L’assalto alla piramide di Rodope

CAPITOLO VENTITREESIMO

 

 L’assalto alla piramide di Rodope

 

 Nell’epoca in cui Menfi aveva raggiunto il suo massimo splendore, numerose piramidi s’alzavano nei suoi dintorni, non meno gigantesche di quelle che sussistono oggi e che formano oggi l’ammirazione dei viaggiatori perché prima cura di ogni capo d’una nuova dinastia era quella di prepararsi un sepolcro, che servisse di ricovero alla sua salma ed a quella dei suoi discendenti.

 La costruzione della piramide cominciava subito dopo la sua incoronazione, certo con non molto piacere dei suoi sudditi, i quali erano costretti a lavorare anni ed anni duramente, senza percepire alcun stipendio, poiché i re si limitavano a nutrire quei disgraziati operai con rape e con legumi, che però importavano sempre una spesa enorme, poiché si trattava di dare da mangiare a migliaia e migliaia di bocche, per parecchi lustri di seguito. Si sa per esempio che la costruzione della piramide di Cheope che è la più grande che ancora sussista, costò la bagatella di mille e seicento talenti, pari a novecento milioni, spesi in soli legumi! …

 Fino a che il re viveva, il lavoro non veniva interrotto, sicché la piramide continuava ad ingrandirsi, aggiungendovi, senza posa intorno pietre enormi, cosicché più immense diventavano a misura che si prolungava la vita del sovrano. Quella di Cheope per esempio è la più colossale, perché il re che la fece costruire visse cinquantasei anni dopo la sua salita al trono. Essa è la meraviglia del genere, misurando duecento e ventisette metri per lato ed un’altezza di cento e trentasette, ma si crede che fosse assai più vasta e più alta e che la sua vetta sia stata in parte distrutta assieme ad una buona parte del suo rivestimento esterno. Comunque sia, desta sempre una profonda impressione al viaggiatore per la sua massa enorme e per la grandiosità delle sue linee e pari effetto producono le sue sorelle minori che le stanno ai fianchi, quelle chiamate Chefren e Mycerino, benché assai più piccole.

 All’infuori però della meraviglia prodotta dalla mole, le piramidi egiziane non hanno nulla che possa interessare l’artista, essendo formate di enormi massi perfettamente lisci, senza alcuna scultura. Gli Egiziani non contavano certamente di fare delle opere d’arte, bensì di preparare al loro re un asilo sicuro, indistruttibile, che potesse sfidare i secoli e dove la mummia reale potesse riposare indisturbata fino alla fine del mondo.

 Infatti le piramidi non sono altro che sepolcri particolari, simili alle mastabe, che si facevano costruire i ricchi egiziani, incominciate e condotte a compimento secondo proporzioni degne dei loro ospiti. Come le mastabe, nascondono entro i colossali loro fianchi delle serdab, ossia delle tortuose gallerie; e nel loro centro hanno la cripta, il luogo destinato a ricevere la salma del re. La cripta che si trova proprio nel cuore delle piramidi, non era altro che una piccola cella tenebrosa, coperta da un enorme lastrone di granito roseo, destinato ad impedire la caduta dell’enorme massa di pietre che doveva esercitare una pressione spaventevole.

 Per ovviare il pericolo d’un franamento, gli architetti egiziani avevano la precauzione di costruire al di sopra della cripta cinque camere di scarico, sovrapposte le une alle altre, la più alta delle quali si trovava sormontata da due blocchi inclinati a guisa di tetto che dividevano e rigettavano la pressione esercitata da quella immensa fila di pietre.

 Erano camere senza dubbio meravigliose, costruite con una solidità a tutta prova, che non piegarono d’una sola linea per centinaia e centinaia di secoli e che costituiscono il lato veramente straordinario della costruzione delle piramidi.

