La necropoli di Menfi

CAPITOLO VENTISETTESIMO

 

 La necropoli di Menfi

 

 Mirinri, il cui cervello pareva che dopo la vista dell’orrendo spettacolo si fosse offuscato, era rimasto immobile, guardando con uno stupore impossibile a descriversi ora Pepi ed ora l’imbalsamatore ufficiale della corte. Certo non doveva aver compresa l’idea del re.

 Questi, che lo guardava sogghignando, come se cercasse di sorprendere l’effetto che avrebbero dovuto produrre le sue parole sull’animo del giovane, vedendo che rimaneva immobile, come se fosse stato fulminato, riprese: «Udiamo prima che cosa dirà l’imbalsamatore.»

 «L’imbalsamatore!» esclamò finalmente Mirinri, come se si fosse in quel momento risvegliato. «Che c’entra quell’uomo col mio destino?»

 «Con quale destino?» chiese Pepi, sempre sardonico.

 «Col mio.»

 «Che cosa ti diceva il tuo destino adunque? Sarei curioso di saperlo.»

 «Che avrei riconquistato il trono di mio padre.»

 «Chi te lo predisse?» gridò Pepi, che non potè fare a meno di sussultare.

 «Il cielo, la terra ed una maliarda,» rispose Mirinri.

 «Ah! Follie!»

 «No: quando uscii dalla minorità, una stella caudata comparve nel cielo; quando un mattino, prima dell’alba, appoggiai i miei orecchi alla statua di Memnone, la pietra crepitò e suonò ripetutamente; quando strinsi fra le mie mani il fiore della risurrezione, che era stato rinchiuso nella piramide eretta da mio padre, dischiuse i suoi petali; quando incontrai una fanciulla che prediceva il destino, mi disse che un giorno sarei risalito sul trono dei miei avi: e quella fanciulla era Nefer!»

 «Nefer!» gridò Pepi che sembrava atterrito. «Il cielo, Memnone, il fiore e quella fanciulla!»

 Non era più Mirinri ora che sembrava fulminato; era il possente re dell’Egitto, che pareva istupidito e che guardava, con profondo terrore, il giovane.

 «Nefer!» ripetè. «La stella cometa, il fiore, Memnone!» Poi volgendosi verso l’imbalsamatore, gli disse quasi con ira:

 «Hai udito?»

 «Sì, re.»

 «Tu sei abile, è vero?»

 «Credo di sì.»

 «Come faresti ad imbalsamare un grande principe? Io non l’ho mai saputo esattamente. Spiegamelo e bada che si tratta d’un uomo di stirpe divina.»

 «È la grande, la ricca imbalsamazione che tu vuoi, re?»

 «La più costosa, onde la mummia possa resistere secoli e secoli, meglio se fino alla fine del mondo.»

 «Venti secoli sono trascorsi e quelle che sono state imbalsamate col nostro processo non presentano ancora nessun deterioramento, quindi, o re, puoi essere sicuro che l’operazione che io eseguirò riuscirà perfetta.»

 Mirinri, appoggiato contro una colonna dell’immensa sala, ascoltava, forse senza comprendere tutto.

 «Prosegui e spiegati meglio,» disse Pepi.

 «Dapprima con un ferro ricurvo noi strappiamo pezzo a pezzo il cervello del cadavere che ci viene affidato e distruggiamo gli ultimi avanzi per mezzo di droghe, che noi soli sappiamo manipolare.»

 «Continua,» disse Pepi.

 «Levato il cervello, che è il primo che si corrompe e che può compromettere la buona riuscita dell’imbalsamazione, facciamo una incisione al fianco con una di quelle pietre taglienti che ci rendono gli Etiopi, perché non si trovano che nei loro paesi, e leviamo da quello squarcio gl’intestini che poi laviamo con vino di palma e che in seguito immergiamo in aromi frantumati.

 «La faccenda veramente è poco allegra,» disse il re, che non staccava gli sguardi da Mirinri.

 «Quindi riempiamo il ventre di mirra pura tritata, di cannella e di altri aromi, eliminando completamente l’incenso, perché potrebbe guastare il processo.»

 «Ah!» fece Pepi.

 «Cucito lo squarcio mettiamo il cadavere nel sale, coprendolo di diversi sali alcalini e ve lo lasciamo settanta giorni, dopo di che lo laviamo, lo avviluppiamo interamente in bende spalmate di gomma arabica e tutto è finito. Così trattato, il corpo potrà sfidare impunemente il tempo.»

