Menfi l’orgogliosa

CAPITOLO DICIANNOVESIMO

 

 Menfi l’orgogliosa

 

 Il vecchio, che comandava la barca, non aveva indugiato a far issare la vela ed a ritirare la fune, che FU legata intorno all’enorme tronco d’una palma dum e prendere poi il largo.

 La corrente era diventata rapidissima, giacché in ventiquattro ore il Nilo aveva aumentato immensamente il volume già imponente delle sue acque, quindi la barca, anche senza l’aiuto dei remi e del vento, poteva percorrere velocissimo cammino e giungere molto presto a Menfi.

 Nefer, appena imbarcati i suoi amici, conoscendo che non erano ancora in grado di comprendere il motivo di quella fuga improvvisa, aveva fatto condurre Mirinri, Ata e Ounis nelle piccole celle del casotto di poppa e gli etiopi nella stiva dove, appena giunti, si erano nuovamente addormentati sul nudo tavolato, dimenticando completamente il Figlio del Sole ed il pericolo, che d’altronde non avevano nemmeno lontanamente compreso, che li aveva minacciati.

 Il vecchio, che comandava ad un equipaggio composto di soli sei uomini, terminate le manovre si era accostato a Nefer che si era portata a prora, guardando le onde che si succedevano alle onde, come se i grandi laghi equatoriali scaricassero incessantemente, nel fiume gigante, le loro immense, inesauribili riserve.

 «Chi sono quelli che hai condotto sulla mia barca?» le chiese.

 «Amici di Her-Hor,» rispose Nefer, senza nemmeno volgersi.»

 «Perché appena giunti si sono addormentati?»

 «Erano immensamente stanchi.»

 «Da dove venivano dunque?»

 Nefer fece brillare dinanzi ai suoi occhi il braccialetto su cui si scorgeva il simbolo dei Faraoni.

 «Lo vedi, schiavo?» disse.

 «Sì, io devo ubbidire.»

 «Basta così: quella che ti parla è una Faraona, mi comprendi? Her-Hor non era che un sacerdote, mentre io sono di stirpe divina.»

 Il vecchio s’inchinò profondamente come dinanzi ad una divinità, tale era la potenza di tutti coloro che appartenevano alla stirpe regnante.

 «Quando giungeremo a Menfi?» chiese Nefer.

 «Domani a sera. La corrente del Nilo è forte e ci trasporta velocemente.»

 «Al tramontare del sole desidero vedere gli obelischi di Menfi.»

 «Ci sarai.»

 «Vattene! Io ora non sono la figlia adottiva di Her-Hor il sacerdote, come tu forse hai creduto; io sono una Faraona. Obbedisci!»

 Il vecchio fece un nuovo e più profondo inchino e si diresse verso poppa, dove due dei suoi uomini maneggiavano dei lunghissimi remi, non conoscendo ancora, gli egizi, in quelle lontane epoche, l’uso prezioso del timone.

 La notte calava rapidissima e le stelle cominciavano a fiorire in cielo. Al di sopra dei grandi boschi che coprivano la riva vicina un vago chiarore annunciava l’imminente spuntare dell’astro notturno. Le acque del fiume muggivano fra i papiri che a poco a poco copriva, mentre i fiori del loto, vivamente agitati dal frangersi delle ondate, esalavano acuti profumi, che una fresca brezza portava fino sul ponte della barca.

 Nefer si era lasciata cadere su un mucchio di corde, prendendosi il capo fra le mani ed immergendosi in profondi pensieri.

 Nessun rumore, all’infuori del muggito delle acque, rompeva la calma che regnava sulla barca. I sei uomini dell’equipaggio, appoggiati alle murate, non fiatavano, occupati a mantenere il galleggiante in mezzo al Nilo. Il vecchio, addossato ad un lungo remo che serviva da timone, guardava le stelle. Ounis, Mirinri, Ata e gli etiopi dormivano, mentre la luna saliva lentamente in cielo, facendo scintillare le acque gorgoglianti del maestoso fiume.

 La barca correva rapida, sollevandosi pesantemente sull’onda incalzante, con degli scricchiolii ritmici. La piena la portava con crescente furia verso Menfi. La notte passò. La luna scomparve, le stelle si spensero, e l’aurora rosea sorse fugando le tenebre e tingendo le acque di riflessi d’oro.

