Gli scongiuri di Nefer

CAPITOLO QUINDICESIMO

 

 Gli scongiuri di Nefer

 

 L’uomo moderno, che oggidì visita i luoghi ove l’antica civiltà egiziana eresse monumenti grandiosi, che resistettero per cinquanta o sessanta secoli alle intemperie, alle sabbie dei deserti, alle piene del Nilo, al furore dei Caldei, degli Assiri e dei Persiani – che piombarono nella grande vallata del Nilo abbattendo Menfi e Tebe, le due più colossali e le più meravigliose città che tutto il mondo antico invidiava alle dinastie faraoniche – se si ferma meravigliato dinanzi alla grandiosità delle piramidi che racchiudono mummificate le salme degli antichi re, rimane maggiormente stupito dinanzi ai pochi, ma imponenti obelischi che ergono, ancora orgogliosamente, le loro punte verso il cielo infuocato.

 Una domanda spunta subito sulle labbra di chi si ferma, dinanzi a quegli enormi blocchi di granito innalzati a trenta o quaranta metri: quali mezzi hanno impiegato gli antichi egizi per sovrapporre a tanta altezza quei massi?

 Quali sforzi prodigiosi hanno fatto per riuscire? Questa istessa domanda ha tormentato per tanti secoli gli egittologi e solamente da poco, dopo lunghissime indagini, sono riusciti a scoprire il mezzo ingegnoso a cui sono ricorsi quei celebri costruttori.

 La mano d’opera non mancava nell’Egitto, anzi non costava quasi nulla al governo. Quando un re desiderava farsi innalzare una piramide, un obelisco, un tempio, faceva spopolare d’un tratto solo tutta intera una provincia, i cui abitanti, artigiani, operai, agricoltori, qualunque fosse insomma la loro professione erano registrati sotto la direzione degli architetti reali. I vecchi ed i fanciulli vi erano essi pure iscritti, occupandoli nei lavori meno faticosi, nella preparazione della calce e nel trasporto dei rottami.

 Allorché la prima massa di lavoratori era esaurita o decimata dagli stenti e dal clima bruciante, la si rinviava al suo paese e si reclutavano gli abitanti d’un’altra provincia.

 I Faraoni non concedevano a quei disgraziati che il vitto e molto scarso per di più.

 Tutte le gigantesche costruzioni dell’Egitto, piramidi, canali, serbatoi, dighe, sotterranei e templi, furono eseguiti in tale modo e non fu che più tardi che quei lavoratori furono sostituiti coi prigionieri di guerra.

 Come si vede la mano d’opera non mancava, erano invece i mezzi potenti che facevano difetto, poiché gli Egiziani non possedevano alcuna macchina atta ad innalzare quei blocchi enormi, che le braccia umane, per quanto abbondanti, non potevano che smuovere.

 Come dunque sono egualmente riusciti ad innalzare quegli obelischi che formano ancora oggidì l’ammirazione degli architetti e degli ingegneri moderni? In un modo curiosissimo che solo la mente ingegnosa di quegli uomini straordinari poteva immaginare.

 Mancando di macchine, si servivano d’un piano inclinato che cominciava a qualche metro dal luogo dove l’obelisco doveva venire innalzato e che si distendeva per oltre un paio di chilometri con una pendenza lievissima.

 Sulla parte più alta costruivano un muro anche quello inclinato ed un po’ più alto dell’obelisco e sulla sommità formavano un coronamento di grossi tronchi d’albero profondamente infissi dovendo sopportare il peso intero dell’immensa colonna.

 Bastavano pochi uomini per far salire la rampa all’obelisco, disposto colla base innanzi, sopra curli di legno durissimo che rotolavano su un tavolato portatile.

 Quando la base aveva oltrepassato lo spigolo del muro di quasi un terzo della sua lunghezza, gli operai, collocati sui piloni, coll’aiuto di funi solidissime facevano girare l’obelisco attorno al conoramento della scarpa guidandolo fra due file di tronchi disposti a guisa di piuoli.

 La discesa dell’enorme massa la effettuavano poi lentamente, togliendo man mano attorno alla base dell’obelisco la sabbia precedentemente accumulata in modo da farlo posare sul punto preciso segnato sul basamento. Riusciva poi facile, a quegli instancabili lavoratori, dare al monolito la dovuta posizione verticale, stabilendo un semplice tavolato fra la rampa ed il pilone.