 «Allora tu t’incaricherai di imbalsamare col tuo processo meraviglioso…»

 «Chi?» chiese il vecchio, stupito.

 «Quel giovane, allorquando sarà morto,» disse Pepi, puntando l’indice della mano destra verso Mirinri. «Non avrà certo da lamentarsi della mia generosità.»

 Il giovane Faraone si era bruscamente scosso, staccandosi dalla colonna contro cui fino allora si era appoggiato.

 «Me!» aveva gridato.

 «Sì,» rispose Pepi. «Quando tu sarai morto entro la grande necropoli di Menfi, quest’uomo s’incaricherà di imbalsamarti come un grande Faraone, come tuo padre.»

 «Mio padre! Vile! Io ho gettato agli sciacalli la sua mummia che non era la sua! Ah! Bisogna che ti uccida!»

 Con un balzo improvviso il fiero giovane era piombato, pari ad un leone che si scaglia sulla preda, contro il re, atterrandolo di colpo. Stava per strangolarlo quando, ad un grido altissimo dell’imbalsamatore, le dodici porte di bronzo che mettevano nella immensa sala si aprirono d’un colpo solo e cinquanta guardie reali, armate di azze da guerra e di daghe, si scagliarono furiosamente, gridando:

 «Salviamo il re!»

 Mirinri udendo quel fracasso e comprendendo che un grave pericolo lo minacciava, aveva lasciato Pepi.

 «Ah! Mi volete uccidere! Ecco come vi accoglie, miserabili, il figlio del grande Teti!»

 Si precipitò verso la tavola più prossima, afferrò una pesante anfora di bronzo ancora semipiena di vino, poi appoggiatosi contro una delle colonne, attese intrepidamente l’attacco.

 Pareva un giovane leone ruggente, pronto a mordere ed a lacerare a colpi d’unghia.

 «Prendetelo vivo!» aveva urlato Pepi, con voce strozzata.

 Il primo soldato che giunse addosso a Mirinri e cercò di afferrarlo a mezzo corpo, cadde fulminata col capo fracassato. L’anfora era piombata su di lui come una mazza, atterrandolo di colpo e la morte era stata istantanea.

 Un secondo soldato, un terzo ed un quarto avevano tentato di atterrarlo, ma Mirinri, che pareva una belva furibonda e che aveva forza muscolare da vendere, li fece stramazzare ad uno ad uno dinanzi alla colonna.

 L’anfora, maneggiata formidabilmente dal figlio del deserto, stava per fare una strage orribile degli assalitori, quando questi, che avevano lasciate cadere le daghe e le azze di guerra, lo assalirono tutti d’un colpo con impeto irrefrenabile.

 Oppresso dal numero il giovane scosse per alcuni istanti quel grappolo umano, poi, vinto da quello sforzo supremo, cadde sulle ginocchia. Era preso!

 Due lunghe fascie gli furono gettate addosso e dieci mani lo legarono strettamente, impedendogli qualsiasi movimento.

 «Devo ucciderlo?» chiese il capo delle guardie, alzando su Mirinri la sua azza e guardando Pepi che si era rialzato.

 «Nessun di voi è degno di versare del sangue faraonico,» rispose il re.

 «Che cosa dobbiamo fare, dunque?»

 Pepi stette un momento silenzioso, poi disse: «Mettetelo in un palanchino che sia tutto coperto e chiudetelo nella grande necropoli, con una di quelle pietre solide che mettiamo all’entrata delle nostre piramidi. D’ora innanzi i miei sudditi si costruiranno un altro sotterraneo se vorranno farsi seppellire. Il terreno non manca in Egitto per scavare delle mastaba. »

«Miserabile!» urlò Mirinri, facendo uno sforzo disperato per rompere le fascie che lo avvincevano.

 «Quando la morte lo sorprenderà,» proseguì Pepi, freddamente, «il nostro imbalsamatore ufficiale s’incaricherà di preparare il corpo come si fa con un re od un figlio di re. Obbedite!»

 «Qualcuno mi vendicherà!» gridò Mirinri.

 «Chi?» chiese ironicamente Pepi.

 «Ounis che è ancora libero.»

 Udendo quel nome, un pallore spaventevole si diffuse sul volto del possente monarca ed un fremito scosse le sue membra.

 Pareva in preda ad una vivissima emozione, anzi ad una profonda angoscia.

 «È anche lui a Menfi?» chiese, quasi balbettando.

 «Sì e sarà lui che mi vendicherà e che ti pianterà in mezzo al cuore la sua daga.»