 Nefer pareva che si fosse addormentata, stringendo fra le mani il braccialetto del simbolo di diritto di vita e di morte, che le aveva dato la potenza ed il comando supremo. Una voce la fece sussultare:

 «Nefer, dove siamo noi?»

 Mirinri le stava presso, con Ounis e Ata, i quali sembravano molto confusi ed un po’ vergognosi di essersi lasciati così prendere dal vino traditore maturato dal sole dell’Arabia.

 «Ti aspettavo, mio signore,» rispose la fanciulla, alzandosi e sorridendogli dolcemente. «Mi chiedi dove siamo noi? Lo vedi, scendiamo il Nilo su una barca per raggiungere Menfi.»

 «Noi andiamo a Menfi!» esclamò Mirinri, mentre un lampo di gioia gli balenava negli occhi. «Che cosa è successo dunque? Chi ti ha procurata questa barca? Ed i nemici che ci aspettavano?»

 «Sì, spiegati, Nefer, fanciulla meravigliosa,» disse Ounis. «Perché non siamo più nel tempio degli antichi re nubiani? Il tuo vino era squisito, ma troppo traditore ed ha lasciato nel mio cervello una fitta nebbia che invano tento di disperdere. Mi ricordo vagamente d’un vecchio steso sulle pietre della immensa sala, colle vesti macchiate di sangue…»

 «Ed a cui tu hai estratto dal petto una daga,» aggiunse Mirinri, «se non ho sognato.»

 «E poi d’una corsa furiosa attraverso la foresta,» disse Ata.

 «Abbiamo sognato noi?» chiese Ounis. «Parla, Nefer.»

 «No: io ho ucciso quell’uomo, poi vi ho fatti fuggire e vi ho fatti imbarcare,» rispose Nefer. «Quel miserabile voleva la morte del Figlio del Sole e per mia mano.»

 «Tu, uccidermi, Nefer!» esclamò Mirinri.

 «Vedi ch’io t’ho invece salvato, mio signore. La tua anima sta ancora dentro il tuo corpo, mentre quella di Her-Hor naviga a quest’ora sulla barca luminosa che Râ guida attraverso lo sconfinato mare del cielo di Nun.»

 «Chi era quel vecchio?» chiese Ounis.

 «Un sacerdote che Pepi mise al mio fianco, onde v’impedissi di calare su Menfi.»

 «Dunque tu…» chiese Ounis, con stupore.

 «Io doveva fermarvi all’isola delle ombre e tenervi come prigionieri per sempre,» disse la Faraona.

 Ounis afferrò fortemente Nefer per una mano e scuotendola ruvidamente: «Quel vecchio sacerdote sapeva che noi avevamo abbandonato il deserto?»

 «Sì,» rispose la fanciulla. «È stato lui a preparare l’agguato dei bevitori; è stato lui a lanciarvi contro i piccioni fiammeggianti; lui ad inventare l’istoria del tesoro dei re nubiani, che non è mai esistito ed a spingermi a condurvi nell’isola delle ombre da cui non avreste dovuto mai uscire vivi. Io ho obbedito per paura di lui e di Pepi; ma quando volle costringermi ad immergere nei vostri petti il ferro, mi sono ribellata e l’ho ucciso.»

 «Ed a chi appartiene questa barca?» chiese Mirinri.

 «A lui o meglio a Pepi.»

 «E questi uomini ti obbediscono?»

 «Prima di fuggire ho preso al vecchio sacerdote il braccialetto formato ad ureo : l’insegna del comando e del potere.»

 «E andiamo a Menfi?» esclamò Mirinri, mentre il suo viso s’imporporava.

 «Sì, mio signore: quella è la tua mèta ed io ti conduco laggiù. Mi perdonerai ora, mio signore?»

 «A te debbo la libertà e la vita, Nefer» rispose il Figlio del Sole. «Tu seguirai il nostro destino ed un giorno avrai a corte, se la sorte non mi sarà avversa, un posto degno di te. Tu sarai mia sorella, perché anche tu sei una Faraona al pari di me e di stirpe divina.»