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 Appena gettata la grossa pietra che serviva d’àncora e calate sul ponte le vele, Mirinri, Ata ed Ounis si erano subito portati sul casseretto, premendo assicurarsi innanzi a tutto della direzione presa dalle grosse barche, che sospettavano montate da guerrieri dell’usurpatore, incaricati di catturarli, prima che potessero giungere a Menfi.

 Con loro non poco piacere le videro dirigersi lentamente verso la riva opposta e affondare le loro pietre, come se i loro equipaggi avessero presa la risoluzione di passare colà la notte.

 «Ci tengono d’occhio,» disse Ata, con inquietudine. «Non hanno osato accostarsi a quest’isola, ma temo che non ci lascieranno tanto facilmente. Nefer ha avuto una buona idea di guidarci qui, purché gli spiriti dei re Nubiani non ci diano maggiori fastidi di quelli che potremmo avere da quei guerrieri. Io temo più i morti che i vivi.»

 «Ti ho detto che io saprò placare le loro anime e che le farò rientrare nel serdab([8]) del tempio.»

 «Quale potere soprannaturale possiedi dunque, fanciulla?» disse Ounis.

 «È mia madre che mi ha insegnato a placare gli spiriti. D’altronde, mio signore, io te ne darò prova. Fa gettare una tavola sulla riva e lascia che scenda a terra. Lancierò lo scongiuro in mezzo alla foresta.»

 «Tu sola!» esclamò Mirinri.

 «Sì, mio signore,» rispose Nefer con voce tranquilla.

 «E non avrai paura?»

 «Di che cosa?»

 «Non vi sono belve feroci su quest’isola?»

 «No, che io sappia.»

 «Ed i coccodrilli li hai dimenticati?»

 «Le rive sono tutte così ripide da impedire a loro di salirle.»

 «Io non divido la tua fiducia, Nefer. Lascia che ti accompagni. La mia daga è salda e ti proteggerà.»

 «Lo scongiuro non avrebbe nessun effetto e nessuno deve assistere al rito che io compierò sotto gli alberi.»

 «Quale rito?»

 «Non te lo posso dire, mio signore. Noi abbiamo delle cerimonie da compiere che non possiamo svelare a nessuno. Lasciami andare e non temere per me. D’altronde, se anche mi toccasse una disgrazia, che cosa t’importerebbe?» disse la fanciulla con profonda amarezza.

 Mirinri, che aveva compreso dove mirava la fanciulla ed a che cosa alludeva, credette opportuno non rispondere, tuttavia la guardò con una certa ansietà.

 «Addio, mio signore» riprese Nefer, vedendo che la tavola era stata già gettata. «Se io tardo, non inquietarti, poiché lo scongiuro che io lancierò sotto gli alberi potrebbe non essere sufficiente ed in tale caso sarei costretta a ripeterlo dinanzi al tempio.»

 «Lascia che ti accompagni fino alla riva,» disse Mirinri.

 «Sia, mio signore, purché tu non varchi la prima linea degli alberi.»

 Attraversarono insieme la tavola, mentre Ata e Ounis spiavano ansiosamente le quattro grosse barche, temendo che preparassero qualche sorpresa approfittando dell’oscurità della notte, e si fermarono dinanzi ad una vera muraglia di verzura che sembrava quasi impenetrabile.

 «È là il passo,» disse Nefer, indicando al giovane un piccolo squarcio aperto fra le camerope a ventaglio e le enormi palme dum che si erano ammassate sulla riva, collegate fra di loro da giganteschi festoni di piante parassite.

 Nefer, che si era fermata, fece segno a Mirinri di non avanzare un passo di più. La strana fanciulla appariva in quel momento in preda ad una vivissima commozione ed i suoi occhi avevan perduto in quel momento tutto il loro superbo splendore. Un forte tremito faceva tintinnare i suoi braccialetti.

 «Che cos’hai?» chiese Mirinri, sorpreso da quell’improvvisa commozione che aveva subito rimarcata.

 «Nulla, mio signore» rispose Nefer con voce soffocata.

 «Tremi come se tu avessi freddo.»

 «È l’umidità della notte forse che mi fa trasalire così.»

 «E anche nella tua voce vi è come un tremito. Avresti paura? Aspetta che sorga il sole per lanciare lo scongiuro.»

 «Devo pronunciarlo nelle tenebre. Gli spiriti non escono che di notte.»

 «E credi tu che siano veramente spiriti? Io ho visitate più piramidi e mai ho veduto uscire dai loro sarcofaghi quelli che da secoli vi dormivano dentro. Se fossero invece degli esseri viventi?»

 «No, sono ombre, mio signore.»

 «Sei risoluta?»

