Il colpo di daga di Nefer

CAPITOLO DICIOTTESIMO

 

 Il colpo di daga di Nefer

 

 Mirinri seguì il consiglio della maliarda e vuotò nuovamente la tazza, senza più occuparsi se vi scorgeva in fondo i due occhi della giovane Faraona che gli avevano acceso nel cuore quella fiamma che non accennava a spegnersi. Vinto dall’ebbrezza, si era lasciato cadere sulla splendida pelle di leone, reggendosi con una mano la testa diventata ormai troppo pesante e Nefer gli si era messa presso, agitando dinanzi al suo viso un ventaglio di penne di struzzo, che una schiava le aveva portato.

 Anche Ounis e Ata si erano lasciati cadere sulle pelli che servivano loro di tappeto e gli etiopi, già quasi tutti ebbri, li avevano imitati ed ascoltavano sbadigliando le istorie che loro narravano le danzatrici le quali si erano sedute alle loro tavole.

 «Mio signore,» disse Nefer, con un perfido sorriso. «Non ti sembra che la vita sia bella così?»

 «Sì, più bella di quella del deserto,» rispose Mirinri, che si sentiva sempre più affascinato dallo sguardo bruciante della fanciulla. «Qui ho provato una felicità che laggiù, fra le sabbie, non avevo nemmeno lontanamente sognata. Sei una fata tu, fanciulla, tu sei una dea. Ora non ne ho più alcun dubbio.»

 «Se tutti i giorni si seguissero così, ti piacerebbe una tale esistenza?»

 «Sì, ma tu dimentichi che io ho un trono da conquistare.»

 «Un trono! Me lo hai detto e non hai mai pensato che laggiù, nell’orgogliosa Menfi, terribili pericoli potrebbero aspettarti?»

 «Che cosa importa? Mirinri saprà sfidarli da giovane forte: non sono forse un Figlio del Sole?»

 «È il potere che tu vuoi.»

 «Sì, Nefer.»

 «Forse che qui ti mancherebbe? Vuoi essere re dell’isola delle ombre? Questa sera il simbolo del diritto di vita e di morte brillerà sulla tua fronte e noi tutti ti adoreremo come un dio. Che cosa ti manca qui? Il fasto della corte dei Faraoni non è superiore a quello che io ti posso offrire. Il sacro fiume bagna questo piccolo regno, le sue acque non sono diverse da quelle che lambiscono le mura dell’orgogliosa Menfi. Tutto ciò che tu desidererai l’avrai: feste, banchetti, danze, suoni e fanciulle per servirti. L’isola delle ombre vale Menfi e non sentirai qui il peso del potere.»

 Mirinri scosse il capo. «Laggiù,» disse poi, «non vi è solo un trono da conquistare.»

 Nefer si era rizzata a metà, facendo un gesto d’ira che subito represse.

 «Il trono e la Faraona,» sospirò poi. «Sempre quella! Sempre quella!»

 Afferrò un’anfora d’oro che una nubiana aveva allora posata sul tavolo ed empì la tazza di Mirinri, poi, porgendogliela, disse:

 «Bevi ancora, questo vino è stato spremuto sulle rive del mar Rosso e nemmeno a Menfi lo si beve. Ti metterà il fuoco nelle vene e poi t’addormenterà dolcemente.»

 Mirinri, che stava per socchiudere gli occhi, ebbe un vago sorriso.

 «Vi è qualche filtro nella mia tazza?» chiese.

 «Perché dici questo?»

 «Perché mi sembra che una grande nebbia si stenda dinanzi ai miei occhi e che me la nasconda.»

 «Chi?»

 Mirinri non rispose: i suoi occhi, offuscati dal vino bevuto, guardavano la tazza.

 «Bevi,» insistette Nefer. «È dolce come il miele e tu non ne berrai nemmeno quando la tua anima immortale navigherà nella vôlta celeste dove splende la dea Nut([10]). Ma io non voglio che tu creda che Nefer abbia diluito in questo vino un filtro. Guardami.

 Posò le sue labbra rosse sull’orlo della coppa d’oro, sogguardando obliquamente colle sue pupille di velluto, imperiose e dolci nel medesimo tempo, il giovane Figlio del Sole e bevette un sorso.

 «A te, ora. Bevi come hai bevuto la luce dei miei occhi.»

 Mirinri afferrò colla mano tentennante la tazza e sorseggiò il vino squisito, maturato dall’ardente sole dell’Arabia.

