Le tombe di Qobhou

CAPITOLO SECONDO

 

 Le tombe di Qobhou

 

 «Tuo padre, il grande Teti, era il capo stipite della VI dinastia. A lui Menfi deve il suo splendore ed a lui l’Egitto deve la sua potenza e la sua grandezza e le più grandi piramidi, che sfideranno il tempo e che sussisteranno anche quando forse la nostra razza si sarà spenta.

 «Egli ebbe due figli: tu ed una bambina a cui i sacerdoti imposero il nome di Sahuri.»

 «Mia sorella!» esclamò Mirinri.

 «Sì.»

 «Vive ancora?»

 «Lo saprai più tardi. Accadde che un giorno si sparse la voce che un esercito caldeo aveva attraversato l’istmo, che separa il Mediterraneo dal mar Rosso, l’Africa dall’Asia e che si avanzava minaccioso per distruggere la potenza della nostra razza.

 «Degli eserciti egizî furono mandati contro gl’invasori e vennero ad uno ad uno sterminati.

 «Tutte le città della costa sono prese e date alle fiamme e gli abitanti passati a fil di spada, senza riguardo né di sesso, né di età. Pareva che l’ultima ora stesse per suonare pei Faraoni e che perfino la grande Menfi dovesse crollare sotto i colpi dei Caldei.

 «Fortunatamente vi era tuo padre.

 «Discendente da caste guerriere, forte e valoroso, raccolse un poderoso esercito e disprezzando i consigli dei vili cortigiani e ministri, che non volevano che un re si esponesse a sì grave rischio, ne assunse il comando e mosse risolutamente contro il nemico che già s’avanzava vittorioso verso Menfi.

 «Ad On, là dove comincia il Nilo a diramarsi, le sterminate falangi degli Egizi e dei Caldei s’urtarono con terribile accanimento.

 «Tuo padre combattè come l’ultimo dei suoi soldati, nelle prime file, onde dare l’esempio. Sfidò impavido le freccie incendiarie e le pesanti spade di bronzo degli asiatici e sfondò le linee avversarie.

 «La battaglia nondimeno non era ancora vinta. Dall’alba al tramonto la strage continuò con perdite enormi d’ambo le parti. Il Nilo diventò rosso pel gran sangue che vi scorse dentro; tutta la terra fu inzuppata di sangue e monti e monti di cadaveri s’alzarono dovunque.

 «Fu solo allo sparir del sole che i Caldei, sgominati, decimati, scoraggiati, si diedero alla fuga ritornando al di là dell’istmo.

 «L’Egitto era salvo pel valore di tuo padre; Menfi non correva ormai più alcun pericolo, eppure quella vittoria doveva rendere infelice e per sempre il vincitore».

 «Cadde combattendo?»

 «Ferito da una freccia caldea, che lo aveva colpito in mezzo al petto, quando già sfondava le linee avversarie, era rimasto sul campo, in mezzo ad un cumulo di cadaveri. Nella mischia orrenda, nessuno si era accorto che il re era scomparso, o meglio uno lo aveva veduto; ma aveva quel miserabile troppo interesse per avvertire i generali ed i soldati della disgrazia toccata a tuo padre.»

 «Chi?» chiese Mirinri, scattando in piedi, cogli occhi fiammeggianti.

 «Suo fratello: l’ambizioso Mirinri Pepi, che ora regna sull’Egitto in vece tua e…»

 «Il fratello di mio padre mi ha usurpato il trono?»

 «Sì, Mirinri, ma lasciami continuare. L’istoria non è ancora finita. Tuo padre non era stato ferito mortalmente. L’atroce dolore prodottogli dalla punta della freccia uncinata e che egli si era strappata, allargando così la piaga, lo aveva fatto cadere svenuto ed era rimasto come sepolto sotto altri corpi umani, caduti dopo di lui. Che cosa accadde poi? Non me lo seppe mai dire.

 «Quando tornò in sé si trovò sotto una tenda di pastori negri, assai lontano dal campo di battaglia.

 «Probabilmente quegli uomini erano accorsi durante la notte per depredare i cadaveri, ed essendosi accorti dalle ricche vesti che indossava tuo padre e dal simbolo di vita e di morte che portava fra i capelli, che doveva essere un grande personaggio, fors’anche un Faraone, l’avevano portato con loro coll’idea di chiedere più tardi un grosso riscatto.

 «Tu sai che i pastori nostri, che vivono sui margini del deserto, sono tutti predoni, quando si presenta loro l’occasione.

 «Tuo padre non ebbe però a lagnarsi di loro. Fu trattato con molti riguardi, curato affettuosamente. La ferita, dopo venti giorni, si chiuse e la convalescenza cominciò.