 Nella piramide si rivela più luminoso il genio degli architetti egiziani di sei o sette mila anni fa, che eseguirono lo sforzo sovrumano benchè dotati di cognizioni scientifiche primitive e probabilmente privi di macchine. Ciò poi che desta maggior stupore è il fatto che le piramidi più antiche, costruite sotto le prime dinastie, hanno meglio delle altre resistito al tempo. Sembra che gli architetti di settemila anni or sono fossero migliori di quelli che vissero sotto le ultime dinastie. Infatti le prime sono ancora là, giganteggianti sui margini del deserto, ergendo orgogliosamente le loro cime, sfidando nella loro formidabile impassibilità i secoli, rinserrando ancora nei loro fianchi mostruosi le mummie dei re che le costruirono, come una sfida all’eternità. Sono i monumenti più antichi del mondo e probabilmente saranno anche gli ultimi a sparire.

 Allorquando il nostro globo si sarà raffreddato e andrà roteando vuoto e spopolato; allorché l’ultima famiglia umana sarà scomparsa ed il tempo avrà ridotto in polvere le opere moderne, forse la grande piramide che racchiude la mummia di Cheope sussisterà ancora, ultimo avanzo della rovina d’un mondo e forse allora, in fondo a qualche sepolcreto incontaminato, una mummia proseguirà ancora il suo sonno secolare, circondata dagli oggetti più cari che ne allietarono l’esistenza, mentre noi moderni non saremo che polvere. Può darsi che quella mummia, dopo essere stata uno dei primi uomini a far sorgere l’alba della nostra civiltà, sia anche l’ultima testimonianza, sulla Terra deserta e morta, dell’esistenza del genere umano sul globo…

 La piramide di Rodope, entro cui si erano riuniti i partigiani di Teti, non aveva le dimensioni di quella di Cheope, quantunque fosse annoverata fra le maggiori dell’immensa necropoli di Menfi ed in quel tempo era ancora intatta, non avendo ancora dovuto servire i suoi materiali alla costruzione di Tebe. Al pari delle altre, aveva camere vuote immense, corridoi e nel suo centro la cripta, dove dormiva già da secoli la salma della bella regina, entro un meraviglioso sarcofago di basalto azzurro, chiusa da un masso enorme di granito così duro da sfidare il piccone, poichè gli Egiziani curavano al massimo l’inviolabilità dei sepolcreti dei loro re e delle loro regine.

 Her-Hor, dopo essersi fatto mettere a terra dallo schiavo nubiano, si avanzò lentamente verso la piramide, appoggiandosi al braccio di Maneros, osservando attentamente la fronte del colossale monumento la cui cima scompariva fra le tenebre.

 «Dove si trova la pietra di chiusura?» chiese a Maneros.

 «Al di sopra del ventisettesimo gradino,» rispose la guardia.

 «Credi che siano entrati per di là?»

 «È impossibile, grande sacerdote. Per chiudere la serdab dopo che fu sepolto l’ultimo rampollo della cessata dinastia, fu adoperato un masso così enorme e di pietra così resistente, che nessun essere umano avrebbe potuto né intaccare, né muovere. Non deve essere da quella parte che i ribelli sono riusciti a entrare nella piramide.»

 «Allora, vi è qualche altro passaggio?»

 «Sì, al di sopra del quarantesimo gradino sia a levante che a ponente, esistono due gallerie che immettono in una delle cinque stanze di scarico. Andiamo a vedere se i massi che le chiudevano sono stati smossi.»

 «Quanti soldati vuoi?»

 «I passaggi sono stretti fino alla camera,» rispose Maneros. «A me, ne basteranno due dozzine per ora: altri cinquanta rimarranno fuori sul gradino, pronti ad accorrere alla prima chiamata. I rimanenti circonderanno la piramide, poiché può darsi che esista qualche altro passaggio a me sconosciuto. Tu sai, grande sacerdote, come sono costruite le nostre piramidi e quanto sia difficile dirigersi attraverso le serdab. »

 Her-Hor si volse verso lo schiavo nubiano che gli stava presso, in attesa dei suoi ordini e gli sussurrò alcune parole. Poco dopo due drappelli di arcieri, muniti di torcie e carichi di grossi fasci di legna verde, giungevano dinanzi alla piramide, mentre parecchi altri, molto più numerosi, si avanzavano silenziosamente, stendendosi intorno al gigantesco monumento.