 «Sì bevo, bella fanciulla,» disse sorridendo.

 «Bella!» esclamò Nefer.

 «Sì, bella,» ripetè Mirinri.

 «Non come la Faraona però.»

 «Che importa? Sei bella e basta.»

 «Ecco una parola che io pagherei colla mia vita, Figlio del Sole.»

 Mirinri si abbandonò sulla pelle di leone, mentre lo sguardo di Nefer, rovente come un ferro scaldato a bianco, lo fissava sempre più intensamente. «Io sono bella, tu hai detto,» disse. «E quanto sei bello tu, figlio d’un gran re!»

 Pareva che Mirinri non l’avesse nemmeno udita. Sorrideva con quel riso che è proprio degli ebbri mentre s’abbandonava sempre più.

 «Dormi,» disse la maliarda che lo spiava. «Io ti narrerò intanto qualche istoria onde il tuo sonno giunga più dolce. Guarda: anche le mie fanciulle addormentano i tuoi compagni ed i tuoi etiopi. Nel deserto ove hai vissuto per così lunghi anni non hai mai udito a narrare la bella istoria della vaga principessa dalle belle gote di rosa?»

 Mirinri fece col capo un cenno negativo.

 «Era una Faraona anche quella, una Faraona come quella che tu salvasti, al par di me, dalle terribili mandibole d’un coccodrillo.»

 «Ah!» fece Mirinri, sbadigliando.

 «Ti annoi, mio signore?»

 «Vicino a te è impossibile. Dammi ancora da bere, Nefer, dammi di quel vino che il sole dell’Arabia ha maturato.»

 «Sì, mio signore.»

 La fanciulla riempì la coppa, vi bagnò come prima le belle labbra, poi la porse a Mirinri che la prese sorridendo.

 «Continua, bella fanciulla,» disse.

 «Ancora bella?»

 «Tu vali la Faraona: quanta luce scorgo nei tuoi occhi! Come sono neri i tuoi capelli… quale profumo esala il tuo corpo divino… non sei un essere mortale tu… sei una divinità… continua… ti ascolto, bella Nefer… Mi parlavi della principessa dalle gote di rosa… chi era costei?»

 «Una Faraona,» disse Nefer.

 «Ah! Me lo avevi detto,» rispose Mirinri che chiudeva involontariamente gli occhi. «Continua.»

 «Era la più bella e la più seducente Faraona che il sole dell’Egitto avesse mai illuminato e non avendo trovato un giovane che le facesse battere forte il cuore, aveva sposato il proprio fratello([11]).»

 «Ah!» fece per la seconda volta Mirinri, sollevandosi leggermente. «E poi?»

 «Il suo sposo non ebbe fortuna e fu assassinato.»

 «Da chi?»

 «Da un altro fratello.»

 «Come mio padre, allora,» disse Mirinri, scattando, mentre un lampo terribile gli avvampava negli occhi.

 «Taci ed ascoltami. La bella principessa dalle gote di rosa fece edificare una immensa sala sotterranea e poscia, sotto il pretesto d’inaugurarla, ma in realtà con ben altra intenzione, essa invitò ad un gran banchetto ed accolse nella sala tutti coloro che avevano preso parte all’assassinio di suo marito e fratello. Durante la festa, la bella principessa fece entrare le acque del Nilo mediante un canale che aveva tenuto occulto a tutti e li affogò.»

 «E lei?»

 «Si gettò in una sala piena di cenere, per evitare la punizione e là dentro vi lasciò la vita.»

 «Sei lugubre, Nefer,» disse Mirinri. «Io però avrei fatto altrettanto, e non mi sarei ucciso così scioccamente.»

 «Vuoi che ti racconti d’altro?»

 «Sì, finché dormirò. La tua voce sembra una musica, è il tremolìo della chitarra, unito alle note dolcissime del flauto e dell’arpa. Mi sembra che mi culli: parla, parla, bella Nefer.»

 «Bella! È la terza volta che tu me lo dici. Te lo rammenterai domani?»

 Mirinri fece un gesto vago e non rispose.

 «Il principe Sotni aveva veduto un giorno passare per le vie di Menfi la bella Tbouboi, figlia d’un gran sacerdote e si era acceso d’amore per lei.»

 «Il sacerdote?» chiese Mirinri.

 «No, Sotni, un Faraone.»

 «Prosegui.»

