Il dio Api

CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

 

 Il dio Api

 

 L’indomani della visita di Ata, Mirinri, Ounis e la fanciulla, muniti ognuno d’un istrumento musicale per fingersi suonatori ambulanti, lasciarono dopo il mezzodì la casetta, per recarsi all’appuntamento. Dovendo attraversare tutta l’immensa città, la quale si estendeva per molte leghe lungo le rive del Nilo, si erano messi in cammino per tempo, contando di giungere nei pressi della piramide non prima del tramonto.

 Usciti dal quartiere degli stranieri, si erano cacciati nelle tortuose vie che conducevano al centro della metropoli, fiancheggiate dapprima da meschine casupole, formate da quattro mura di terra battuta, contenenti uno o due locali destinati a rinchiudervi le provvigioni ed un cortiletto che serviva da stanza da letto e da cucina, usando i poveri dormire all’aria libera, e poi da palazzi d’aspetto severo e dalle linee semplicissime.

 Gli antichi architetti egizi non spiegavano soverchia fantasia nella costruzione dei loro palazzi, né si preoccupavano di dare una soverchia robustezza e la prova ne è che neppure una di quelle abitazioni, destinate ai ricchi ed ai grandi del regno, poté sussistere fino ai nostri tempi.

 Ciò che gli Egiziani volevano fare eterni erano i templi ed i sepolcreti; i primi perché formavano quasi formule magiche o atti perpetui d’adorazione che, finché esistevano rendevano il dio propizio; i secondi perché proteggevano le mummie e le statue dei morti che erano il rifugio dell’anima sulla terra e perché il loro muto ospite non poteva perire finché i suoi resti sussistevano inviolati nella profondità del sepolcreto.

 Nondimeno davano ai loro palazzi, se non una eccessiva solidità, una certa eleganza, con bellissimi peristilii formati da colonnati di legno, esili e allargantisi verso la cima; decoravano i soffitti con disegni intrecciati, incrostavano le pareti delle sale di malachite e di lapislazzuli e i palazzi stessi fornivano di terrazze e di cortili dai pomposi mosaici, ombreggiati da immense tende e rinfrescati da fontane mormoranti.

 Mirinri, che nulla aveva mai veduto di simile nel deserto dove era cresciuto, guardava con ammirazione crescente lo splendore e la grandiosità dei templi, l’altezza degli obelischi scintillanti d’oro, le lunghe file di palazzi, che si seguivano senza interruzione, la vastità delle piazze dove s’ergevano delle sfingi colossali le cui teste ricordavano i re delle prime dinastie.

 «Che cosa ne pensi della tua capitale?» gli chiese Ounis, che sembrava invece non stupirsi di nulla, come se Menfi gli fosse famigliare.

 «La mia?» rispose Mirinri. «Non lo è ancora.»

 «Domani tu sarai re e l’usurpatore non siederà più sul trono che ti ha rubato. Quando i partigiani di tuo padre irromperanno, come una valanga irresistibile, attraverso la città proclamando re il figlio di Teti il grande, il popolo farà subito causa comune con loro. Questo popolo non può aver dimenticato colui che salvò l’Egitto dalle invasioni dei Caldei.»

 «Io sono pronto a guidare i vecchi amici di mio padre,» disse Mirinri. «Nemmeno la morte mi arresterà. È ancora lontana la piramide?»

 «La via è ancora lunga,» disse Nefer, che gli camminava accanto.

 «La conosci tu?»

 «Ho danzato il ballo funebre molte volte intorno ad essa. La bella Rodope amava la musica e la danza e tutti gli anni le più belle fanciulle di Menfi vanno ad allietare la sua mummia.»

 «Rodope! Chi era costei?» chiese Mirinri. «Una regina forse?»

 «Una povera che Menkeri innalzò agli onori del trono e che il popolo adorò come una divinità, per le sue gote color di rosa, ma era già destinata a salire molto in alto.»

 «Perché?» chiese Mirinri.

 «Si narra che un giorno, mentre la bella fanciulla stava bagnandosi nel fiume, un’aquila piombò su uno dei suoi sandali che aveva deposto sulla riva del Nilo e lo portò verso Menfi, lasciandolo poscia cadere ai piedi del re che stava seduto all’aria aperta. Sorpreso e meravigliato dalla stranezza di quel caso e per l’estrema piccolezza di quel sandalo, diede ordine che si cercasse in tutto il regno la sua proprietaria, immaginandosi che non potesse appartenere che a qualche bellissima fanciulla. Fu trovata: era Nitagrit. Il re, subito innamoratosi, la sposò, imponendole il nome più grazioso di Rodope e…»

 Un lontano rullare di tamburi aveva bruscamente interrotta Nefer, seguito subito da una vivissima animazione da parte del pubblico che ingombrava la via. Uomini e donne avevano affrettato il passo, anzi taluni si erano messi a correre velocemente.