 «Saprò prevenirlo,» disse Pepi, come parlando fra sé.

 Quattro arcieri avevano portato in quel momento un palanchino tutto coperto da una tenda nera.

 «Via! Portatelo via! Toglietelo ai miei sguardi!» gridò il re che sembrava smarrito.

 Mirinri fu sollevato di peso, cacciato nel palanchino e le otto guardie che si erano collocate fra le stanghe, uscirono quasi correndo.

 «Uscite tutti,» disse Pepi, indicando alle altre le porte di bronzo.

 Quando si vide solo si lasciò cadere pesantemente dinanzi al tavolino, dove Mirinri aveva pranzato in sua compagnia, tuffandosi quasi fra le foglie di rose che coprivano la pelle di pantera. «Sono un miserabile,» disse passandosi una mano sulla fronte che era bagnata di sudore freddo; «eppure la tranquillità dell’Egitto lo esige.»

 Afferrò un’anfora che era ancora semipiena di vino e riempì una tazza che vuotò d’un fiato. «Dimentichiamo,» disse poi.

 «Chi?» chiese una voce dietro di lui.

 Pepi si era vivamente voltato, afferrando una delle daghe lasciate cadere dalle sue guardie.

 Her-Hor, il grande sacerdote del tempio di Ptah, era entrato silenziosamente nell’immensa sala e gli stava dinanzi.

 «Chi, re?» ripetè Her-Hor.

 «Che cosa vuoi tu?» chiese Pepi.

 «Metterti in guardia,» rispose il sacerdote.

 «Contro chi? È già stato condotto nella necropoli e fra pochi minuti il blocco di pietra chiuderà per sempre il passaggio.»

 «Mirinri, tuo nipote, non è giunto solo in Menfi.»

 «Sì, vi è anche colui che si fa chiamare Ounis, è vero?» chiese Pepi con amarezza, soffocando un sospiro.

 «E forse quello è più pericoloso di Mirinri,» rispose il sacerdote. «E poi vi è un’altra persona alla quale tua figlia ha concessa stamane e imprudentemente la libertà.»

 «Sahuri?»

 «O meglio Nefer, giacché gli abbiamo imposto questo nome.»

 «Bah, una fanciulla!»

 «Pericolosa quanto Ounis, se non di più.»

 «Che cosa mi consigli di fare?»

 «Distruggerli tutti.»

 «Tutti!» esclamò Pepi, con spavento. «Anche Sahuri?»

 «La tranquillità del regno lo esige e poi io odio Nefer.»

 «Ancora?»

 «Non ho dimenticato il colpo di daga che mi ha dato nell’isola delle ombre.»

 «Sai tu dove si trova Ounis?»

 «Ho sguinzagliato dietro a lui i più abili agenti della tua polizia. Si dice che si trovasse insieme a Mirinri nel momento in cui si conduceva ad abbeverarsi nel Nilo il bue Api.»

 «Che riescano a prenderlo?»

 «Sono già sulle sue tracce.»

 «Che cosa ne farò poi di lui?»

 «Lo si ucciderà» rispose Her-Hor.

 «Un’altra infamia!»

 «La tranquillità dello Stato lo vuole, re.»

 «Ma lui! Anche lui!»

 «Il popolo crede che sia morto e da tanti anni!»

 «Temo che un simile delitto mi costi il trono, Her-Hor.»

 Il sacerdote alzò le spalle.

 «L’ ureoè troppo fermo sulla tua fronte, re,» disse poi. «Quale sarà la mano audace che te lo strapperà?»

 «Eppure» rispose Pepi dopo un breve silenzio, «ho dei vaghi timori. Non mi sento tranquillo come prima e questa sera non dormirò come le altre notti.»

 «Le urla di Mirinri affamato, aggirantesi come belva feroce nelle tenebrose gallerie della mastaba, non turberanno per troppo tempo i tuoi sonni, re» disse Her-Hor. «Cinque, sei, forse sette giorni, ammesso che possa resistere tanto perché mi parve d’una robustezza eccezionale, poi tutto sarà finito e non udrai più la sua voce.»

 «Nelle sue vene scorre il sangue mio!» gridò Teti.

 «Non è tuo figlio,» rispose freddamente il sacerdote.

 «È figlio di mio fratello.»

 «Già, quasi uno straniero.»

 «Chi ha creato te? Il genio del male?»

 «La dea della vendetta.»

 «Non esiste una simile divinità nella nostra religione.»