 «Obbedite a quest’uomo,» disse il sacerdote agli arcieri, indicando loro Maneros. «Egli solo conosce l’entrata.»

 «Andiamo,» disse la guardia del re, snudando la sua larga daga. Si mise a salire i gradini della piramide finché raggiunse il quarantesimo, seguito da tutti gli altri che avevano già accese le torcie. Come aveva già previsto, la pietra che chiudeva una delle due gallerie che s’aprivano una dinanzi ed una dietro la piramide, coll’orientazione esatta da levante a ponente e che dovevano mettere nelle camere di scarico, era smossa. L’intonaco, quell’intonaco non meno duro del granito, di cui gli antichi egizi solo possedevano la ricetta per fabbricarlo, era stato levato con qualche istrumento tagliente.

 «Sono entrati per di qui,» disse Maneros, volgendosi verso gli arcieri. «Il difficile sarà a scoprirli. Si troveranno nelle camere, nei pozzi o nella cripta?»

 L’impresa non era davvero facile, poiché i costruttori delle piramidi scavavano, nell’interno di quelle masse enormi di pietra, un numero straordinario di gallerie e di pozzi per far perdere le piste ai futuri violatori e far prendere abbaglio sul posto reale della mummia e vi sono riusciti così bene che, quando gli arabi invasero l’Egitto, perdettero inutilmente il loro tempo a scoprirle, quantunque il califfo Amron avesse fatto scavare parecchi corridoi entro quei giganteschi sepolcreti.

 Vi erano passaggi senza sbocco; pozzi che non servivano ad altro che a far smarrire le ricerche dei violatori; gallerie che scendevano e risalivano con grandi angoli e che conducevano sempre al medesimo punto; celle sotterranee scavate molti metri al di sotto del livello della piramide; gradinate che non mettevano in nessun luogo. Un vero labirinto insomma, che costringeva i violatori a perdere ogni speranza di raggiungere la famosa cripta dove la mummia reale riposava indisturbata.

 Maneros, aiutato dagli arcieri, spostò l’enorme massa di granito rossastro che aveva servito a chiudere il passaggio, prese una torcia e s’inoltrò risolutamente nella serdab che scendeva verso il centro della piramide. Tutti gli altri lo avevano seguito, colle daghe sguainate, non potendo gli archi servire, almeno pel momento.

 Un sandalo di paglia, abbandonato in mezzo alla galleria e che conservava ancora qualche traccia d’umidità, li persuase di essere sulla buona pista. I ribelli dovevano essere passati per di là e qualcuno si era sbarazzato di quella specie di suola, i cui legacci, per una causa qualunque, si erano spezzati.

 La serdab continuava a scendere, non troppo ripida però. Era un corridoio abbastanza alto, perché un uomo si potesse tenere in piedi e largo un metro e mezzo, e che probabilmente doveva condurre nel pozzo centrale, da dove il sarcofago della bella regina era stato fatto scivolare nella misteriosa cripta, perduta chi sa dove fra quell’ammasso enorme di pietre, che Menkeri aveva fatto accumulare onde la sua bella potesse riposare tranquilla attraverso i secoli.

 Il drappello, munito di fiaccole, s’avanzò con precauzione, arrestandosi di quando in quando per ascoltare, finché si trovò dinanzi ad una specie di pozzo assai largo, fornito di una gradinata che scendeva in forma di spirale e che presumibilmente doveva terminare in una delle cinque camere di scarico, probabilmente la superiore.

 «Silenzio,» disse Maneros, rivolgendosi verso gli arcieri.

 Si curvò sul margine del pozzo il cui fondo non era visibile ed ascoltò attentamente.

 Un debole rumore, che sembrava prodotto dal russare di qualche gigantesco animale, giunse ai suoi orecchi.

 «I ribelli sono sotto di noi,» sussurrò. «Hanno occupato le camere di scarico e dormono tranquilli, sicuri di non venire disturbati. Certo non s’immaginavano di venire sorpresi.»