 «Sorella…» mormorò Nefer con voce triste. «Ah! La terribile visione!»

 Si nascose gli occhi colle mani, come se cercasse di sfuggire qualche cosa che gli era apparsa improvvisamente dinanzi, poi, rigettando indietro i capelli e forzandosi di mostrarsi lieta, aggiunse:

 «Grazie, mio signore: Nefer, quando tu ne avrai bisogno, darà per te la sua vita, purché tu possa realizzare il tuo grande sogno.»

 «Ne dubiteresti ora? La mia stella brilla ancora in cielo tutte le sere: la statua di Memnone ha fatto udire la sua voce ed il fiore della risurrezione ha schiuso le sue corolle fra le mie mani, che cosa potevo pretendere di più? Sono tutti segni di buon augurio, è vero, Ounis?

 Il vecchio non rispose. Pareva che fosse assorto in un profondo pensiero.

 «Mi hai udito Ounis?» chiese Mirinri.

 «Her-Hor,» disse invece il vecchio, come parlando fra sé e passandosi e ripassandosi una mano sulla fronte, come per risvegliare dei lontani ricordi. «Her-Hor.»

 «Hai conosciuto quel sacerdote?» chiesero ad una voce Nefer e Mirinri.

 «Questo nome non mi sembra di averlo udito solo oggi,» rispose Ounis. «Sono però trascorsi così molti anni che è possibile che io m’inganni.» Poi, scrollando le spalle, aggiunse: «È morto, quindi non vale più la pena d’occuparsi di lui. Quando giungeremo, Nefer?»

 «Questa sera saremo in vista di Menfi,» disse Ata, che da qualche istante osservava attentamente le due rive. «Ecco laggiù delinearsi il tempio di Saqqarah colla sua piramide a scaglioni. Scendiamo rapidissimamente. Bada ora, Figlio del Sole, di non commettere imprudenze, perché Pepi ha una polizia splendidamente organizzata e Menfi pullula di spie. Una sola parola che ti sfugga e noi saremo tutti perduti.»

 «E come giungeremo noi per non suscitare sospetti?» chiese Mirinri.

 «Lascia pensare a me, Figlio del Sole,» disse Nefer. «Forse che io non sono una maliarda? Predirò alle genti di Menfi la buona ventura e tu, mio signore, sarai il mio protettore. Chi sospetterà che un Faraone percorra le vie della grande città come un volgare istrione?»

 «E questi uomini?» chiese Ounis. «Non ci tradiranno?»

 «Quando saremo in vista di Menfi noi li faremo gettare nel Nilo.» disse Ata. «Non sono che dei miserabili schiavi ai quali la morte non sarà altro che una liberazione.»

 «E noi ci saremo serviti di costoro per poi affogarli?» disse Mirinri, con accento di rimprovero. «Un giorno anche questi uomini saranno miei sudditi, se la sorte mi sarà propizia; e non voglio inaugurare il mio trono con degli assassinii. Sono io che comincio a comandare, ora che l’aria di Menfi, l’aria della potenza e della grandezza sconfinata, arriva alle mie labbra.»

 «Ecco il buon sangue,» disse Ounis, guardando con orgoglio il giovane Faraone. «Giammai l’Egitto avrà avuto un così grande re.»

 Poi mormorò fra sé, mentre un lampo terribile sfolgorava nei suoi occhi:

 «Lo uccideremo! Ed i miei diciotto anni d’esilio saranno vendicati!»

 Tutti erano rimasti silenziosi, mentre la barca scivolava, ondeggiando fortemente sulle gonfie acque del fiume immenso. I loro occhi erano fissi verso il nord, come se da un istante all’altro s’aspettassero di veder sorgere sul luminoso orizzonte, le grandiose piramidi che circondavano l’orgogliosa Menfi, i templi immensi, gli obelischi giganteschi, le dighe immense, che formavano in quelle lontane epoche e che pur formano anche oggidì, dopo cinquemila e più anni, la meraviglia del mondo.