 «Nascerà un giorno.»

 «Sei più terribile di me.»

 «Cerco di realizzare un sogno.»

 «Quale?»

 «Di colpire in mezzo al cuore colui che fece di me, grande sacerdote del tempio delle sfingi, quasi un miserabile.»

 «Vendicarti di Teti?»

 «Sì, di tuo fratello,» disse Her-Hor, con accento feroce. «Se io non avessi trovato in te un protettore, che cosa sarei io oggi? Un miserabile affamato, peggio forse d’uno di quei disgraziati che per mangiare esauriscono le loro forze nell’erezione delle nostre colossali piramidi.»

 «Ma tu dilapidavi le ricchezze del tempio.»

 «Lo dissero i miei nemici,» disse Her-Hor furibondo, «e tuo fratello credette più a loro che a me.» Poi, dopo aver fatto un gesto di rabbia, riprese:

 «Io non sono venuto qui per discutere sulla mia persona bensì per salvare il tuo regno ed il tuo popolo, re.»

 «Che cosa mi consigli di fare, dunque?» chiese Pepi Mirinri con voce tremante.

 «Uccidere inesorabilmente,» rispose Her-Hor «se ti preme la tranquillità del tuo regno.»

 «Esito ad alzare la mano su di lui.»

 «Un re non deve esitare mai.»

 «Non è ancora preso.»

 «Questa sera sarà in nostra mano. Ti ho già detto che le guardie sono già sulle sue tracce.»

 «Che io non lo veda. Non potrei reggere al suo sguardo bruciante: sarebbe un’accusa che mi colpirebbe troppo al cuore.»

 «Un colpo di daga dato da una guardia fidata e chi si rammenterà di lui?»

 «Ne parleranno i suoi partigiani.»

 «Impugnino le armi ora che sono senza mani,» rispose Her-Hor ironicamente. «Se poi…»

 Il fracasso d’una delle porte di bronzo che s’apriva impetuosamente lo interruppe di colpo.

 Nitokri, la bella principessa, era entrata impetuosamente nell’immensa e magnifica sala, col viso alterato, gli occhi fiammeggianti, le vesti scomposte. Tese, con un gesto imperioso, le sue braccia nude, adorne di splendidi braccialetti d’oro verso il grande sacerdote, dicendogli con voce imperiosa:

 «Esci tu, genio maligno!»

 «Nitokri! » gridò Pepi spaventato dall’ira che traspariva sul viso della bella fanciulla.

 «Esci!» ripetè la giovane Faraona, senza guardare il padre ed indicando, con un gesto energico, ad Her-Hor le porte di bronzo.

 «Tu dimentichi, signora, chi io sono,» disse il sacerdote, aggrottando la fronte.

 «Il grande sacerdote del tempio di Ptah, lo so,» rispose Nitokri, con voce stridula, che echeggiò sinistramente nella sala. «Ti basta? E tu sai chi sono io? Una Faraona che un giorno regnerà sull’Egitto e che con un solo cenno punirà tutti quelli che le daranno fastidio. Esci ora!»

 «Non sei ancora regina, fanciulla.»

 «Quando la voce d’una Faraona tuona qui dentro, nel palazzo reale, dal primo all’ultimo suddito, tutti devono obbedire!» gridò Nitokri, ergendosi fieramente dinanzi a Her-Hor: «Esci!»

 «Quando me lo comanderà tuo padre, che è il solo che regna in questo momento e che solo può comandare,» rispose il vecchio sacerdote, che era diventato livido. Poi, volgendosi verso Pepi gli chiese: «Devo obbedire a tua figlia?»

 Il re parve che non lo avesse nemmeno inteso. Si era appoggiato contro una colonna e guardava smarrito, come annichilito, sua figlia.

 «Devo obbedire?» ripetè Her-Hor.

 Pepi fece col capo un cenno affermativo.

 «Sta bene,» disse Her-Hor ironicamente. «Non scordarti però Pepi che tu sei il re e che il tuo regno si trova sull’orlo d’un baratro, e che tutti i sacerdoti sono con te per la salvezza, la tranquillità e la grandezza di questa terra, dal grande Osiride benedetta e fecondata da Râ.

 Lanciò su Nitokri uno sguardo che pareva di sfida, poi attraversò lentamente la sala, senza affrettarsi e uscì dalla medesima porta di bronzo da cui era entrata la fanciulla.