 «Forte del suo potere, un giorno il principe, approfittando dell’assenza del sacerdote, andò a trovare la fanciulla…»

 Nefer si era interrotta. Mirinri non l’ascoltava più. Dormiva profondamente con una mano sotto la testa e la bocca sorridente.

 La Faraona si era alzata. Anche Ata, Ounis e gli etiopi, coricati sulle pelli, dormivano.

 Essa fece alle danzatrici e alle suonatrici un gesto imperioso, indicando loro la porta di bronzo della mastaba, poi, quando le vide scomparire nell’immenso sotterraneo, si curvò rapidamente sul Figlio del Sole e posò le sue labbra sulla fronte di lui. A quel contatto un forte fremito la fece sussultare.

 «Non è l’impressione che io avevo sognata,» disse, facendo un improvviso passo indietro. «Il mio cuore non ha palpitato: è rimasto muto. Perché? Eppure io l’amo questo forte e gagliardo figlio di un gran re! Si direbbe che è il bacio che una madre dà al suo fanciullo, o quello d’una sorella ad un fratello.»

 Lo strepito d’una porta che si apriva la fece balzare rapidamente in piedi.

 All’estremità della vasta sala, fra le due ultime colonne, era comparso un uomo: il vecchio sacerdote.

 «Dormono?» chiese.

 «Tutti,» rispose Nefer, guardandolo cupamente.

 «L’hai vinto?»

 «Non lo so ancora.»

 «Non l’hai affascinato?»

 «Che ne so io?»

 «Così vuole Pepi.»

 «Il re dell’Egitto potrà uccidere i suoi sudditi, se così gli piace, ma giammai avrà la potenza di comandare ai cuori,» rispose Nefer con voce aspra.

 «Non ti ama dunque?»

 «No!…»

 «Pensa sempre all’altra?»

 «Sempre.»

 «Forse tu non l’hai affascinato come io speravo.»

 «Non mi amerà mai.»

 «Dov’è?»

 «Dorme qui, presso di me.»

 «Hai il braccio fermo tu, Nefer?»

 «Perché mi fai questa domanda?» chiese la fanciulla impallidendo.

 «Te lo dirò poi. Lascia prima che veda lui e anche il vecchio. La mastaba è pronta ad accoglierli entrambi ed io conosco il processo dell’imbalsamazione.»

 «Che cosa vuoi fare, Her-hor?» gridò Nefer, atterrita. «Chi è che vuoi imbalsamare?»

 «Taci,» disse il sacerdote, con voce imperiosa. «Fammeli vedere tutti e due.»

 «Mirinri?…»

 «E quello che si fa chiamare Ounis,» disse Her-Hor, mentre un lampo saturo d’odio intenso gli balenava nelle pupille. «M’interessa più il vecchio che il giovane.»

 «Ounis!» esclamò la fanciulla, con stupore.

 «Sì, chiamiamolo pur così,» rispose Her-Hor, con un sogghigno. «Il giovane prima: voglio vedere se somiglia a suo padre.» Spinse bruscamente da una parte Nefer, che pareva si preparasse a contrastargli il passo e si avvicinò a Mirinri che dormiva profondamente, coi pugni stretti, bellissimo anche nel sonno.

 «Sì,» disse il sacerdote, guardandolo attentamente. «Somiglia a Teti: gli stessi lineamenti, lo stesso mento acuto, la medesima fronte ampia d’uomo fermo nei suoi voleri ed intelligente. Peccato! Se un giorno questo giovane salisse sul trono dei Faraoni sarebbe un gran re, come lo fu suo padre e nessun nemico d’oltre l’istmo oserebbe minacciare la grandezza dell’Egitto. In questo giovane corpo vi è l’intelligenza, la forza del leone, il coraggio indomito dei guerrieri da cui discende e sangue ardente. E fra poco anche tu, che eri destinato a regnare su milioni di sudditi, non sarai che una mummia!»

 «Ah no, Her-Hor!» aveva gridato Nefer, con angoscia.

 Il sacerdote si era voltato verso la fanciulla col viso alterato da una collera tremenda:

 «Che cosa vuoi tu?» chiese. «Sei stata capace di affascinarlo? No, non vi sei riuscita: dunque questo giovane, non più arrestato dalla tua bellezza, non più incatenato dalle tue braccia riprenderà il suo cammino verso il trono che gli spetta. Che cosa avverrà allora? Il giovane leone chiamerà a raccolta i vecchi amici di suo padre, che sono ancora numerosi, quantunque Pepi ne abbia fatti uccidere molti, affinché non gli turbassero i suoi sonni, e la calma che oggi regna sull’Egitto verrà turbata da chissà quale spaventevole guerra. Morto Mirinri ed il vecchio, Pepi non avrà più da tremare.»

