati d’oro e d’argento e sulle mobiglie incrostate di madreperla.

Nel mezzo era stata preparata una gran tavola che si curvava sotto il peso dei tondi d’argento finamente cesellati, delle ammirabili tazze ricolme di spumanti vini, delle bottiglie e degli enormi mazzi di fiori che si alzavano a gran piramidi spandendo all’intorno un profumo soave penetrante che inebriava, al quale si frammischiava il profumo delicatissimo della polvere di sandalo che ardeva sui vasi di bronzo.

Sandokan e Marianna di lì a un poco apparvero a braccio l’un l’altro, prendendo posto in mezzo alla banda.

Lui era vestito in velluto rosso, il suo colore favorito, il colore del sangue, col turbante verde sul capo sormontato da un gran pennacchio smaltato di perle, e i due kriss alla cintola dall’impugnatura d’oro massiccio. Aveva un’aria sì fiera, sì truce, sì maestosa che imponeva e che faceva insieme tremare.

Lei invece era abbagliante, bella, divina, più bella che mai, vestita in velluto nero sul quale rilucevano stelline d’oro, colle braccia nivee nude e coperte di braccialetti, i capelli biondi sparsi sulle semi— nude spalle in un pittoresco disordine e sul capo un gran diadema di diamanti che mandava baleni sotto i riflessi delle numerose lampade.

Pareva una regina, una divinità, più ancora un’apparizione soprannaturale avvolta in una nebbia luminosa, una apparizione che incuteva rispetto, che affascinava, che metteva i brividi, che faceva girar la testa a tutti, tanto era quella sera bella la Perla di Labuan.

I pirati, i più rozzi, i più sanguinari, i più vecchi incanutiti al fuoco di cento battaglie furono soggiogati. Un grido di stupore, d’ammirazione irruppe da tutti i petti, e nella mente d’ognuno balenò l’ardita idea di farne d’essa la loro padrona, la loro regina.

Il pranzo fu il più sontuoso che fosse mai stato dato a Mompracem. Sandokan in tutta la sua durata non aprì bocca, e rivolse tutte le sue attenzioni a Marianna, non più sanguinario pirata, ma fidanzato innamorato alla follia, e così pure le volsero tutti i pirati, che non staccavano un sol istante gli occhi fissi in quelli azzurri e scintillanti di lei. Gareggiavano per dimostrarle maggior affezione, e tutti rimuginavano nelle loro menti sempre l’idea di fare della Perla di Labuan la Perla e la regina di Mompracem.

Di già qualche parola era stata gettata furtivamente di convitato in convitato, e Sandokan stesso la udì. Pure non disse ancora verbo: solo la sua fronte s’oscurò, i suoi sguardi più volte perdettero la loro truce espressione per dar luogo a un lampo di gioia, a un lampo di speranza.

Alla fine del banchetto Sandokan si alzò. Pareva imbarazzato, evitava gli sguardi dei suoi tigrotti che lo fissavano in istrano modo, e la sua faccia si era fatta oscura, tetra, quasi feroce. S’indovinava che una terribil battaglia ferveva nella profondità del suo cuore.

— Amici — diss’egli alfine con una voce quasi cupa, disperata. — Amici, gli è una dolorosa missione quella che la fatalità tremenda che gravita su di noi, m’impose, ma ho giurato di compierla e ubbidisco ciecamente quantunque mi strazi il cuore e me lo faccia sanguinare tutto.

«Voi mi avete veduto lottare senza posa e senza pietà per compiere quella terribile vendetta che aveva giurato di intraprendere contro coloro che mi precipitarono dal trono nella polvere. Voi mi avete veduto pugnare qual tigre, per innalzare la nostra potenza e rendere forte e temuta Mompracem che noi adottammo per patria. Voi mi avete veduto condurvi per quasi dieci anni di vittoria in vittoria senza mai aver indietreggiato, senza mai aver esitato e, più di tutto, senza essere mai stato vinto.

«Amici, la fatalità oggi è piombata su di noi, la fortuna ci ha abbandonati nel bel mezzo dei nostri trionfi, siamo irremissibilmente condannati a perire, e perire dopo aver tanto brillato, dopo di esserci acquistati una sì bella e terribile nomea.

«Sconfitti a Labuan, vinta ed incatenata la Tigre da un amore soprannaturale, bombardate e violate le coste di Mompracem, senza forze e senza aiuti è d’uopo cedere, è d’uopo morire.

«Compagni, il destino mi spinge, mi trascina ad emigrare. Non so più ruggire, non ho più forze, non ho più sete, non ho più armi che mi sono state infrante dall’amore e dalla fatalità… Tigrotti, la stella di Mompracem, bisogna che lo dica, dopo aver tanto brillato, s’è spenta!

