I piccioni incendiarii

CAPITOLO OTTAVO

I piccioni incendiarii
 

 L’uso dei piccioni viaggiatori in guerra e anche come rapidi ausiliari del servizio postale, risale alla più remota antichità e gli egizi sembra che siano stati i primi a servirsi di quei gentili messaggeri, come furono pure quelli che più lungamente degli altri popoli li adoperarono.

 Li ammaestravano sopratutto per la guerra, onde ardere le città che resistevano troppo ai loro assalti, facendo di essi degli uccelli incendiarii. Possessori di materie ardenti, che non si spegnevano nemmeno coll’acqua e che dovevano essere forse simili ai famosi fuochi greci di cui fu perduto per sempre il segreto, usavano attaccarli alla coda di quei graziosi ed intelligenti volatili ed a colpi di freccia dirigevano grosse schiere sulle città assediate, determinando in tal modo degli incendii spaventevoli, che costringevano ben presto i difensori alla resa.

 Non furono d’altronde i soli antichi egizi a servirsi dei piccioni viaggiatori. Anche i greci, molte migliaia d’anni più tardi, li adoperarono pei servizi di guerra, del commercio e sopratutto nei giuochi olimpici. I giostratori che prendevano parte a quelle sfide atletiche, li mandavano regolarmente ai lontani parenti ed amici, apportatori di loro novelle.

 Dicesi che Anacreonte, che visse 500 anni avanti l’êra volgare, spedì un piccione a Bathyll, latore d’una sua lettera e Pherekraters narrò ai suoi tempi, – 430 anni prima della nascita di Cristo, – che in Atene i piccioni servivano di messaggeri per le corrispondenze fra paesi e paesi.

 Anche i romani se ne servirono, avendo appreso dai Greci l’arte di ammaestrarli e Plinio anzi racconta dei messaggi di guerra scambiatisi per loro mezzo, durante l’assedio di Mutina, e, secondo Geliano, lo stesso avvenne fra Pisa e Algina.

 Nessuno però giunse ad addestrare quei volatili come i sudditi dei Faraoni e servirsene per incendiare le città e talvolta perfino le flotte nemiche, che s’impegnavano nei canali dell’immenso delta del Nilo.

 Erano forse quei piccioni di specie diversa e più intelligente di quella odierna? Può darsi che appartenessero a quella chiamata più tardi di Bagdad, di cui si servirono i mussulmani per una lunga serie di anni e che è anche oggidì la migliore.

 Lo stormo immenso, segnalato dagli etiopi, s’avvicinava rapido al Nilo, solcando le tenebre come una tromba di scintille, spinte da un vento impetuoso. La sua mèta era decisa: la barca montata dal giovane Faraone.

 Gli ubriachi o almeno coloro che li avevano aizzati contro i naviganti, non osando assalire direttamente il Figlio del Sole, si erano serviti dei piccioni per combatterlo o meglio per annientarlo, prima che potesse giungere a Menfi. Era quella una prova chiara che alcuni conoscevano l’esistenza del figlio del grande Teti, il vincitore dei Caldei e che qualcuno aveva tradito il segreto, così gelosamente conservato per tanti anni.

 «Lo vedi, mio signore,» disse Ata, rivolgendosi verso Mirinri, che guardava, senza manifestare alcuna apprensione, quel turbine di fuoco che stava per abbattersi sulla nave sempre immobilizzata. «Tu non volevi credere che quegli uomini ti avevano preparato un agguato!»

 «Sì, avevi ragione,» rispose il giovane. «Ed ora giungeranno qui quei volatili?»

 «Certo.»

 «Ma chi li dirige?»

 «Non vedi, signore, sui fianchi di quell’immenso stormo, salire verso il cielo delle freccie fiammeggianti, per impedire ai colombi di disperdersi?»

 «Sì, scorgo infatti delle linee di fuoco che s’alzano fra i palmizi e che formano come una rete ardente.»

 «Sono gli adoratori di Bast.»

 «Non mi sembra tuttavia che noi corriamo un pericolo così grave come credi, Ata» disse Ounis. «Le nostre vele sono ancora calate e quei volatili non fanno altro che passare in mezzo a noi.»

 «È vero, ma molti cadranno qui arsi ed il fuoco che portano appeso alla coda s’appiccherà al ponte. Avranno prima calcolata la durata della corda che sostiene la materia ardente. Guarda, guarda bene: non vedi che i fuochi cominciano già a cadere?»