 Le due rive cominciavano ad apparire abitate. Qua e là, sulle piccole alture, che la piena del Nilo non poteva raggiungere, si scorgevano dei templi, delle fortezze merlate colle pareti oblique, dei muraglioni enormi, entro i quali, come inquadrettati fra cornici meravigliosamente scolpite, si scorgevano delle statue gigantesche, coperte solo da un perizoma rigato in tre, colla punta centrale cadente innanzi, la barba rettangolare appesa al mento e delle statuette di divinità ai due lati.

 Le divinità dell’antico Egitto sormontavano quelle dighe colossali, costruite per impedire alle acque del Nilo di espandersi nelle fertili campagne, troppo basse e di rovinare i raccolti. Ora era una mucca Hathor che giganteggiava, colle immense corna reggenti degli strani emblemi fra i quali non mancava mai di figurare l’astro solare; ora era Osiride, olimpicamente seduto sul suo trono, colle braccia incrociate sul ventre; o una riproduzione delle colossali statue di Memnone o di Ramsete, o di Menes il fondatore della grande Menfi, il primo re della prima dinastia egiziana che regnò settemila anni or sono, quando né Atene, né Roma e nessun essere umano ancora le sognavano.

 Numerose barche salivano o scendevano la fiumana gigante, alcune leggerissime, formate da semplici papiri legati a fasci, con una prora molto arcuata, come usano ancora oggidì gli abitanti dell’alta Nubia, dove quella preziosa pianta non è ancora scomparsa del tutto; altre invece assai più grandi, costruite con tavole massiccie e armate di larghe vele quadrate e cariche per lo più di enormi massi di pietra, destinati certo ad altre colossali costruzioni, poiché tutti i re dell’Egitto avevano una vera smania di lasciare qua o là un’orma incancellabile della loro dominazione, gareggiando nella grandiosità di monumenti di templi o di obelischi o di piramidi, che li ricordassero ai posteri.

 La barca montata da Mirinri e dai suoi amici scendeva indisturbata il fiume, poiché, credendola un’onesta veliera proveniente dalle alte regioni dell’Egitto, nessuno si preoccupava di essa, supponendola carica di derrate destinate a Menfi. Onde però non destare l’attenzione o la curiosità dei battellieri e dei rivieraschi, il Figlio del Sole aveva indossato un semplice grembiule di pelle e messo sul capo un berretto di pelle conciata, in forma di un mezzo elmetto e Ounis si era sbarazzato della sua lunga veste di sacerdote, per cingere una specie di kalasiris doppio, terminante in punta sul dinanzi e si era coperta la testa con una enorme parrucca che lo rendeva assolutamente irriconoscibile, specialmente colla barba posticcia, di forma rettangolare, appiccicata sotto il mento. Solo Nefer aveva conservate le sue vesti, ma nella sua qualità di fattucchiera e di maliarda, era necessario che si mostrasse in pubblico con un certo lusso.

 Le ore passavano lente e la barca avanzava sempre.

 Una viva agitazione si era improvvisamente impadronita di Mirinri, come se la vicinanza di Menfi producesse su di lui una profonda e strana impressione. Era la speranza di poter rivedere la giovane Faraona che aveva strappato alle terribili fauci del coccodrillo e che lo aveva stregato, o l’impazienza di strappare il potere a Pepi e di gridare in faccia all’immenso popolo: «Io sono il figlio del grande Teti! Rendete il trono al Figlio del Sole!» Era il sangue del giovane innamorato che si ridestava o quello del guerriero, assetato di gloria, di potere, e di grandezza? Forse l’uno e l’altro.

 Nefer, che non lo perdeva di vista un solo istante, approfittando del momento in cui Ata ed Ounis si erano recati a poppa ad interrogare il capitano della barca, si era avvicinata al giovane, che dall’alto della prora pareva interrogasse ansiosamente l’orizzonte.

 «Che cosa cerchi, mio signore?» gli chiese con voce dolce.

 «Menfi,» rispose rudemente il giovane Figlio del Sole. «Che non debba mai comparire ai miei occhi? Si direbbe che mi fugge dinanzi.»

 «Sei impaziente di vederla?»

 «Se tu amassi intensamente un uomo e questo non si lasciasse mai raggiungere da te, non lo cercheresti avidamente, intensamente coi tuoi occhi?»

 «Tu cerchi Menfi o la fanciulla che ami?»