 «E vuoi uccidere il Figlio del Sole! Tu, un sacerdote! È un Faraone!»

 «Sarà una mano Faraona che lo ucciderà,» disse Her-Hor freddamente.

 «Chi? Quale?»

 «Taci ora. Dov’è il vecchio?»

 «Voltati, sta dietro di te.»

 Il sacerdote girò lentamente su se stesso e fermò il suo sguardo su Ounis, il quale dormiva accanto ad Ata, sulla pelle di iena striata.

 «Lui!» esclamò, mentre il suo viso si alterava ed i suoi denti scricchiolavano.

 Un sordo ruggito gli era uscito dalle labbra, mentre una vampa gli saliva sul viso, come se tutto il suo sangue gli fosse affluito al cervello.

 «Lo hai già veduto prima d’ora?» chiese Nefer.

 Il sacerdote non rispose. Fissava Ounis con due occhi che avevano un lampo sinistro.

 «Anche tu fra poco non sarai che una miserabile mummia,» disse poi, dopo un lungo silenzio, «e la tua passata grandezza finirà nella mastaba ignorata di questo tempio. Her-Hor sarà vendicato.»

 Si aprì la lunga veste di candido lino che lo copriva ed estrasse una daga di bronzo, affilatissima.

 «Che cosa fai, Her-Hor?» chiese Nefer, balzandogli dinanzi.

 «Uccidili: tu sei una Faraona come Mirinri. Un buon colpo e tutto sarà finito e tu domani rivedrai gli splendori della corte di Menfi e riprenderai il posto che per diritto di nascita ti spetta.»

 «Io!»

 «È Pepi Mirinri che lo vuole, il re dell’Egitto, quello che ha il diritto di vita e di morte su tutti i suoi sudditi.»

 «Io uccidere Mirinri!» ripetè la fanciulla arretrando.

 «E domani la corte di Menfi ti saluterà principessa divina.»

 «Dammi la daga.»

 «A te, colpisci diritto nel cuore.»

 La fanciulla prese l’arma, la guardò per un istante con gioia selvaggia, poi, con una mossa fulminea, la immerse fino all’impugnatura nel petto del sacerdote, gridando:

 «Muori tu, infame!»

 Her-Hor aveva aperto la bocca come per gridare, poi era caduto pesantemente al suolo, senza mandare nemmeno un gemito.

 «Mirinri! Ounis! Ata! Etiopi, in piedi!» aveva gridato Nefer, slanciandosi verso il giovane. «Fuggite!

 Ata, che forse aveva bevuto meno degli altri, fu il primo a rizzarsi. Vedendo Nefer curva su Mirinri e quel vecchio disteso sulle lucide pietre del pavimento, colla bianca veste macchiata di sangue, si era gettato addosso agli etiopi, percuotendoli furiosamente con un tavolino e urlando:

 «Su, miserabili! Salvate il Figlio del Sole!»

 I barcaiuoli, quantunque fossero ancora ebbri, sotto quei colpi, che grandinavano senza misericordia sui loro corpi, erano balzati in piedi ruggendo come leoni feriti.

 A quelle grida, a quello strepito che si ripercuoteva fra i colonnati e le vôlte dell’immensa sala, come il fragore d’una tempesta, anche Mirinri ed Ounis, strappati bruscamente al loro sonno, si erano levati.

 Vedendo presso di sé Nefer, il giovane Figlio del Sole l’aveva afferrata strettamente per una mano, chiedendole con voce rotta:

 «Cos’hai?… che cosa significa questo fracasso?… Nefer… un tradimento… i nemici forse?»

 «Fuggi, mio signore!» rispose la fanciulla, che pareva in preda ad una viva esaltazione.

 «I nemici? Un’arma, Nefer… un’arma!»

 «Eccola… prendila!»

 La fanciulla si era rapidamente curvata sul vecchio sacerdote che rantolava presso il tavolino e con un coraggio, che ben poche donne avrebbero avuto, aveva estratta dal petto del miserabile la daga, porgendola a Mirinri, gocciolante di sangue.

 «A te, mio signore! Prendi!» gli disse.

 «Del sangue!» gridò il Figlio del Sole. «Chi ha ucciso quell’uomo?»

 «Io!»

 «Tu!»

 «I traditori si uccidono.»

