Un dramma indiano (prima parte)

La giovane bajadera, che era stata trasportata in una delle cabine del quadro e medicata prontamente da Yanez e da Sandokan, tre giorni dopo era, se non completamente guarita, almeno in grado di condurre i suoi protettori alla vecchia pagoda dove doveva aver luogo l’oni-gomon.

Durante quei tre giorni si era mostrata sempre contentissima di trovarsi in quella comoda ed elegante cabina e fra quei nuovi protettori, dei quali aveva subito abbracciata con entusiasmo la causa, fornendoli di preziosi particolari sulla sanguinosa associazione dei Thugs. Non aveva però potuto dire nulla della nuova «Vergine della pagoda», la piccola Darma, della quale fino allora non aveva mai udito parlare. Dimostrava poi una speciale riconoscenza pelsahib bianco, come chiamava il flemmatico Yanez che si era creato suo infermiere e che amava volentieri parlare con lei, la quale si spiegava in un inglese perfetto, ciò che dimostrava una educazione elevata e piuttosto rara fra le bajadere.

Quella cosa aveva anzi colpito anche Tremal-Naik, che nella sua qualità d’indiano e soprattutto di bengalese, conosceva meglio d’ogni altro le danzatrici del suo paese.

– Questa fanciulla, – aveva detto a Yanez e a Sandokan, – deve avere appartenuto a qualche alta casta. La finezza dei suoi lineamenti, la tinta quasi bianca della sua pelle e la piccolezza delle sue mani e dei suoi piedi, lo indicano.

– Cercherò d’interrogarla, – aveva risposto Yanez, – deve esservi lí sotto qualche istoria interessante.

Nel pomeriggio, mentre Sandokan e Tremal-Naik sceglievano gli uomini che dovevano prendere parte alla spedizione, Yanez era disceso nel quadro per visitare la ferita.

La fanciulla pareva che non provasse piú alcun dolore. Coricata su una comoda e soffice poltrona, sembrava immersa in un dolce sogno, a giudicarla dal sorriso che le coronava le piccole e rosse labbra e dalla dolcezza dei suoi occhi.

Vedendo comparire ilsahib bianco, si era levata appoggiandosi alla spalliera e fissando su di lui uno sguardo penetrante.

– Ilsahib bianco mi fa piacere, quando lo vedo, – disse con voce armoniosa. – È prima a lui che alsahib abbronzato che devo la libertà e fors’anche la vita.

– Ilsahib bronzino, come tu lo chiami, – rispose Yanez sorridendo, – è buono e forse piú di me. Devi l’una e l’altra cosa ad entrambi. Come va la tua ferita, fanciulla?

– Non provo piú alcun dolore, dopo che le tue mani,sahib , l’hanno medicata.

– Sai che tu non ci hai detto ancora il tuo nome? – disse Yanez.

– Lo vuoi sapere,sahib ? – chiese la bajadera. – Mi chiamo Surama.

– Sei del Bengala?

– No, sahib. Sono assamese, del Goalpara.

– Mi hai detto che la tua famiglia è stata distrutta.

La fronte della fanciulla a quelle parole si era offuscata, mentre i suoi occhi si coprivano d’un velo di profonda tristezza.

Stette un momento silenziosa, poi disse con voce tetra:

– È vero.

– Dai Thugs?

– No.

– Dagli inglesi?

Surama scosse il capo, quindi riprese con voce piú triste:

– Mio padre era zio del rajah di Goalpara e capo d’una tribú di kotteri, ossia di guerrieri.

– Ciò non mi spiega chi ha sterminata la tua famiglia.

– Il rajah, – rispose Surama, – in uno dei suoi momenti di follia.

Stette alcuni istanti silenziosa, come se aspettasse qualche altra domanda delsahib bianco, poi disse:

– Ero allora una bambina, poiché non avevo che otto anni, eppure l’orribile scena me la vedo ancora dinanzi agli occhi, come fosse avvenuta ieri.

Mio padre, al pari di tutti gli altri parenti, era venuto in sospetto al rajah, suo nipote, – il quale si era fisso in capo che tutti congiurassero contro di lui per carpirgli la corona e dividersi le immense ricchezze che possedeva, – perciò amava vivere lontano dalla corte, fra le sue selvagge montagne.

Correva allora voce che il rajah dedito a tutti i vizi e in preda ad una continua ubriachezza, commettesse di frequente delle vere atrocità contro i suoi servi e contro i suoi stessi parenti che vivevano a corte.

Mi ricordo che mio padre m’aveva un giorno narrato che quel mostro aveva assassinato perfino il suo primo ministro e pel semplice motivo d’aver tentato d’impedirgli di scannare un povero servo che inavvertentamente gli aveva lasciato cadere una goccia di vino sul vestito.

– Doveva essere una specie di Nerone, – disse Yanez che l’ascoltava con vivo interesse.

– Essendo la carestia piombata sull’Assam, i bramini e igurus , ossia sacerdoti di Siva, indussero il rajah a dare una grandiosa cerimonia religiosa per cercare di placare la collera delle divinità.

Il principe vi annuí di buon grado e volle che vi assistessero tutti i suoi pareri che vivevano disseminati nel suo stato. Mio padre era compreso nel numero degli invitati, e non sospettando menomamente l’orribile disegno che quel mostro maturava nel suo cervello, mi condusse nella capitale assieme a mia madre ed ai miei due fratelli.