 Si volse verso gli arcieri: «Accendete un fascio di legna, gettatelo nel pozzo, e mandate qualcuno a vedere se il fumo esce dietro la piramide. Suppongo che anche l’altra galleria sia stata forzata per prepararsi una pronta ritirata.»

 Un arciere diede fuoco ad un fastello e lo lasciò cadere nel pozzo, mentre un altro si allontanava correndo.

 «Preparate gli archi,» continuò Maneros. «Se i ribelli si mostrano, non fate risparmio di freccie.»

 Una densa colonna di fumo s’alzò per qualche istante dal pozzo, nel cui fondo crepitava il fascio, lanciando intorno a sé lunghe lingue di fuoco che avevano dei bagliori sanguigni. Certo qualche materia molto infiammabile doveva essere stata racchiusa fra i legni che formavano il fastello, a giudicare dalla violenza delle vampe e dalla intensa luce che proiettavano sulle pareti.

 Quella nuvola ebbe però una durata brevissima. S’abbassò rapidamente, poi scomparve completamente come se fosse stata assorbita.

 «Invade le camere di scarico,» disse Maneros con un feroce sorriso. «Si vede che i ribelli hanno forzata anche la serdab che sbocca a ponente della piramide.»

 Un urlo immenso, che pareva sfuggito da centinaia e centinaia di petti, rintronò nel mezzo della piramide, seguito da un tumulto spaventevole.

 «Il fuoco! Il fuoco!»

 Quelle voci echeggiavano in alto ed in basso, propagandosi attraverso le misteriose gallerie che salivano e scendevano nei fianchi del colossale monumento.

 «Giù i fasci!» comandò Maneros.

 Una ventina di fastelli furono precipitati nel pozzo, alzando una fiammata tale da costringere gli arcieri a retrocedere rapidamente.

 «Ecco chiuso il passaggio,» disse Maneros. «Ora possiamo andare ad attendere i ribelli allo sbocco della seconda galleria. È impossibile che possano resistere, tanto più che non potranno scendere fino alla cripta di Rodope che è chiusa da una lastra di pietra assolutamente inattaccabile.»

 Il drappello, ormai certo che nessuno dei ribelli avrebbe potuto passare attraverso il fuoco che avanzava come un piccolo vulcano entro il pozzo, allungando le sue lingue fino ai margini superiori, riprese frettolosamente la via del ritorno onde sottrarsi ai nuvoloni di fumo che invadevano ormai anche la serdab.

 Giunto all’aperto, Maneros s’avvide che la piramide era stata ormai tutta circondata dalle truppe reali, le quali formavano un immenso rettangolo, con delle linee assai profonde.

 «Sono presi,» disse. «Il mio avanzamento è assicurato.»

 Scese frettolosamente i gradini e raggiunse Her-Hor che stava seduto presso il carro.

 «Li teniamo ormai tutti,» gli disse. «Il re sarà soddisfatto della nostra spedizione.»

 «Sei certo che vi siano dentro?» chiese il gran sacerdote.

 «Abbiamo udite le loro grida. Sali sul carro e vieni ad assistere alla loro resa.»

 Il nubiano prese Her-Hor e lo rimise sul veicolo; poi guidò i buoi verso la parte opposta della piramide, dove Maneros supponeva esistesse il secondo corridoio, passando attraverso le linee degli arcieri che stavano tendendo gli archi.

 La guardia non si era ingannata. Al di sopra del quarantesimo gradino della facciata posteriore dell’immenso sepolcreto, sfuggiva un filo di fumo perfettamente visibile, cominciando allora il cielo a tingersi dei primi riflessi dell’aurora.

 «Lo vedi?» chiese ad Her-Hor, indicandoglielo.

 «Sì,» rispose il sacerdote. «Fa venire innanzi gli scribi, i carnefici ed i carri. Fra mezz’ora Pepi potrà esaminare le mani dei vecchi partigiani di suo fratello.»

 Quattro giovani, quasi completamente nudi, perché non avevano che una cintura stretta intorno alle reni, sostenenti alcuni rotoli di papiri e dei pennelli, si erano fatti innanzi, sedendosi ai fianchi di Her-Hor.