 «Sì, mio signore. Se tu rimani qui udrai il canto dei morti che io griderò in mezzo alla foresta.»

 La voce di Nefer, dapprima tremante, a poco a poco si era rinfrancata; il tremito invece delle sue membra non era cessato. Stette un momento silenziosa, col capo chino, poi s’allontanò bruscamente, dicendo:

 «Addio, mio signore: che Iside, Osiride e la vacca Hathor proteggano il Figlio del Sole, che Apap, il serpente del genio del male stia lontano da te.»

 Nefer scomparve attraverso lo squarcio aperto nella immensa muraglia di verzura.

 La fanciulla camminava rapidamente, come se già altre volte avesse attraversato la folta foresta che copriva quell’isola, gettata attraverso il maestoso Nilo.

 Non voltò nemmeno per vedere se Mirinri l’aveva seguita. Era d’altronde certa che il giovane non si sarebbe mosso dalla riva, poiché, cosa strana, gli Egiziani, al pari di tutti i popoli primitivi, se non avevano paura della morte, ne avevano molta degli spiriti dei morti.

 La fanciulla però non sembrava tranquilla. Anzi si sarebbe detto che un improvviso accesso di disperazione o di collera intensa l’avesse colta.

 Delle frasi spezzate uscivano dalle labbra e le sue dita tormentavano nervosamente le sue vesti, lacerando la leggera stoffa.

 «Maledetti…» mormorava, stridendo i denti: «Vogliono tenerlo lontano… troncargli la via gloriosa che dovrebbe condurlo verso il trono del Sole… E io nulla posso fare… Sedurlo… addormentarlo tra le mie braccia…. O gli splendori della corte che io ho appena gustati nella prima gioventù o la morte! Perché non scegliere un’altra invece di me? Perché anch’io sono una Faraona, ma figlia di chi? Quale mistero regna sulla mia nascita? E quel miserabile sacerdote mi tiene nelle sue mani!… E riuscirò io?… Ama troppo l’altra e non ha compreso che io mi struggo per lui… che non sogno che lui… che darei la mia vita per lui e che attraverserei il fiume infernale che va a bagnare i campi divini d’Aaseron([9]).

 Si era fermata. Al di sotto delle larghe foglie delle palme regnava una profonda oscurità ed a malapena attraverso quella massa di verzura si poteva distinguere qualche stella.

 Un silenzio assoluto regnava intorno alla fanciulla, non soffiando alcun alito di vento. Solo in lontananza muggiva cupamente il Nilo, che la piena aveva reso più impetuoso.

 «Mi udranno?» si chiese, dopo d’aver fatto qualche passo innanzi.

 Si guardò intorno cercando di distinguere qualche cosa, poi si rizzò e alzando la voce in modo da poter essere udita anche da Mirinri, se questi, come era da supporsi, non aveva lasciata la sponda, gridò:

 «Oh tu, Amenti, che sei il signore della montagna e che hai il potere di creare le anime quando te l’ordina Osiride, ascolta la parola di una fanciulla di stirpe divina, perché sono figlia di quel Râ (il sole) che si alza tutti i giorni sull’orizzonte orientale del cielo e che la nera dea Nut protegge coll’ombra delle sue ali. Tu sei possente, perché la tua lingua tocca e lambisce il cielo, la terra ed avviluppa ogni cosa; tu sei grande perché sei il dio che regna nell’emisfero inferiore e la tua forma è nel cielo, nella terra, nelle piante, nelle acque del Nilo e la luce che sfolgori è pari a quella di Toum, che oggi è Osiride e domani è Râ e tutto puoi. Io voglio che tu renda agli spiriti che vagano su questa isola la loro bocca per parlare, le loro gambe per camminare, le loro braccia per rovesciare i nemici, come sta scritto nel Libro dei morti che Osiride ci diede, onde se ne vadano lontani e possano raggiungere la barca del Sole. Nefer ha parlato: è una maliarda ed una Figlia del Sole che Nut protegge. Raccogli gli spiriti erranti e chiamali nei campi divini d’Aaseron. Attendo!…».

 La fanciulla aveva appena terminato quelle parole, quando sotto la vôlta immensa delle grandi foglie si udì un fragore assordante, che pareva prodotto da qualche enorme tamburone furiosamente percosso e che durò qualche minuto, poi un’ombra umana comparve, accostandosi silenziosamente alla maliarda.

 «Egli ti aspetta nel tempio,» le disse quando fu vicina.

 Nefer provò un forte fremito.

 «Vieni,» disse l’ombra.

 «Ti seguo,» rispose la fanciulla con un sospiro.