 «Che cosa succede?» aveva chiesto Mirinri a Nefer ed a Ounis.

 «Qualche cerimonia religiosa,» aveva risposto la prima.

 «Può darsi,» aveva detto il vecchio. «Mi sembra che noi ci troviamo non lungi dal tempio della sfinge.»

 «Non t’inganni,» disse Nefer. «Ecco la vasta piazza su cui sorge il più antico tempio che vanti il regno.»

 «Andiamo a vedere,» disse Mirinri. «Bisogna che conosca anch’io le cerimonie religiose del mio popolo.»

 Affrettarono il passo, mentre il rullo dei tamburi diventava più sonoro, accompagnato da uno squillare acuto di trombe, di corni e di flauti. La folla precipitava la corsa, quantunque fosse composta in maggioranza di donne, poiché gli uomini ordinariamente se ne stavano a casa a sbrigare le faccende domestiche. Ben presto Mirinri, Ounis e Nefer si trovarono su una immensa piazza, già gremita di gente, nel cui centro s’alzava un immenso tempio.

 Era il tempio chiamato della Sfinge, uno dei più celebri di Menfi ed anche il solo che sia sfuggito in parte all’invasione formidabile delle sabbie del deserto libico, che fecero scomparire quasi ogni traccia dell’immensa metropoli egiziana.

 Era quello il monumento più antico del mondo e, per la semplicità della sua architettura, costituiva il vincolo d’unione fra le costruzioni megalitiche e l’architettura propriamente detta.

 Da una iscrizione che data dal regno di Cheope, trovata sulla sua facciata alcuni anni or sono dall’egittologo Mariette, che lo disseppellì dalle sabbie che lo coprivano, sembra che fosse stato, in tempo più antico, ancora novamente coperto dalle colonne sabbiose che il vento spingeva attraverso il Nilo. Lo si attribuiva, come la gigantesca sfinge che conteneva nel suo interno, agli Schesou-Hor, ossia agli antenati dei Faraoni, popolo misteriosamente scomparso, e che nondimeno fondò la prima civiltà nella vallata del fiume gigante.

 Quel tempio occupava un’area immensa e poteva contenere fra le sue mura, formate da enormi massi di pietra calcarea, migliaia e migliaia di persone, le quali potevano circolare liberamente fra le innumerevoli colonne quadrate, formate da massi enormi di granito e d’alabastro sovrapposti, sostenenti la piattaforma orizzontale ed i soffitti delle sale.

 Nel momento in cui Mirinri ed i suoi compagni giungevano sulla piazza, un gran numero di suonatori e di suonatrici usciva dall’immensa porta, facendo echeggiare le trombe di bronzo, i flauti doppi e semplici, le arpe, le lire, le trigene ed agitando furiosamente i sistri sacri e le sekhem e le sesbesh di bronzo e di porcellana.

 Nefer era diventata pallidissima.

 «Accompagnano il dio Api ad abbeverarsi al Nilo!» aveva esclamato, stringendosi contro Mirinri.

 «È un toro, è vero?» aveva chiesto il giovane.

 «Sì.»

 «Vediamolo.»

 «Io ho paura.»

 «Di che cosa Nefer?»

 «Penso alla mia profezia.»

 Mirinri alzò le spalle.

 «Sogni troppo di frequente,» rispose con un sorriso.

 «E se vi fosse…»

 «Chi?»

 Nefer non proseguì: guardava però Mirinri con angoscia estrema, ma già il giovane Figlio del Sole aveva rivolta la sua attenzione sul corteo che usciva dal tempio.

 Dopo i suonatori e le suonatrici, che s’avanzavano fra un fracasso assordante, si erano rovesciati sulla piazza, formando delle lunghe file, nubi di danzatrici vestite sfarzosamente e colle gambe e le braccia scintillanti di gioielli preziosissimi. Erano le sacerdotesse del tempio, incaricate di rendere più attraenti le cerimonie religiose, amando gli antichi egizi sfoggiare nei loro templi un lusso ben maggiore di quello della chiesa cristiana.

