L’insurrezione indiana (prima parte)

L’insurrezione indiana del 1857, se ebbe una durata brevissima fu nondimeno sanguinosissima e fece battere il cuore dei conquistatori, tanto piú che nessun inglese l’aveva nemmeno lontanamente prevista.

La ribellione di Barrampore, scoppiata alcuni mesi innanzi e repressa in fretta e anche troppo ferocemente dalle autorità militari, non era stata che la prima favilla del grande incendio che doveva devastare gran parte dell’India settentrionale. Già da tempo un profondo malumore, abilmente dissimulato però, regnava fra i reggimenti indiani accantonati a Merut, a Cawnpore ed a Lucknow, feriti nel loro orgoglio di casta dalla nomina di qualchesubadhar ejemmadar([6]) di rango inferiore e anche dalle voci sparse ad arte da emissari di Nana-Sahib, il bastardo di Bitor, che gli inglesi davano ai soldati indú cartucce spalmate con grasso di vacca ed a quelli di fede mussulmana con grasso di porco, un’atroce profanazione sia pei primi che pei secondi.

L’11 maggio, improvvisamente, quando meno gl’inglesi se lo aspettavano, il 3° Reggimento di cavalleria indiana, accantonato a Merut, città prossima a Delhi, pel primo dà il segnale della rivolta, fucilando tutti i suoi ufficiali inglesi.

Le autorità militari, spaventate, tentarono subito di reprimerla, incarcerando i ribelli, ma la sera del 10 due reggimenti dicipayes , l’11° ed il 12°, prendono le armi e obbligano i loro capi a scarcerare i detenuti e altri 1200 rivoltosi.

Quell’atto di debolezza fu fatale perché la notte istessa icipayes ed i cavalleggeri si gettarono furiosamente sui quartieri europei incendiandoli e massacrando senza compassione le mogli ed i figli dei funzionari inglesi e degli ufficiali.

Simultaneamente si ribellavano le guarnigioni di Lucknow e di Cawnpore, fucilando i loro superiori e trucidando quanti europei si trovavano in quelle due città, mentre la Rani di Jhansie, una bellissima e coraggiosa principessa, inalberava lo stendardo della rivolta massacrando la guarnigione inglese.

Le autorità militari, sorprese da quello scoppio tremendo, si erano trovate lí per lí impotenti a far fronte all’uragano, non disponendo d’altronde di forze sufficienti. Si limitarono a tendere un cordone militare fra Gwalior, Bartpur e Pattiallah, sperando d’opporsi ai ribelli, che si erano concentrati, sotto gli ordini di Tantia Topi, uno dei piú abili ed audaci condottieri indiani, che doveva piú tardi far stupire anche gl’inglesi colla sua ritirata attraverso il Bundelkund.

Non riuscirono che in parte al loro scopo, poiché gli insorti, dopo d’aver uccisi tutti gli europei, già alla mattina dell’11, in duecentocinquanta si gettavano su Delhi, trascinando nella rivolta il 34° reggimento deicipayes che aveva già fucilati i suoi ufficiali.

Gli europei, scampati alle stragi di Merut e di Allighur, vi si erano rifugiati. Il luogotenente Willoughby, comprendendo che stavano per venire trucidati, li accolse nella torre dello Stentoredo dove organizzò una disperata resistenza.

Vedendosi assalito da tutte le parti, quel valoroso, con un sangue freddo ammirabile, diede fuoco alle polveri, facendo saltare piú di mille e cinquecento assedianti e, approfittando della confusione, riusciva a condurre ancora in salvo le donne, i fanciulli ed i vecchi, dirigendoli parte a Carnal e parte a Amballah ed a Merut che erano state sgombrate degl’insorti.

Fu allora che accorse in Delhi il reggimento ribelle d’Allighur, il quale s’affrettò a proclamare un re scelto fra i discendenti della vecchia dinastia del Gran Mogol, proclamazione che fu festeggiata col massacro di cinquanta europei e dei loro figli che si erano barricati nel palazzo reale.

Furiosi combattimenti si erano seguiti contro le prime colonne inglesi avanzatesi nel territorio battuto dai ribelli, con varia fortuna e con molte stragi d’ambo le parti.

Gl’inglesi però, affidato il comando delle loro forze al generale Bernard, poco soddisfatti delle lentezze e delle esitazioni del generale Arison, a poco a poco avvolgevano Delhi, entro cui gl’insorti si fortificavano febbrilmente, in attesa di venire assediati.