 «Ora cerco la superba capitale del Basso Egitto che mio padre salvò dai barbari asiatici, «rispose il giovane.»

 «E poi?»

 «Che cosa vuoi dire, Nefer?»

 «La Faraona, è vero?»

 «A quella penserò poi, se ne avrò il tempo.»

 «Che la sete del potere spenga l’amore?»

 «Chi lo sa?»

 «No, Mirinri; no, Figlio del Sole.»

 Il giovane abbassò il capo senza rispondere, mentre sulla sua fronte passava come una nube.

 «Sei inquieto?» riprese Nefer dopo un breve silenzio.

 «È forse l’aria di Menfi, che io comincio ad aspirare,» rispose il giovane Faraone. «Un’aria satura di potenza e di grandezza che un giorno, quando era ancora bambino, gonfiò i miei polmoni. Io non so, ma sento entro di me qualche cosa di strano che nel deserto non aveva mai provato. Laggiù, fra le sabbie che l’onda sacra del Nilo bagnava mormorando, sotto le grandi palme che sussurravano quando il vento caldo scuoteva le loro piumate foglie e la fresca brezza della notte tormentava, il mio cuore non aveva sussulti, la mia fantasia non sognava né glorie, né onori, né grandezza. L’alba od il tramonto per me erano eguali, ma ora vi è un risveglio incomprensibile in me. Vorrei ruggire come un giovane leone che ha messo ormai gli artigli e che si sente sicuro delle sue forze e divorare…»

 «Che cosa?» chiese Nefer, un po’ sardonicamente.

 «Non so se l’Egitto intero o la corte reale, dove sono nato e da dove mi hanno tolto per lasciarmi il tempo di mettere i denti.»

 «In quella corte, che tu vorresti d’un colpo distruggere, vive la fanciulla che tu strappasti alle fauci del coccodrillo.»

 «Taci, Nefer!» gridò Mirinri, con collera.

 «Mentre quella che hai salvato più tardi, pure dalle fauci d’un sauriano, sta al tuo fianco e non già sui gradini di quel trono» proseguì Nefer, imperturbabilmente.

 Anche questa volta Mirinri non rispose. I suoi sguardi si erano fissati su alcuni punti scintillanti, che vagavano sul maestoso fiume, sormontati da alcune macchie rosse che spiccavano vivamente sulla biancastra acqua scorrente fra le due rive. «Che cosa brilla laggiù?» aveva esclamato, aggrottando la fronte.

 Ounis e Ata, avvertiti dagli etiopi, erano già accorsi a prora ed il viso del vecchio sacerdote era diventato improvvisamente pallidissimo mentre una fiamma terribile, feroce, accendeva i suoi occhi.

 «Lui!» aveva esclamato, con intraducibile accento d’odio. «Lui solo può avere barche dorate e vele fiammeggianti!»

 Mirinri, che lo aveva udito, si era voltato vivamente ed era rimasto colpito dall’espressione feroce, che mai prima d’allora aveva scorta, in tanti anni che aveva trascorsi nel deserto, a fianco di quell’uomo.

 «Chi, lui?» chiese.

 Ounis ebbe un momento di esitazione, poi disse:

 «L’uomo che un giorno tu, figlio del grande Teti, dovrai forse uccidere.»

 «Pepi?» gridò il giovane.

 «Sì, non può essere che lui, che sale il Nilo per assicurarsi se la piena sarà regolare. Solo un Faraone può sfoggiare tanto lusso. Sii prudente: guarda e taci! Un giorno tu avrai altrettanto se seguirai i miei consigli e se avrai la pazienza d’attendere.»

 «Ah!» rispose semplicemente Mirinri, mentre il suo viso assumeva una espressione non meno intensa d’odio del vecchio.

 Si guardò attorno, poi scorgendo appeso alla murata un arco con accanto una faretra piena di frecce, si avvicinò lentamente a quell’istrumento di morte e vi si appoggiò contro, mormorando fra i denti:

 «Il giovane leone non conosce la pazienza quando ha fame.»

 I punti scintillanti ingrandivano a vista d’occhio, essendo la barca trascinata in una corsa velocissima in causa della piena. La corrente diventava sempre più impetuosa di passo in passo che si avvicinava all’immenso delta dove trovava degli sbocchi infiniti nei numerosi canali e canaletti che conducevano le acque del sacro fiume al mare.