 Erano quattro scribi, personaggi molto importanti ed assai apprezzati alla corte dei Faraoni, perché incaricati di registrare tutti gli avvenimenti importanti che succedevano, di scrivere le necrologie dei grandi e dei re, di tenere stretto conto delle condanne pronunciate e delle pubblicazioni letterarie, (infatti anche in quelle lontane epoche gli scrittori non mancavano.) Trassero i rotoli che tenevano nelle cinture e li svolsero preparandosi a scrivere. Erano i famosi papiri che servivano agli antichi egizi come carta, tagliati in striscie sottili lunghe dieci o dodici piedi, incollate a strati e disposte ad angolo retto, con una soluzione di gomma arabica.

 Dietro di loro erano subito comparsi due schiavi nubiani, di forme atletiche, che tenevano in mano delle daghe di bronzo affilatissime, dalla lama molto larga e assai pesante verso la costa superiore: erano i carnefici reali.

 Her-Hor teneva gli sguardi fissi sulla nuvoletta di fumo che sfuggiva ad ondate al di sopra del quarantesimo gradino. Una gioia sinistra animava il suo viso incartapecorito. Ad un tratto mandò un grido: «Tendete gli archi!»

 Un uomo era comparso attraverso il fumo, balzando, con un salto immenso, sul gradino. Era sbucato dalla galleria di ponente e si era subito fermato, facendo un gesto di rabbia, mentre gli arcieri che circondavano la piramide alzavano gli archi, pronti a saettarlo.

 Her-Hor, aiutato dal nubiano, si era alzato, gridando: «Arrenditi o ti faccio uccidere. La giustizia del re t’ha ormai raggiunto e Pepi è clemente anche verso i ribelli che gl’insidiano il potere. Scendi!»

 Dietro a quel primo uomo ne erano comparsi molti altri, rovesciandosi verso i gradini superiori che in breve furono tutti occupati.

 I ribelli sorpresi dal fumo che aveva invaso certamente le ampie stanze di scarico e anche le serdab, ed impotenti a sfidare il fuoco che ardeva nel pozzo, per sfuggire alla soffocazione erano fuggiti per l’apertura di ponente, aggruppandosi sui gradini della gigantesca piramide. Siccome rimanevano immobili, come incrostati contro le pietre, Her-Hor aveva ripetuto:

 «Arrendetevi o le guardie del re si lancieranno all’assalto della piramide.»

 Un grido fendette lo spazio:

 «Addosso: meglio la morte con le armi in pugno.»

 Era stato Ata a lanciarlo.

 Tosto quei sette od ottocento uomini che erano sbucati dalle viscere dell’immenso sepolcreto, si rovesciarono attraverso i gradini come una valanga spaventevole. Era tutti armati di daghe, di ascie dalla lama larghissima e di lunghi pugnali.

 Le guardie del re, tre o quattro volte superiori di numero, e fornite di grandi scudi, si erano prontamente radunate dinanzi alla fronte di ponente della piramide, stringendo le file e lanciando una nuvola di dardi.

 Dei ribelli, trafitti dalle freccie, di quando in quando stramazzavano sui gradini e ruzzolavano come corpi inerti, balzando e rimbalzando sui fianchi della piramide; ma gli altri, guidati da Ata che pareva un leone affamato, continuavano la loro furibonda discesa, urlando ferocemente ed agitando forsennatamente le daghe e le azze di guerra.

 Quella corsa durò appena mezzo minuto. I dardi delle guardie del re non erano riusciti ad arrestare quella valanga umana, la quale giunse ben presto alla base della piramide, scagliandosi, con impeto disperato, contro i sudditi dell’usurpatore.

 Erano i partigiani di Teti quasi tutti vecchi, però esperti nel maneggio delle armi, avendo partecipato alla lunga e terribile campagna intrapresa contro le falangi dei Caldei, quindi potevano costituire un grave pericolo anche per le guardie reali, malgrado queste fossero assai più numerose.