 Si misero in cammino. L’uomo la precedeva di alcuni passi, scostando i rami che in quel luogo erano molto bassi e dopo pochi minuti s’arrestarono presso una gigantesca costruzione di forma quadrata, dinanzi alla quale si ergevano due obelischi molto meno alti di quello che giganteggiava sulla riva e delle sfingi di mostruose proporzioni, allineate su una doppia fila.

 «Entra, Figlia del Sole,» disse la guida arrestandosi.

 Nefer si diresse verso una porta larga alla base e stretta verso la cima e si trovò in una immensa sala, la cui vôlta era sorretta da un numero infinito di colonne tutte scolpite e coi capitelli che s’allargavano in forma d’una larga campanula.

 Una piccola lampada, sospesa in alto, illuminava a malapena il centro del gran tempio.

 «Sei tu, Nefer?» chiese una voce dall’accento rude.

 «Sì, sono io, Her-Hor,» rispose la fanciulla.

 Un uomo era comparso improvvisamente, uscendo fra le due colonne centrali. Era un vecchio di sessanta o settant’anni, di statura molto alta, dai lineamenti duri, cogli occhi nerissimi e vivissimi ancora, malgrado l’età.

 Indossava una specie di zimarra di lino bianchissimo, molto ampia, stretta alle reni da una fascia gialla che ricadeva sul dinanzi ed aveva sul capo un fazzoletto pure giallo a righe nere, che gli scendeva sulle spalle. Ai piedi portava dei sandali di papiro e dal mento gli pendeva una di quelle strane barbe posticcie, di forma quadrata, che erano molto in voga in quell’epoca, quantunque rendessero coloro che le portavano di un aspetto tutt’altro che simpatico.

 Nefer, nel vederlo, era diventata pallidissima ed un lampo d’ira le era balenato negli occhi.

 «Ho veduto la loro barca ad approdare,» disse il vecchio. «Tu sei una fanciulla meravigliosa e Pepi ha scelto bene. È lui dunque?»

 «Sì,» rispose Nefer abbassando il capo.

 «Proprio il figlio di Teti?»

 «Sì.»

 «Non ci eravamo ingannati. T’ama?»

 «Non mi pare finora.»

 Una profonda ruga si disegnò sulla fronte del vecchio.

 «È necessario che t’ami, tu lo sai. Forse non hai tentato tutte le seduzioni. Chi potrebbe resistere a te che sei la più bella fanciulla del Basso Egitto? Chi non fremerebbe dinanzi ai tuoi occhi meravigliosi e alle tue forme divine?»

 «Eppure non mi ama ancora, grande sacerdote,» rispose Nefer.

 «Deve amarti: Pepi lo vuole, tu sai che ogni volontà del re è comando.»

 «Pensa ad un’altra.»

 «Che il Capro di Mendes e che il dio Api mi uccidano sul colpo!» gridò il vecchio. «L’altra non lo amerà mai!»

 «Che ne sai tu, Her-Hor?» chiese Nefer. «Tu non puoi scrutare il cuore di Nitokri, la figlia di Pepi.»

 «Egli è un nemico che potrebbe strappare il trono a suo padre.»

 «L’amore vale talvolta meglio d’un trono.»

 Her-Hor fece un gesto di collera, poi, cambiando bruscamente tono, disse:

 «Tutto è pronto. Ricordati che devi impedirgli di giungere a Menfi e di addormentarlo qui. Ricchezze e feste, danze e profumi, vini inebbrianti, carezze e gli occhi tuoi: cadrà e dimenticherà il suo grande sogno.»

 «E se t’ingannassi, gran sacerdote?» chiese Nefer con ironia.

 «Tutto dipende da te: vuoi rivedere gli splendori della corte e riprendere il posto che ti spetta per diritto di nascita? Lo devi ammaliare e tarpargli le ali. Lo sparviero è giovane, è sempre vissuto lontano da Menfi, non ha veduto che le sabbie del deserto, dove fu allevato e dove è cresciuto e tu sei bella. Mirinri ti amerà.»

 Nefer fece col capo un gesto negativo.

 «Il cuore del giovane Figlio del Sole non batterà forse mai per Nefer,» disse poi, con voce triste.

 Her-Hor aveva guardato fissa la fanciulla, poi l’aveva presa strettamente per una mano. Una gioia selvaggia illuminava i suoi occhi e traspariva sul suo viso incartapecorito.

 «Tu l’ami!» esclamò.

 Nefer non rispose.

 «Lo voglio sapere.»

 «Ebbene… sì,» rispose la fanciulla, chinando la testa.