 «Fu indescrivibile lo stupore dei pastori, quando appresero dalla sua bocca essere egli Teti.

 «Per ordine di tuo padre, un pastore partì subito per Menfi, onde avvertire il popolo ed i ministri che il re dell’Egitto era ancora vivo e che si recassero a prenderlo colla pompa dovuta ad un Faraone. L’uomo partì, e non ritornò più. Tuo padre, temendo che fosse stato assalito lungo la via da qualche banda di predoni, ne mandò un secondo, poi un terzo e anche quelli non si fecero più vedere. Inquieto, molto preoccupato, decise di recarsi lui a Menfi. Formò una piccola scorta di pastori e un mattino si mise in viaggio.

 «Quando entrò in Menfi, apprese con angoscia che suo fratello aveva assunto il potere e che il popolo ed i ministri, credendo che Teti realmente fosse morto, lo avevano acclamato re, senza preoccuparsi di te che avevi allora appena due anni.

 «Quasi tutti gli amici di tuo padre ed i parenti più prossimi erano stati fatti segretamente uccidere dall’usurpatore e forse tu avresti subito l’egual sorte se la tema di scatenare fra il popolo una improvvisa ribellione non lo avesse trattenuto».

 «E mio padre che cosa fece allora?» chiese Mirinri, con impeto selvaggio.

 «Che cosa volevi che facesse quasi solo, senza alcuna forza tra le mani? Tentò di persuadere i ministri, ma quei vili ebbero l’audacia di dirgli che era un pazzo, un furfante e che dello spento re non aveva che qualche vaga rassomiglianza. Per persuaderlo meglio o piuttosto per rassicurare vieppiù il popolo che egli realmente era un mentecatto fu condotto nella piramide da lui stesso fatta innalzare e gli mostrarono la bara dove riposava il corpo di Teti I.»

 «Chi vi avevano messo dentro?»

 «Qualcuno che forse gli rassomigliava o che avevan reso irriconoscibile dopo d’averlo vestito da sovrano e di avergli puntato fra i capelli il simbolo di vita e di morte.»

 «E come mi trovo qui, mentre dovrei essere nella reggia di Menfi?» chiese Mirinri.

 «Tuo padre, temendo che Mirinri Pepi ti facesse un dì o l’altro assassinare, ti fece rapire da alcuni devoti amici, che l’usurpatore aveva risparmiati, e ti affidò a me onde m’incaricassi di allevarti. Fuggii da Menfi, durante una notte oscura, risalendo il Nilo ed in questi luoghi presi dimora, attendendo pazientemente che tu avessi compiuto l’età che permette, secondo le nostre leggi, di regnare.»

 Successe un lungo silenzio. Mirinri era tornato a sedersi e pareva si fosse immerso in profondi pensieri. Il sacerdote, sempre in piedi, lo guardava fisso, come se cercasse d’indovinare ciò che passava attraverso il cervello del giovane.

 Ad un tratto, questi si alzò bruscamente, col viso trasfigurato, gli occhi animati da una collera terribile.

 «Mio padre è morto, è vero, Ounis?»

 «Sì, in esilio, sui margini del deserto libico, ove si era rifugiato per non cadere sotto i colpi dei sicari di Pepi. La sua condanna di morte era stata ormai pronunciata dall’usurpatore.»

 «Che cosa devo fare io, ora?»

 «Vendicarlo e riconquistare il trono che per diritto ti spetta.»

 «Solo, senza mezzi, senza un esercito?»

 «Non solo,» rispose il sacerdote. «Amici di tuo padre ve ne sono ancora a Menfi e aspettano per salutarti re. I mezzi, mi hai detto? Ebbene, vieni.»

 «Dove?»

 «Nelle tombe di Qobhou, l’ultimo Faraone della prima dinastia, che tuo padre aveva scoperto nei primi anni del suo regno, senza confidare ad alcuno il segreto. Là troverai ricchezze bastanti per conquistare l’intero Egitto ed altre terre ancora, se tu lo vorrai.»

 «Dove sono queste tombe?»

 «Più vicine di quello che tu creda. Seguimi, Mirinri.»

 Il vecchio prese una piccola lampada di terracotta, in forma d’anfora, riattizzò il lucignolo onde la fiamma si ravvivasse e s’avviò verso il fondo della caverna, dove scorgevasi una sfinge di marmo roseo di dimensioni gigantesche.

 «Sta qui il segreto dell’entrata,» disse.

 Fece scorrere una mano sul dorso della statua e subito la testa cadde, lasciando vedere un foro abbastanza lungo perché un uomo, anche corpulento, vi potesse entrare senza troppa fatica. Da quell’apertura sfuggì una corrente d’aria quasi calda impregnata d’un tanfo poco piacevole.