 La principessa attese che i due battenti si chiudessero, poi volgendosi impetuosamente verso Pepi, gli chiese con voce fremente:

 «Che cosa ne hai fatto tu, padre, di Mirinri, del giovane a cui devo la vita? Dimmelo! Io voglio saperlo!»

 «È fuggito,» rispose il re.

 «Dove?»

 «Non lo so. Forse egli non voleva essere ricompensato da me.»

 «Menti!» gridò la fanciulla, coll’impeto selvaggio di una giovane leonessa che si rivolta verso il cacciatore che l’ha ferita. «È stato vinto dalle guardie e portato via.»

 «Ma no…»

 «Chi ha ucciso quegli uomini che giacciono, col capo fracassato, attorno a quella colonna?» chiese Nitokri indicando le guardie che nessuno aveva ancora pensato a trasportare altrove. «Il braccio possente di colui che uccise il coccodrillo che stava per divorarmi nelle fresche acque dell’Alto Nilo, dove il mio corpo divino si bagnava.»

 «Erano dei traditori costoro, degli alleati di quei ribelli che i miei fedeli hanno sorpreso nella piramide di Rodope.»

 «Tu menti!» ripetè la principessa con maggior forza. «Quei disgraziati sono stati atterrati da Mirinri.»

 «Chi te lo disse?» chiese Pepi.

 «Io l’ho saputo. Dove è? Dove l’hai fatto tradurre? Io so che poco fa una lettiga, coperta d’un gran drappo nero, è uscita da questo palazzo scortata da un drappello dei tuoi arcieri. Chi vi era dentro?»

 Il re rimase per qualche istante muto, poi facendo uno sforzo supremo, disse:

 «Non sono io più il re dell’Egitto, dunque? Comando io o tu? Se uno mi dà fastidio, lo faccio scomparire. La tranquillità del regno innanzi a tutto.»

 «L’hai fatto uccidere?» gridò Nitokri, avventandosi contro Pepi e scuotendolo violentemente.

 «Chi?»

 «Mirinri.»

 «No… che cosa temi?» disse Pepi, con aria imbarazzata.

 «Che tu me lo uccida!»

 «L’ameresti forse?» chiese Pepi spaventato.

 «Sì, l’amo,» rispose la fanciulla.

 Pepi si passò due o tre volte una mano sulla fronte poi disse, come parlando fra sé, mentre un brivido scuoteva il suo corpo:

 «Lui sì… forse… ma l’altro?… Crollerebbe tutto ed io che cosa diverrei?»

 «Padre!» gridò Nitokri. «Io l’amo!»

 Pepi s’appoggiò alla colonna e si coprì con ambe le mani il viso, ripetendo con voce strozzata:

 «Ecco la fine… tutto crolla intorno a me… il mio potere… il regno… È la punizione…» Poi ergendosi, con uno sforzo supremo, disse: «Lui… no… mai… Her-Hor lo catturerà… il popolo l’ha dimenticato… è morto sotto i Caldei… sparirà nuovamente…»

 «Che cosa dici, padre?» chiese Nitokri, che lo guardava con angoscia.

 «Manda uno dei miei capitani nella necropoli dove io aveva fatto rinchiudere Mirinri vivo,» disse Pepi. «La pietra fatale non sarà ancora collocata… se lo fosse fa’ diroccare le mura… viva e sia felice giacché tu l’ami e ti ha salvata la vita… e regni… ma dopo di me… il popolo egiziano mi sarà riconoscente… è un Figlio del Sole.»

 «Nella necropoli hai detto, padre!»

 «Sì, va’, comanda… te lo dono…»

 «Mirinri è mio? Oh la suprema felicità!»

 «Taci! È la rovina dell’Egitto forse. Va’!»

 Nitokri uscì, quasi correndo.

 Era appena scomparsa quando Her-Hor rientrò nella sala. Un lampo maligno illuminava i suoi occhi.

 Pepi empì una tazza e la vuotò senza guardarlo.

 «Hai ceduto re, è vero?» gli chiese il grande sacerdote.

 «L’ama,» rispose asciuttamente Pepi, posando la tazza vuota, «e Nitokri è mia figlia, carne della mia carne.»

 «E lui è preso.»

 «Chi?» gridò Pepi scuotendosi.

 «Ounis.»

 «Lui!»

 «Lo salverai?»

 «Domani si scateni il mio leone favorito, nel grande serbatoio del Nilo… Vedremo se il vincitore dei Caldei saprà vincere anche il terribile figlio delle sabbie libiche… salvo il figlio, ma lui no… Il popolo d’altronde lo ha dimenticato!»

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