 «Facciamo affrettare il taglio del canale,» disse Mirinri.

 «Se possiamo uscire dalle erbe prima che quei volatili siano qui, non avremo più nulla da temere.»

 «Manca molto?» gridò Ata, rivolgendosi agli etiopi.

 «Pochi colpi ancora, signore,» risposero.

 «Sbrigatevi: i colombi giungono.»

 In quel momento Nefer che fino allora era rimasta muta senza mai staccare, nemmeno un solo istante, gli sguardi da Mirinri, fece udire la sua voce.

 «Io lancierò la maledizione sui messaggeri dell’aria,» disse. «Iside, la grande dea delle incantatrici, mi udrà e ci proteggerà da questo nuovo pericolo.»

 Un sorriso d’incredulità apparve sulle labbra del giovane Faraone.

 «Provati,» le disse.

 Nefer, il cui viso bellissimo appariva in quell’istante trasfigurato ed i cui occhi si erano nuovamente accesi di quella strana fiamma che aveva colpito Mirinri, si slanciò verso la poppa del piccolo veliero, salì sulla murata con un solo salto, poi, tendendo le braccia verso la tromba di fuoco che filava già al di sopra delle palme costeggianti la riva del Nilo, lasciando cadere di quando in quando delle fiamme che non si spegnevano nemmeno se andavano a finire fra gli umidi papiri, gridò, con voce stridula:

 «O Iside, grande dea delle incantatrici, vieni a me e liberaci dal pericolo che minaccia il giovane Figlio del Sole. Vieni, Horus, col tuo sparviero! Egli è piccolo, ma tu sei grande! Egli è debole, ma tu puoi dargli la forza e disperderà i tristi volatili che stanno per piombare su di noi. Dea del dolore e dio del dolore, dea dei morti e dio dei morti, salvate vostro figlio che ha nelle sue vene il sangue di Horus. Io sono entrata nel fuoco, io sono uscita dall’acqua e non sono morta. O Sole, fa parlare la tua lingua! O grande Osiride intercedi e scatena la tua potenza. Venite tutti, liberateci dal periglio, salvate il giovane Faraone. Dio del dolore, dea del dolore: dio dei morti, dea dei morti, accorrete!»

 Così parlando, la maliarda vibrava tutta, come se una forza misteriosa facesse sussultare le sue carni. I suoi lunghi capelli neri, che erano sciolti sulle nude spalle, si attortigliavano come serpenti attorno al suo superbo collo ed i suoi braccialetti ed i suoi monili tintinnavano armoniosamente.

 Mirinri la guardava stupito, chiedendosi se quella bellissima fanciulla era stata creata da un buon dio o da qualche genio del male. Vi era però nel suo sguardo qualche cosa più dello stupore: vi era dell’ammirazione.

 «Questa fanciulla vale la Faraona che mi ha stregato» mormorò ad un tratto.

 Quantunque avesse pronunciate quelle parole con una voce così bassa da non poterle udire nemmeno Ata che gli stava presso, la maliarda girò lentamente il capo verso di lui e un sorriso le apparve sulla piccola bocca.

 Poi si rizzò tutta, mostrando le sue forme scultorie, che la leggera kalasiris multicolore appena velava e, fissando i suoi occhi sulle stelle, mormorò a sua volta:

 «Morire, che importa? Scendere nel regno delle tenebre sì, ma col bacio del Figlio del Sole sulle labbra!»

 Un gran grido, uscito dai petti degli etiopi, strappò Mirinri da quella contemplazione e fece sobbalzare Ata e Ounis.

 «Il passo è aperto!»

 La corrente, fino allora trattenuta dalla massa del sett, irrompeva gorgogliando attraverso il canale, aperto dalle scuri di bronzo degli erculei figli dell’alto Nilo. Il piccolo veliero, non trattenuto da nessuna corda, cominciava a scivolare fra i papiri e le foglie del loto, con un dolce fruscìo.

 «A bordo! In alto le vele!» tuonò Ata, slanciandosi al timone. «Il vento soffia dal sud! Iside ha ascoltato l’invocazione della maliarda!»

 Pareva infatti che la dea delle incantatrici non fosse stata sorda alle parole di Nefer, poiché la tromba di fuoco cominciava a disperdersi, forse perché non più guidata dalle freccie fiammeggianti, avendo dovuto gli arcieri arrestarsi sulle rive del Nilo.