Ai primi di giugno la città si poteva considerare come assediata, ma gl’inglesi non ottenevano alcun successo apprezzabile e si vedevano costretti a ritirarsi sovente dinanzi ai furiosi ed incessanti attacchi degl’insorti. Per di piú mancavano di pezzi d’assedio, soffrivano enormemente pel caldo intenso e pel clima micidialissimo.

Tuttavia l’ora triste stava per suonare pei ribelli; Delhi era ormai condannata a cadere inesorabilmente in un mare di sangue.

Sandokan ed i suoi amici, montati su veloci cavalli, oltrepassate le avanguardie inglesi di Koil, si erano diretti verso Delhi, da cui non distavano che poche ore.

Il signor de Lussac, che aveva indossata la splendida divisa degli ufficiali bengalesi e che aveva un lascia-passare del comandante di Koil, faceva largo ai suoi compagni.

Bastava la sua presenza per evitare degli interrogatori che avrebbero fatto perdere tempo a Sandokan.

Il paese formicolava di soldati, di cavalli e di artiglierie, che muovevano verso l’antica capitale del Gran Mogol.

Il parco d’assedio, lungamente atteso, era giunto e veniva diretto verso il nord per diroccare i saldi bastioni della città, che fino allora avevano tenacemente resistito agli assalti della fanteria dei minatori.

Le tracce della terribile insurrezione si vedevano dovunque. Villaggi arsi; campagne, che dovevano essere state splendide, completamente distrutte; cadaveri dappertutto che ammorbavano l’aria e che attiravano stormi immensi di marabú, di bozzagri, diarghilah , di nibbi e di gypaeti, quegli insaziabili divoratori di carogne.

Quattro ore dopo la loro uscita da Koil, i cavalieri giungevano in vista delle torri e dei bastioni della capitale del Gran Mogol.

Lunghe colonne d’inglesi ingombravano le campagne. Al mattino un combattimento furioso era avvenuto fra assediati ed assedianti, colla peggio di questi ultimi e montagne di cadaveri fiancheggiavano la via principale.

La linea d’assedio era stata in piú luoghi spezzata dai ribelli, i quali scorazzavano le campagne vicine per predare il bestiame che ancora rimaneva nei dintorni. L’entrata nella città non era quindi difficile per uomini camuffati da indiani e che potevan passare per ribelli giunti da Merut o da Furridabad. Il momento della separazione era giunto.

– Signor de Lussac, – disse Sandokan, vedendo il luogotenente scendere da cavallo, dopo aver oltrepassato le ultime avanguardie. – Quando potremo ritrovarci?

– Ciò dipende dalla resistenza che opporrano gl’insorti, – rispose il francese. – Io non entrerò che alla testa del mio squadrone.

– Credete che le cose andranno molto per le lunghe?

– Domani, gli inglesi metteranno in batteria i loro pezzi d’assedio e vedrete che i bastioni di Delhi non resisteranno molto.

– Come potrei farvi avere nostre notizie?

– Ah sí, pensavo a questo stamane, – disse il francese. – Bisogna che io sappia dove avrete preso alloggio per proteggervi. Quando gli inglesi entreranno in Delhi, faranno indubbiamente delle stragi perché sono esasperatissimi e hanno giurato di vendicare le loro donne ed i loro fanciulli massacrati a Cawnpore, Lucknow, ad Allighur, ecc. Un’idea.

– Parlate.

Tutte le notti dal bastione di Cascemir gettate al di là del fossato qualche oggetto voluminoso con entro una lettera. M’incaricherò io di farlo rintracciare. Un turbante per esempio, possibilmente bianco.

– Sta bene, – disse Sandokan.

– Il salvacondotto e la lettera del governatore non sarebbero sufficienti per proteggerci? – chiese Yanez.

– Non dico di no, tuttavia non si sa mai quello che può accadere nel furore dell’assalto e sarà molto meglio che vi sia io per proteggervi. Ecco le tenebre che scendono: è il momento di approfittare per voi. Addio miei bravi amici; vi auguro di trovare la piccina e di dare l’ultimo colpo agli adoratori di Kalí.

Si abbracciarono un po’ commossi, poi, mentre il francese tornava verso il campo inglese, Sandokan ed i suoi compagni si spinsero arditamente verso la città.

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