 «Dobbiamo entrare lì?» chiese Mirinri.

 «Sì.»

 «Perché non mi hai mai detto che esisteva un passaggio in questa caverna.?»

 «Io avevo giurato solennemente a tuo padre di non rivelartelo, se non quando tu avessi compiti i diciott’anni. Vieni: nessun pericolo ci minaccia e vedrai delle cose che ti faranno stupire.»

 S’introdusse nel foro, avanzandosi carponi e tenendo la lampada dinanzi a sé, e dopo poco si trovò in un ampio corridoio, che era fiancheggiato ai due lati da un numero immenso di statuette di bronzo e di pietra, rappresentanti dei gatti in varie pose.

 Ve n’erano però moltissimi anche imbalsamati, allineati su un cornicione che sporgeva presso la vôlta del passaggio.

 Come si sa, gli antichi egizi tenevano in grande considerazione quei parenti prossimi delle tigri, anzi adoravano, fra le molte divinità, Pakhit la dea dei gatti, che aveva il corpo di una donna e la testa dei felini, anzi ne ponevano nei loro sepolcreti e perfino entro le piramidi ove riposavano le salme dei re.

 Che più? Avevano perfino dei cimiteri, esclusivamente destinati ad accogliere i mici e che erano sotto la protezione della dea sopraccennata o del dio Nofirtonmon.

 Ultimamente anzi ne venne scoperto uno, al sud degli ipogei di Beni-Hassan, che conteneva la bagatella di 180.000 mummie di gatti colà deposte dai re della XVIII dinastia.

 Ounis continuò ad avanzarsi, proteggendo la lampada con una mano, essendovi ancora una forte corrente d’aria satura di quell’odore sgradevole che regna nelle cantine abbandonate, e sbucò finalmente in una sala così immensa da non potersene scorgere l’estremità, la cui vôlta era sorretta da un gran numero di colonne massiccie, abbellite di sculture rappresentanti divinità e ibis, l’uccello venerato dagli antichi egizi e che si vede su tutti i monumenti eretti in quelle lontane epoche.

 Lungo le pareti che erano lievemente inclinate, si scorgevano delle statue colossali, simili a quelle che si vedono ancora oggidì sulla facciata del tempio di Abu Simbel, pesanti e tozze, con quella grandiosità di forme colle quali sembrano concepiti tutti i monumenti dell’antico Egitto.

 Erano statue di uomini e di donne, i primi con berretti monumentali, sormontati da una specie di cocuzzolo, con delle strane barbe quadrate, più larghe verso il fondo che presso le labbra e degli stracci pendenti lungo gli orecchi e ricadenti sulle spalle, e le altre coperte dalla futta, quella specie di sottana che annodavano alle reni e che avvolgeva, come una specie di imbuto, le loro gambe.

 Veduti alla vacillante luce della piccola lampada, quei colossi, che stavano seduti gli uni presso gli altri colle braccia abbandonate sul ventre, producevano un effetto strano che impressionava profondamente Mirinri, non abituato altro che a vedere le acque verdeggianti o fangose del Nilo, le sabbie del deserto e le altissime palme ravvivate dall’umidità del fiume gigante.

 Ounis, che sembrava non s’interessasse né delle statue, né dei colonnati, né delle sculture, continuò ad avanzarsi verso il fondo di quell’immensa, interminabile sala, scavata nel vivo masso da chissà quante migliaia di operai, e si arrestò dinanzi a due statue di grandezza quasi naturale, che alla luce della lampada mandavano dei bagliori acciecanti. Una rappresentava un uomo, con indosso il ricco costume dei Faraoni ed il simbolo di vita e di morte collocato sulla fronte; l’altra una donna bellissima, con grandi occhi neri ed il viso dipinto in giallo; ma con un po’ di rossetto sulle gote, che le dava un aspetto singolarissimo ed insieme una speciale attrattiva.

 Entrambi portavano delle pitture di soggetto religioso, ripetizione ortodossa del gran rito etiopico, dove si vede l’anima del defunto fare la sua visita e le sue offerte a tutte le divinità, di cui essa deve implorare la protezione.

 Invece di chiuderli entro la bara, quell’antichissimo monarca e sua moglie, dopo essere stati imbalsamati, li avevano messi in piedi, sorreggendoli con un’asta di bronzo passata attraverso le strette fascie che li coprivano dalle anche ai piedi.

 Sia l’uno che l’altra, onde si conservassero meglio, erano stati coperti da un leggero strato di vetro, colato probabilmente sul luogo, un vetro traslucido, d’una purezza straordinaria, che scintillava vivamente sotto la luce proiettata dalla piccola lampada.