 Già parecchie centinaia di suonatori e di danzatrici erano sfilate fra la folla che si accalcava sulla immensa piazza, quando uscì dalla porta del tempio, scortato da due drappelli di guardie reali e da numerosi sacerdoti, un bellissimo toro dal pelame tutto nero, con le corna dorate. Era il famoso dio Api, a cui era stato dedicato il tempio della Sfinge e che tutto l’Egitto adorava come una emanazione d’Osiride e di Ptah.

 Era di solito un animale giovane, scelto con grande cura dai sacerdoti, perché doveva avere sul suo dorso certi segni speciali, per far riconoscere la sua origine divina: ossia il pelame nero, con un segno bianco sulla fronte in forma di triangolo, una macchia oscura lungo la spina dorsale che bene o male doveva raffigurare un’aquila, un’altra sotto la lingua che doveva rassomigliare ad uno scarabeo ed i peli della coda doppi.

 Quei segni particolari del corpo del toro erano accuratamente rilevati dai sacerdoti, i quali però si accontentavano di una vaga disposizione dei mazzetti di pelo indicanti le figure necessarie, così alla lontana, come un gruppo di stelle disegna nel cielo l’orsa, la lira, il centauro ecc.

 La venerazione che avevano gli Egiziani per quel fortunato animale era eguale a quella che hanno ancora oggidì i siamesi pel loro elefante bianco e allorquando moriva, era un lutto per tutto l’Egitto. Però non gli si lasciava varcare il venticinquesimo anno, e per quanto dolorosa potesse sembrare la sua morte, i sacerdoti non esitavano ad annegarlo in una fontana che era consacrata a Osiride-Api; poi il suo corpo, accuratamente imbalsamato ed aromatizzato, veniva sepolto con grandi onori in un apposito sepolcreto a fianco dei suoi predecessori.

 Alla comparsa del toro, la folla si era subito gettata a terra, battendo la fronte sulle pietre della piazza, mentre il toro, che sembrava stordito dal fracasso assordante che producevano, tutti quegli strumenti musicali, muggiva sordamente tentando di prendere la corsa.

 Lo seguivano venti carri di battaglia, montati ognuno da due persone: un auriga ed un grande dignitario, che si teneva ritto, appoggiandosi ad una lunga lancia. Quei carri costituivano la cavalleria egiziana, perché, come abbiamo già detto, i guerrieri faraonici non avevano appresa l’arte di cavalcare. Essi si componevano d’un grande canestro, che da ambi i lati portava delle rastrelliere per le armi e per le faretre che contenevano parecchie centinaia di freccie e posava sopra un asse a due ruote, ornati, come pure il timone, di lamiere di metallo e dipinti a colori smaglianti.

 Ogni carro era tirato da due vigorosi cavalli, coperti di gualdrappe variopinte e che portavano sulla testa dei grandi ciuffi di penne. L’effetto che producevano quei carri, lanciati a corsa sfrenata attraverso i campi di battaglia, era quanto mai pittoresco. Anche i re combattevano dall’alto di quei carri, guidando quasi sempre la carica nel momento supremo della lotta.

 Erano appena sfilati dinanzi alla folla, quando questa, che dopo il passaggio del toro si era rialzata, tornò a gettarsi precipitosamente al suolo.

 Sulla soglia del tempio era comparso un magnifico palanchino, tutto scintillante d’oro, sorretto da quattro schiavi etiopi di alta statura, seminudi e colle braccia e le gambe adorne di braccialetti di metallo prezioso.

 Mollemente adagiata su un largo cuscino di lino azzurro, cosparso di smeraldi e di rubini e semicoperta da un immenso ventaglio di piume di struzzo, col manico lunghissimo, che una giovane schiava etiope reggeva, stava una bellissima fanciulla, che aveva lunghe collane di pietre preziose al collo e larghi braccialetti d’oro ai polsi e che sul capo portava una strana acconciatura formata da laminette d’oro, con dinanzi una testa di sparviero, il simbolo del diritto di vita e di morte.

 Aveva la carnagione quasi bianca, gli occhi bellissimi, colla pupilla di velluto dall’espressione imperiosa e dolce ad un tempo; le labbra rosse come corallo ed i capelli corvini, raccolti in un numero infinito di trecce che le sfuggivano al di sotto dell’acconciatura d’oro, scendendole sulle spalle.

 Mirinri aveva appena posati i suoi occhi sulla fanciulla, che un grido irrefrenabile gli sfuggì dalle labbra:

 «La mia Faraona!»