Fummo ricevuti cogli onori dovuti al nostro grado e alloggiati nel palazzo reale.

Compiuta la cerimonia religiosa, il rajah diede a tutti i parenti un banchetto grandioso, durante il quale bevve fuor di misura. Quel miserabile cercava di eccitarsi, prima di compiere la strage meditata forse da lungo tempo.

Essendo io troppo piccina, ne ero stata dispensata e m’avevano lasciata a trastullarmi su una delle terrazze del palazzo assieme ad altre fanciulle.

Era quasi il tramonto, quando udii improvvisamente un colpo di fucile, seguito poco dopo da un secondo e da un urlo di angoscia e di terrore.

Mi precipitai verso una terrazza che prospettava nel cortile d’onore del palazzo e vidi una scena orribile che non scorderò giammai, dovessi vivere mille anni…

La giovane si era interrotta, come se la voce le fosse improvvisamente mancata, guardando Yanez con gli occhi dilatati e pieni di terrore.

Un tremito convulso agitava il suo corpo, mentre dei singhiozzi soffocati le morivano sulle labbra.

– Continua fanciulla, – le disse Yanez dolcemente.

– Sono passati cinque anni, – riprese Surama, dopo qualche minuto – eppure, durante le notti insonni, rivedo sempre quella scena terrificante, come fosse avvenuta il giorno innanzi.

Il rajah era ritto su un terrazzino, cogli occhi schizzanti dalle orbite, i lineamenti sconvolti, con una carabina in mano ancora fumante, circondato dai suoi ministri che gli porgevano continuamente da bere non so quale bevanda infernale, mentre nel cortile fuggivano all’impazzata uomini, donne e fanciulli gettando clamori orribili: erano i parenti del principe.

Il miserabile aveva fatto chiudere tutte le porte del cortile e li fucilava a brucia-pelo, urlando come un pazzo:

“Morite tutti! Voglio che scompaiano questi avidi mostri che insidiano il mio trono e che congiurano per impadronirsi delle mie ricchezze! Da bere, datemi da bere o vi faccio decapitare!…”.

I ministri, atterriti, continuavano a riempirgli la tazza che egli trangugiava d’un fiato, poi ricominciava a sparare su quella massa di disgraziati, che invano supplicavano di risparmiarli.

I colpi si succedevano ai colpi, perché quel maniaco furioso si era fatto portare sulla terrazza parecchie carabine che i suoi ufficiali si affrettavano a ricaricare e a porgergli. Ora cadeva un uomo colla testa fracassata, ora una donna col petto attraversato da una palla, ora invece, un fanciullo o una fanciulla, poiché il rajah non risparmiava nessuno.

Cosí vidi cadere successivamente mio padre, a cui un proiettile aveva fracassato la colonna vertebrale, poi mia madre colpita in mezzo alla fronte, poi i miei due fratelli, poi molti altri ancora. Trentasette erano i parenti del mostro e dieci minuti dopo trentasei giacevano sparsi per il cortile fra un vero lago di sangue.

Solo era sfuggito uno dei fratelli del principe, quantunque fosse stato fatto segno a tre colpi di carabina. Quel disgraziato, che balzava come una giovane tigre per impedire al fratello di prenderlo di mira, gridava disperatamente:

“Fammi grazia della vita ed io abbandono il tuo stato. Sono figlio di tuo padre! Tu non hai il diritto di uccidermi!”

Il rajah, sordo a quelle grida disperate, gli sparò ancora contro due colpi senza riuscire a coglierlo, poi preso forse da un subitaneo pentimento, abbassò la carabina che un ufficiale gli aveva sporta, gridando al fuggiasco:

“Se è vero che tu abbandonerai per sempre i miei stati, ti fo grazia della vita a una condizione”.

“Sono pronto ad accettare tutto quello che vorrai”, rispose il giovane principe.

“Io getterò in aria una rupia; se tu la colpirai colla palla di questa carabina, ti lascerò partire pel Bengala senza farti alcun male.”

“Accetto”, rispose il giovane.

Il rajah gli gettò la carabina che il fratello prese al volo.

“Ti avverto”, gli urlò il pazzo, “che se manchi la moneta subirai la medesima sorte degli altri.”

“Gettala!”

Il rajah fece volare in aria una rupia. S’udí uno sparo, e non fu bucata la moneta, bensí il petto dell’assassino.

Sindhia, tale era il nome del giovane principe, invece di far fuoco sulla moneta aveva voltata rapidamente l’arma contro il pazzo e l’aveva fulminato spaccandogli il cuore.

I ministri e gli ufficiali si prosternarono dinanzi al giovane che aveva liberato lo stato da quel mostro e senz’altro lo acclamarono rajah.

Quando seppe che anch’io ero sfuggita alla morte, quell’uomo che doveva avere l’animo non meno perverso del fratello, invece di farmi ricondurre fra le tribú devote a mio padre, mi fece segretamente vendere a dei Thugs che percorrevano il paese per procurarsi delle bajadere e s’impadroní, senza vergogna, di tutti i miei beni.

Fui condotta nei sotterranei di Rajmangal dove compii la mia educazione di bajadera, poi assegnata alla pagoda di Kalí e di Darma-Ragia.

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