 «Chi sono costoro?» chiese Mirinri, che li guardava con vivo interesse.

 «Qobhou, l’ultimo re della prima dinastia e sua moglie,» rispose Ounis. «Guarda: su queste due tavolette di pietra nera sta scritto il loro nome.»

 «Ed è per farmi vedere queste due mummie che mi hai condotto qui?»

 «Aspetta, giovane impaziente. La nostra esplorazione non è ancora finita. A che cosa potrebbero servire questi morti? Non certo a darti mezzi per conquistare il trono. Seguimi ancora.»

 S’inoltrò in quell’immensa sala, che pareva non avesse più fine, passando fra due file di sarcofaghi di pietra, i cui rilievi esterni riproducevano esattamente le forme delle persone che vi stavano dentro. Alcuni erano dorati, altri invece argentati e raffiguravano re e regine.

 I primi avevano intorno al capo un disco rosso e portavano sotto il mento una barba intrecciata; le altre avevano un’acconciatura a bendoni, con dipinte sopra delle penne d’avvoltoio e la testa coronata da grosse treccie di capelli adorni con ametiste, crisoliti e smeraldi.

 Dopo alcuni minuti, Ounis s’arrestò dinanzi ad una sfinge mostruosa, lunga una ventina di metri e alta per lo meno quattro, che aveva sui fianchi delle iscrizioni rassomiglianti a segni geometrici.

 «Qui dentro è racchiuso il tesoro di Qobhou,» disse il sacerdote. «Vuoi vederlo?»

 «Mostramelo,» rispose Mirinri.

 Ounis si guardò intorno e vista una pesante mazza di bronzo appoggiata ad una colonna, l’alzò e percosse la sfinge sul muso.

 La testa girò subito su se stessa, poi cadde innanzi rimanendo sospesa mediante due grosse cerniere.

 Un’apertura circolare, formata dal collo dell’enorme statua stava dinanzi ai due egiziani.

 «Guarda lì dentro,» disse Ounis, avanzando la lampada.

 Il giovane s’avvicinò, poi arretrò, mandando un grido di meraviglia.

 «Quanto oro!» esclamò.

 «Si dice che vi siano lì dentro dodici milioni di talenti ([1])» disse Ounis, «ma non è tutto. Le zampe sono piene di smeraldi e di altre pietre preziose, dalle quali, se tu ne avrai bisogno, potrai ricavare molti altri milioni! Credi tu con queste ricchezze di poter armare un poderoso esercito?»

 «Sì,» disse Mirinri. «Ma, come mio padre ha potuto sapere che in questo sepolcreto si trovava nascosto un tesoro così favoloso?»

 «Da un antichissimo papiro, da lui scoperto nella biblioteca dei primi Faraoni.»

 «E non confidò a nessuno il segreto?»

 «A me solo.»

 «E le hai serbate per me queste ricchezze?»

 «Sì, perché a te solo appartenevano. Appena noi saremo partiti vi sarà chi s’incaricherà di trasportare una parte di questo tesoro a Menfi.»

 «E chi, se nessuno ne conosce l’esistenza?»

 «Degli amici devoti, rimasti fedeli a tuo padre ed al suo successore. Domani saranno informati che la profezia si è avverata e che tu sei pronto a conquistare il trono e punire l’infame usurpatore.»

 «Dunque qualcuno viene allora qui.»

 «Sì, e mi sono ben guardato di fartelo vedere. D’altronde non veniva che di notte, quando tu dormivi e ripartiva allo spuntare del giorno. Ora giura su Toth, il dio ibis, che tu t’impegni di liberare la patria dall’usurpatore.»

 «Le prove che io sia realmente un Faraone tu non me le hai ancora date,» disse Mirinri.

 «È vero: torniamo nella caverna e partiamo subito. È molto tardi e la statua di Memnone non suona che allo spuntare del sole.»

 Rifecero in silenzio il cammino percorso, ripassarono per la galleria dei gatti e uscirono, strisciando attraverso la sfinge che occupava l’estremità della caverna.

 Ounis prese un’anfora di terracotta ed empì due vasi di vetro grossolano d’una specie di birra molto dolce, che secondo la tradizione, Osiride l’aveva donata ai mortali nel medesimo tempo del vino di palma ed invitò il giovane a bere, dicendo:

 «Che l’impuro demonio della morte tocchi chi mancherà al giuramento.»

 Poi prese in un canto due corte spade di bronzo, molto larghe e molto pesanti e ne diede una a Mirinri.

 «Partiamo,» disse. «La notte è a metà cammino.»

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