 Poi, prima che Ounis avesse pensato a trattenerlo, con un impeto irresistibile atterrò le persone che gli stavano dinanzi e la doppia linea degli arcieri e s’inginocchiò dinanzi alla lettiga, colle braccia tese, gridando:

 «Mi riconosci tu? Io ho stretto fra le mie braccia il tuo corpo divino!»

 La folla e le stesse guardie che seguivano il corteo, stupiti da quell’atto, per qualche istante rimasero muti ed immobili: anche la giovane Faraona, che udendo quel grido si era alzata, fissando con profonda sorpresa il giovane, non aveva pronunciata alcuna parola.

 Ad un tratto popolo e guardie si scagliarono tumultuosamente addosso all’audace, colle daghe, colle mazze, colle ascie da guerra alzate, per accopparlo. Un comando imperioso della giovane Faraona arrestò tutti:

 «Fermi!»

 Mirinri non si era mosso.

 Stava sempre in ginocchio dinanzi al palanchino dorato, colle braccia tese, in una specie d’adorazione, cogli occhi fissi sulla figlia dell’onnipossente re.

 «Mi riconosci?» ripetè.

 La Faraona fece col capo un leggero cenno affermativo, mentre le sue gote diventavano rosee.

 Le armi si erano abbassate, però gli arcieri avevano formato attorno a Mirinri e attorno a Nefer, che si era spinta risolutamente innanzi, un doppio circolo per impedire a loro di fuggire e pareva che non aspettassero che un segno per farli a pezzi.

 «Seguimi al palazzo reale,» disse finalmente la Faraona «Nitokri riconosce in te il valoroso che un giorno, sulle rive dell’alto Nilo, l’ha strappata dalle fauci d’un coccodrillo.»

 Mirinri aveva mandato un grido di gioia, a cui aveva fatto eco un altro di dolore: il gemito di Nefer.

 Il corteo aveva ripreso la marcia. Mirinri era passato dietro allo splendido palanchino assieme a Nefer, stretto da vicino da una dozzina di guardie reali che lo guardavano poco benignamente, intanto che Ounis, imprecando, si allontanava.

 Giunto all’estremità d’un immenso viale, il corteo si era diviso: quello del bue Api proseguì verso il Nilo, mentre quello della giovane Faraona, composto esclusivamente di grandi dignitari montati sui loro carri di battaglia, e di guardie reali, risaliva verso la parte orientale della metropoli.

 Nitokri, la bellissima figlia di Pepi, era tornata a coricarsi sul ricchissimo cuscino, mentre la schiava etiope che le camminava a fianco della lettiga le faceva dolcemente vento col ricchissimo ventaglio dalle lunghe e variopinte penne, fissate su una placca d’oro di forma semicircolare. Pareva che non si fosse più occupata di Mirinri, ma invece, di quando in quando, volgeva lentamente indietro la testa, sollevava dolcemente le sue lunghe ciglia e le sue pupille profonde e vellutate si fissavano, colla rapidità del lampo, sul suo salvatore, ammirando forse la finezza dei lineamenti e la taglia elegante ed insieme vigorosa, ed ora sulla bella Nefer che la seguiva silenziosa, cogli occhi umidi. Certo sapeva chi era il giovane che l’aveva strappata ad una morte sicura; certo non ignorava che nelle loro vene scorreva il medesimo sangue; che erano entrambi di discendenza divina, entrambi Figli del Sole.

 Dopo aver percorso un’ampia strada ombreggiata da doppi filari di splendide palme dalle immense foglie piumate, si avanzò su un viale che saliva dolcemente ed era fiancheggiato da superbi giardini, dove giganteggiavano dei colossali sicomori che mantenevano una deliziosa frescura. Dopo cinque minuti, la lettiga ed il seguito giungevano dinanzi alla superba dimora dei possenti Faraoni.

 Mirinri si era fermato guardando estatico l’imponente palazzo dove era nato e dove aveva regnato suo padre, quando si sentì improvvisamente atterrare. Sette od otto guardie si erano precipitate su di lui e, dopo d’averlo gettato a terra, l’avevano rapidamente legato ed imbavagliato, prima ancora che avesse potuto opporre qualsiasi resistenza.

 La Faraona e Nefer avevano mandato due grida:

 «Non uccidetelo! È un Figlio del Sole.»

 Una voce, che fece fremere Nefer, s’alzò fra le guardie:

 «Non ora: più tardi.»

 «Her-Hor!» aveva gridato la fanciulla.

 Guardò Mirinri, che non dava più segno di vita, come se sul bavaglio avessero versato qualche narcotico, poi stramazzò svenuta fra le braccia d’una guardia.

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