 Era formata da migliaia e migliaia di piccioni, che portavano, appesa alla coda, un pezzo di materia ardente che bruciava, spandendo all’intorno quella luce azzurrognola che si osserva nel zolfo liquefatto.

 Di quando in quando un gran numero di colombi, investiti dal fuoco, cadevano nel fiume, e quella strana materia anche a contatto coll’acqua non cessava di ardere, crepitando fra i papiri e le larghe foglie di loto.

 Quell’uragano di fuoco passò, con velocità vertiginosa, dietro la poppa del veliero ad un tiro d’arco e proseguì la corsa disordinata verso la riva opposta al fiume gigante, illuminando fantasticamente le tenebre.

 Nefer non aveva abbandonata la murata, quantunque parecchi piccioni fossero caduti dinanzi a lei. Sempre ritta, come una meravigliosa statua di bronzo, con un braccio alzato in atto di scagliare qualche nuova maledizione, col petto sporgente, aveva sfidato intrepidamente il nembo infuocato, ripetendo:

 «Isis! Isis! Grande divinità, proteggi il giovane Figlio del Sole!»

 Quando tutti quei fuochi si perdettero nel lontano orizzonte, al di là delle immense foreste che coprivano la riva opposta del Nilo e il veliero, uscito ormai dal canale con tanta fatica aperto, si cullò sulle acque libere, si volse verso Mirinri, che non aveva cessato di guardarla.

 «Sei salvo, Figlio del Sole!» gli disse.

 «Quale potere soprannaturale possiedi tu?» chiese il giovane. «Io scorgo nei tuoi occhi una fiamma che la figlia dei Faraoni non aveva.»

 Nefer ebbe un sussulto ed il suo viso si contrasse dolorosamente. Stette un momento, come immersa in un profondo pensiero, poi chiese, con uno strano tono di voce:

 «Di quale figlia del Faraone intendi di parlare, mio signore?»

 «Di quella a cui tu predicesti la ventura.»

 «Tu l’hai veduta?»

 «L’ho salvata anzi dalla morte.»

 «Come hai salvato me!» esclamò la maliarda, con un sordo singhiozzo.

 «L’ho strappata dalle fauci d’un coccodrillo.»

 «E ti ha, in compenso, bruciato il cuore, è vero mio signore?»

 «Che cosa ne sai tu?» chiese Mirinri, aggrottando la fronte.

 «Forse che io non leggo nel passato e nel futuro e tutto indovino?»

 «Ah! È vero, me l’hai detto: anzi aspetto la tua profezia.»

 Nefer guardò il cielo. Le stelle declinavano ed in mezzo a loro scintillava, presso l’orizzonte, la cometa. La fissò per parecchi istanti, poi riprese, come parlando fra sé:

 «È quella che racchiude il tuo destino, mio signore. Ma io devo attendere lo spuntare del sole, da cui tutti i Faraoni sono discesi.»

 «Mancherà ancora qualche ora.»

 Ounis interruppe la loro conversazione, chiedendo a Mirinri:

 «Vedi più nulla tu, che hai gli occhi migliori dei miei, sulla riva destra?»

 «No,» rispose il giovane dopo d’aver lanciato un rapido sguardo al di sotto dei palmizi. «Io credo che gli ubbriaconi, veduti i loro sforzi inutili, se ne siano andati o russeranno sotto le piante attorno ai vasi di vino di palma.»

 «E noi approfitteremo per poggiare verso la riva opposta» disse Ata, che aveva fatto spiegare le immense vele. «Colà vi sono delle isole che formano molti canali e che non sono abitate che da ippopotami, da coccodrilli, da ibis e da pellicani.»

 «Potremo passare inosservati?»

 «Lo credo, mio signore,» rispose Ata a Mirinri. «D’ora innanzi noi dobbiamo prendere le più grandi precauzioni o Pepi ci farà arrestare, prima che noi possiamo scorgere gli alti obelischi della superba Menfi. Si sa già che sulla mia barca si nasconde il figlio del grande Teti e l’usurpatore farà il possibile per darci in pasto ai coccodrilli del Nilo.»

 «Attraversiamo il fiume dunque,» disse Mirinri, «e guardiamoci dagli agguati.»

 Il piccolo veliero, che aveva il vento in favore, tagliò obliquamente la corrente, accostandosi alla riva sinistra che appariva coperta da colossali palme dum e fiancheggiata da una fitta rete di papiri e di piante del loto.

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