 L’urto fu terribile. Ata che guidava i vecchi amici di Teti, con uno slancio irresistibile sfondò le prime file, tentando di aprirsi a viva forza un passaggio. Disgraziatamente altre truppe, che fino allora si erano tenute nascoste in mezzo ai palmeti, accorrevano in soccorso di quelle che avevano circondata la piramide, rinforzando le loro linee. Erano altre migliaia di guerrieri che piombavano sui ribelli, montati su carri di battaglia trascinati da focosi cavalli, che si scagliavano in mezzo alle file ormai disorganizzate dei combattenti.

 Fu l’affare di pochi minuti. Il numero aveva vinto il valore disperato dei partigiani di Teti. La disfatta era completa.

 Her-Hor, che aveva assistito impassibile alla terribile battaglia, stando coricato sul suo carro, quando vide i ribelli disarmati e stretti fra le truppe reali, gridò:

 «Che si avanzi il capo di questi miserabili.

 Ata che aveva le braccia ed il kalasiris insanguinato, essendosi battuto ferocemente, si fece innanzi, gettando sul gran sacerdote uno sguardo ripieno di disprezzo.

 «Sono io, il capo,» disse. «Vuoi la mia vita? Prendila: qualcuno penserà a vendicarmi e più presto che tu nol creda. Il regno di Pepi, l’usurpatore, sta per tramontare per sempre.»

 Her-Hor fissò sul valoroso egiziano i suoi occhi, esclamando:

 «Io ti conosco.»

 «Può darsi,» rispose Ata.

 «Ti ho veduto nell’isola delle ombre.»

 «Ah! Eri là anche tu?»

 «Dov’è Nefer?» gridò il vecchio, digrignando i denti.

 «Vattela a cercare.»

 «E Ounis?»

 «Chi lo sa?»

 «E Mirinri?»

 «Che ne so io?»

 «Erano con te.»

 «Li ho perduti lungo la via,» rispose Ata, con accento beffardo. «Se vuoi trovarli cercali lungo il Nilo. Ti avverto però, vecchio, che il fiume è lungo e che le sue sorgenti sono nascoste nel regno scintillante di Râ e d’Osiride.»

 «Tu ti prendi gioco di me!» urlò Her-Hor.

 «Vuoi la mia vita? Ti ho detto di prendertela. Ounis e Mirinri mi vendicheranno.»

 «Ounis!» ruggì il gran sacerdote, con un intraducibile accento d’odio. «Lo voglio in mia mano, mi comprendi? Più lui che Mirinri!»

 «Perché?»

 «Perché è lui il nemico più terribile. Io solo so chi si nasconde sotto quel nome.»

 «Va’ a prendertelo dunque.»

 «Dove li hai lasciati?»

 «Te l’ho già detto, vecchio: sul Nilo.»

 «O sono qui, invece?»

 «Solo essi potrebbero dirtelo. Va’ ad interrogarli.»

 «Non temi la collera del re?»

 «Io non ho conosciuto che un solo re: il grande Teti e da quello nulla avevo da temere, perché era mio amico.»

 «Passa dunque!» gridò Her-Hor, furibondo.

 «Ah! I carnefici del re,» disse Ata. «So la sorte che mi attende. Ecco le mie mani!»

 S’avanzò tranquillo attraverso le file dei soldati e offrì le sue braccia al primo carnefice che l’aspettava colla daga alzata:

 «Taglia dunque,» disse. «L’anima del vecchio guerriero non perirà per questo.»

 Due volte la lama scintillò e le due mani del disgraziato caddero al suolo, senza che un lamento gli fosse sfuggito.

 «Donale all’usurpatore,» disse il fiero egiziano, spruzzando col suo sangue il viso del grande sacerdote. «Ounis e Mirinri un giorno ti faranno pagare cara questa mutilazione.»

 Un aiutante del carnefice lo aveva subito afferrato, immergendogli rapidamente i moncherini sanguinanti in un bacino d’olio caldo per arrestare l’emorragia.

 «Avanti gli altri,» disse Her-Hor.

 Seicento sfilarono dinanzi al suo carro e mille e duecento mani caddero.

 Mezz’ora dopo sessanta carri di battaglia lasciavano i dintorni della piramide, portando alla corte quei sanguinanti trofei.

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