 «Che cosa è successo qui?»

 «Taci, fuggi, mio signore! Ah! l’ ureo!»

Si era nuovamente curvata sul vecchio afferrandogli il braccio destro adorno di numerosi braccialetti d’oro e gliene strappò uno, che aveva la forma d’una vipera colla testa d’avoltoio.

 «Seguitemi tutti,» gridò. «Proteggete il Figlio del Sole!»

 Gli etiopi, in mancanza d’armi, si erano muniti di tavoli e di anfore d’oro e d’argento, colle quali contavano di accoppare i nemici, se si fossero presentati e avessero tentato d’impadronirsi del futuro re dell’Egitto.

 Nefer aveva preso Mirinri per una mano e lo trascinava con sé. Aprì impetuosamente la porta di bronzo, dalla quale era entrato poco prima Her-Hor, attraversò quasi correndo la mastaba, che in quel momento era deserta, spinse una porticina pure di bronzo che non era chiusa e si trovò dietro al tempio, in mezzo alle splendide palme dum che coprivano tutto l’isolotto delle ombre.

 «Seguitemi tutti!» aveva nuovamente gridato, con voce imperiosa. «A Menfi! A Menfi! L’incanto è rotto e Nefer non è più la schiava di Her-Hor!»

 Nessuno era rimasto indietro; Mirinri, Ounis, Ata e gli etiopi, l’avevano seguita macchinalmente, senza capire veramente di che cosa si trattasse, avendo ancora il cervello troppo offuscato dalle abbondanti libazioni. Avevano solamente compreso vagamente che un pericolo li minacciava e siccome tutti, forse meno il sospettoso Ata, avevano una completa fiducia nella fanciulla, l’avevano seguita, senza nemmeno chiedersi se erano i guerrieri che montavano le quattro barche che cercavano d’impadronirsi di loro se li minacciavano altri sconosciuti nemici.

 Nefer, che non aveva abbandonata la mano di Mirinri, camminava rapidamente, inoltrandosi sotto le splendide vôlte di verzura, senza mai esitare un solo istante. Certo doveva conoscere a menadito quell’isola, della quale era la proprietaria e la principessa.

 Mirinri, che aveva il cervello ancora offuscato, si lasciava docilmente condurre, seguito da Ata e da Ounis, mentre gli etiopi, ai quali si era repentinamente destato l’istinto selvaggio, balzavano attraverso i cespugli, roteando minacciosamente le anfore ed i tavolini.

 Quella corsa durò una ventina di minuti, poi il drappello si trovò improvvisamente dinanzi ad un piccolo seno bagnato dalle gonfie acque del Nilo, in mezzo a cui si cullava dolcemente una barca, fornita d’un albero e poppa e prora altissime.

 «A terra!» aveva gridato imperiosamente Nefer. «Io ho nelle mie mani l’ ureodi Pepi.»

 Alcuni uomini seminudi erano comparsi sul ponte. Udendo quell’ordine avevano subito afferrata la fune che univa la barca alla riva, tirandola vigorosamente, onde accostarla.

 «Chi sono costoro?» aveva chiesto Mirinri a Nefer.

 «Degli uomini che ti condurranno a Menfi,» aveva risposto la fanciulla.

 «Amici o nemici?» aveva domandato Ata.

 La fanciulla mostrò il braccialetto che aveva strappato al sacerdote, facendolo scintillare agli ultimi raggi del sole che tramontava lentamente dietro la grande catena libica.

 «Fino a che io avrò nelle mie mani questo,» disse, «nessuno minaccerà la vita del Figlio del Sole. Con questo noi andremo indisturbati a Menfi.»

 La barca urtò la riva colla larga poppa e un vecchio, che portava una immensa parrucca sul capo ed una finta barba lunghissima, di forma rettangolare, che gli dava un aspetto ridicolo, erasi curvato sulla murata, chiedendo con voce ruvida:

 «Mostrami il segnale, fanciulla.»

 «Eccolo,» rispose Nefer, alzando il braccialetto. «È l’ ureodel re.»

 «Va’ bene: sono ai tuoi ordini.»

 «Salpa subito.»

 «Per dove?»

 «Per Menfi.»

 «E Her-Hor?»

 «Non occuparti di costui, per ora.»

 Poi, volgendosi verso Mirinri, che era sempre mezzo ebbro, aggiunse: «Sali, mio signore, e anche voi tutti. Il Nilo è gonfio e domani vedremo gli splendori di Menfi l’orgogliosa.»

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