 Ben presto furono in vista della flottiglia. Era formata da sei grandi barche, tutte dorate, colle prore altissime che reggevano delle sfingi dipinte in verde, con delle lunghe barbe che si arricciavano leggermente verso la punta e che nel centro avevano dei tendalini di lino bianco variegato, sorretti da sottili colonne scanellate, laminate in argento. Grandi ventagli, alcuni semicircolari, formati di penne variopinte, trattenute da una grossa lamina d’oro, su cui si scorgeva l’ ureoinciso ed altri di forma rettangolare e certe specie di ombrelli di lino bianco, con frange larghe, multicolori, trapunte in oro, s’alzavano sulla prima barca, che quaranta schiavi, sfarzosamente vestiti, spingevano a grande velocità con dei lunghissimi remi scintillanti di pietre preziose.

 Nel centro, dove s’ergevano i ventagli dal manico lunghissimo e gli ombrelli, sdraiato su una specie di sofà tutto dorato, con ampi cuscini, stava un uomo d’età molto avanzata, che aveva sul capo un alto berretto conico, bianco e rosso, adorno dell’ ureo,con lunghi e larghi nastri cadenti sul petto, un piccolo mantello sulle spalle ed una specie di sottanino che terminava sul dinanzi in un ampio triangolo a striscie bianche, rosse, verdi ed azzurre.

 Mirinri aveva fissati gli sguardi su quell’uomo, che portava le insegne del supremo potere e sul capo il simbolo del diritto di vita e di morte.

 «Il re od un grande del regno?» aveva chiesto impetuosamente a Ounis, che pareva volesse divorarlo collo sguardo.

 «Pepi,» aveva risposto il vecchio, con voce strozzata.

 «L’usurpatore?»

 «Sì!»

 La barca reale passava in quel momento a soli cinquanta passi da quella montata da Ounis.

 Mirinri, con un gesto rapido aveva staccato l’arco sospeso dietro la murata ed aveva levata con altrettanta rapidità una freccia:

 «Il leone uccide la preda!» aveva esclamato, tendendo la corda ed incoccando il dardo.

 Ata, che gli stava presso, con una mossa fulminea avevagli strappato l’arco, gettandolo prontamente in acqua.

 «Che cosa fai, mio signore?» aveva esclamato. «Vuoi farci uccidere tutti e perdere il trono?»

 Ounis non aveva fatto alcuna mossa per arrestare il giovane Figlio del Sole. Due sole parole gli erano sfuggite dalle labbra: «Troppo presto!»

 Fortunatamente nessuno si era accorto della mossa del giovane, tanto era stato ratto Ata nello strappargli l’arco e la freccia. E poi il superbo Faraone non si era nemmeno degnato di dare uno sguardo a quella barca che faceva una così meschina figura di fronte alle sue dorate galere e nemmeno i grandi dignitari, generali, sacerdoti e governatori di provincie che lo seguivano.

 Mirinri era rimasto immobile, dardeggiando sul re, suo zio, uno sguardo fiammeggiante, col braccio destro teso come in atto di sfida, finché tutta quella superba flottiglia fu passata, scomparendo dietro un isolotto.

 «Ladro!» gridò finalmente, facendo un gesto di rabbia. «Ti ho veduto e non scorderò più mai il tuo viso, che rivedrò quando la mia daga ti attraverserà il cuore.»

 «Eppure quell’uomo ha nelle sue vene il tuo medesimo sangue,» disse Ounis, con voce lenta.

 «Io non ho che il sangue del grande Teti,» rispose Mirinri. «Quello che scorre nel corpo di quell’uomo è sangue di traditori e non di guerrieri.»

 Un grido di Nefer lo interruppe bruscamente.

 «Menfi!»

 Il giovane si era slanciato impetuosamente verso la prora.

 Sul purissimo orizzonte, che il sole, prossimo al tramonto, fingeva d’un rosso intenso, Menfi, l’orgogliosa si delineava coi suoi colossali monumenti, i suoi obelischi dorati, i suoi templi meravigliosi, i suoi palazzi immensi.

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