 «Ah, la…»

 Con un morso rabbioso il sacerdote aveva impedito alle sue labbra di completare la frase.

 «Che cosa volevi dire, Her-Hor?» chiese Nefer.

 «Nulla,» rispose asciuttamente il sacerdote, mentre un lampo sinistro illuminava i suoi occhi. Poi, dopo aver girato intorno ad una colonna, come per aver tempo di riprendere la sua calma primiera, chiese:

 «Chi accompagna Mirinri?»

 «Un vecchio che si chiama Ounis e che pare sia anche lui un sacerdote.»

 «Ah? Lui!»

 «Lo conosci?»

 «Credo.»

 «Chi è?»

 «Un fedele amico di Mirinri. Hai incontrata la barca di gatti?»

 «Sì, a tre giornate da qui; prima che il Nilo si gonfiasse.»

 «Mirinri e Ounis hanno creduto a tutto ciò che tu hai narrato?»

 «Credo.»

 «Ti hanno visto il tatuaggio?»

 «Ounis lo scoprì sulle mie spalle.»

 «Sicché sono convinti che tu sia una Figlia del Sole?»

 «Non lo sarei forse?» chiese Nefer trasalendo.

 «Sì, non ti ho mai detto il contrario,» disse il grande sacerdote.

 «Allora dimmi chi era mio padre.» gridò la fanciulla.

 «Non è ancora giunto il momento di svelartelo.»

 «È morto o vivo?»

 «Potrebbe dormire il sonno eterno entro una piramide perfettamente mummificato, perché era un gran principe, e potrebbe anche darsi che non fosse ancora salito sulla barca che guida le regioni inferiori e che non sia ancora stato giudicato dal tribunale d’Osiride. Solo Pepi Mirinri lo sa e nulla finora a me disse.»

 «Tu mi assicuri che nelle mie vene scorre il sangue divino dei Faraoni?»

 «Sì.»

 «E che il simbolo del diritto di vita e di morte non mi fu impresso per ingannarmi.»

 «Ti fu fatto nel palazzo reale di Menfi.»

 «Allora Mirinri può amarmi, perché sono una Faraona come Nitokri?»

 «Può amarti.»

 «Dammi un filtro affinché il suo cuore arda per me.»

 «Il filtro lo hai nei tuoi occhi,» disse il sacerdote. «Pepi stesso non saprebbe resistere al fulgore delle tue stelle, se ora ti vedesse.»

 «Ma non Mirinri.»

 «Cadrà: tu sei una maliarda.»

 «Dammi un filtro o danne uno all’altra Faraona,» disse Nefer coi denti stretti, «uno di quelli che la facciano dormire per sempre. La piramide di Pepi è sempre pronta a ricevere i morti e, spenta quella fanciulla, che ha per lei il fascino del potere e la luce d’un gran trono, che a me, oggi, manca, Mirinri cadrà fra le mie braccia.»

 «Io uccidere la figlia di Pepi!» esclamò il sacerdote. «E poi? Sono vecchio, eppur ci tengo ancora alla vita o meglio ci tengo a qualche cosa di più importante della mia vita. Quando lo condurrai qui?

 «Domani all’alba.

 «Anche il vecchio?»

 «Non lo lascerà.»

 «Se potessi ucciderlo!»

 «Perché? Che cosa ti ha fatto? Che importa a te che viva?»

 Il sacerdote, invece di rispondere, si mise a passeggiare fra le colonne, mormorando fra sé:

 «Sì, sarebbe una stupida vendetta.»

 Poi, tornando verso Nefer, riprese:

 «Bada che gli occhi miei e sopratutto quelli di Pepi sono fissi su di te. O gli splendori della corte o la morte: il re sarà implacabile. Va’: tutto è pronto per riceverlo e per addormentarlo fra tue belle braccia. Egli non deve giungere a Menfi, ricordatelo e, giacché l’ami, ti avverto che se egli posasse i piedi nella capitale del Basso Egitto, la morte non lo risparmierebbe. Ha regnato suo padre; lui non regnerà mai.»

 «Non scorderò le tue parole,» rispose Nefer, mentre un brivido di terrore le correva per le ossa.

 «E non una parola o nessuno di noi uscirà vivo dalle tombe degli antichi re Nubiani! Va’! Tu sai che cosa devi fare.»

 Nefer si strinse addosso le leggere vesti che la coprivano, come se un gran freddo l’avesse improvvisamente côlta e uscì rapidamente dal tempio, mentre il sacerdote spegneva bruscamente la lampada.

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