«Non accusatemi, non maleditemi, non piangete, miei prodi, non disperatevi. Combatteremo ancora una volta contro il nemico che ci viene ad assalire nei nostri covi, poi abbandoneremo questi luoghi che non son più nostri.

«Dio! Dio! Quanto è atroce perdere in una sola volta e nome, e gloria, e potenza, e isola, e mare. Ah! fatalità, fatalità, sei ben terribile!

La Tigre s’arrestò con la faccia orribilmente scomposta e la fronte inondata di freddo sudore. Un disperato ruggito uscì dalle labbra contorte.

I pirati non dissero parola, non si mossero, non emisero lamento alcuno. Solo i loro occhi che non avevano mai pianto s’empirono di lagrime che inondarono i loro volti anneriti dal fumo dei cannoni e dai venti del mare.

— Compagni — continuò Sandokan con una voce che lo strazio dell’anima rendeva strozzata. — Tergete quelle lagrime e serbatele per altri tempi, quando noi saremo lontani da questi luoghi che un dì erano nostri.

«Coraggio, tigrotti, bisogna emigrare, è la legge che ci imporranno i forti, ma emigrerete assieme a me, assieme all’antico vostro capo, alla Tigre della Malesia.

«Vi comprendo, era quest’isola la vostra patria, era la terra sulla quale eravate cresciuti e divenuti potenti, ma la fatalità così vuole.

«Credete che io non soffra nell’abbandonare questi luoghi che erano a me tanto cari? Se fossi capace di piangere, piangerei come voi, ma non so piangere. Orsù, miei prodi, è la legge che subiscono anche gli eroi, andremo a morire su altri lidi dimenticando il passato, e non saremo più i pirati della formidabile Mompracem. Voi perderete il vostro nome come io perderò il mio che mi ero guadagnato a prezzo di cento vittime. Curviamo, curviamo il capo sotto il destino, lo curva la Tigre della Malesia stessa!…

— Capitano! Mio capitano! — esclamò Giro Batoë che piangeva come un fanciullo. — E vorrete voi emigrare da questi luoghi che erano vostri? Rimanete, sarete ancor la Tigre dei passati tempi, andremo a radunar nuovi pirati, rialzeremo ancora le sorti di Mompracem, diverremo leoni, struggeremo Labuan, porremo a ferro e a fuoco Sarawak e Varauni.

— Rimanete, rimanete, capitano, noi saremo forti — esclamarono i pirati tendendo le braccia verso di lui.

— Compagni! Vi ha il destino che ci condanna — rispose Sandokan; — vi ha una fanciulla che io amo e sento che accanto a essa non sarei capace di ritornare la Tigre di una volta. No! No! Se voi nol vorrete, io emigrerò da solo. Il mio cuore e il braccio non sono più miei, sono della giovanetta che ha avuto il coraggio di amarmi. Tutto è suo! Tutto è suo!

— Milady — esclamò Giro Batoë. — Rimanete fra noi, sarete la regina di Mompracem, vi si coprirà d’oro, avrete cento e cento tigri che vi difenderanno dì e notte, vi daremo un regno, vi faremo potente, noi saremo vostri schiavi.

— Milady! — disse Balamê ammaliato da quella seducente giovanetta che trovava degna diventasse regina. — Non avrete che da parlare perché cento pirati si alzino a ubbidirvi. I nostri petti e le nostre armi faranno scudo contro i colpi del nemico, quando voi lo vorrete andremo a conquistare un regno, tutto per voi ci sarà possibile di fare a un vostro cenno. Giammai Mompracem avrà tanto brillato sotto di voi e della Tigre della Malesia!

Tra i pirati vi fu un’esplosione di delirio. I più giovani supplicavano, i più vecchi piangevano dinanzi a lei.

— Rimanete fra noi! — gridavano i pirati affollandosi dinanzi a Sandokan e alla giovanetta. — Rimanete fra noi!

Fu allora che la giovanetta sino allora sorda alle preghiere, si alzò. Con un gesto da regina fece fare silenzio.

— Sandokan — diss’ella con voce che non tremava. — E se io rimanessi fra questi prodi a Mompracem? E se io spezzassi il vincolo ormai invisibile che mi lega a Labuan? Se io diventassi una nemica di quella patria derisoria che non amo più, e dalla quale non ebbi che una goccia di sangue? E se io infine diventassi come sono essi una bandita, dillo, Sandokan, dillo, Tigre della Malesia, mi ameresti egualmente tu?

— Tu, Marianna, rimanere a Mompracem! — esclamò Sandokan precipitandosi verso di lei delirante. — E saresti tu capace di farlo, amor mio?

— Lo voglio! — esclamò fieramente la giovanetta.

Un urlo di gioia irruppe dai petti dei pirati. Venti armi si innalzarono incrociandosi sul suo petto.

Ella cadde fra le braccia di Sandokan chiudendo gli occhi, mentre i pirati gridavano ad una voce:

— Viva la regina di Mompracem!

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