Misterioso convegno

CAPITOLO UNDICESIMO

 

 Misterioso convegno

 

 Come abbiamo già altrove accennato, al tempo dei Faraoni i gatti, ma più specialmente le gatte, erano tenute in conto di animali sacri, anzi i più sacri fra tutti, molto al di sopra perfino dell’ibis.

 Tutto il popolo egiziano, sia del basso che dell’alto Nilo, aveva una venerazione estrema per questi cacciatori di topi e vi erano perfino dei templi dedicati esclusivamente a quei graziosi felini, dove se ne mantenevano a migliaia e migliaia.

 Il fanatismo per loro era spinto a tale eccesso che, quando scoppiava qualche incendio, si lasciavano magari arrostire le persone, ma si salvava ad ogni costo il gatto della casa.

 D’altronde leggi severissime li proteggevano. Qualunque suddito che ne avesse ucciso qualcuno, sia pure anche per accidente, veniva irremissibilmente condannato a morte. Si narra anzi, che dopo la conquista dell’Egitto da parte dei romani, avendo un giorno, un cittadino dell’impero, in un momento di collera, ammazzato uno di quegli animali, scoppiò fra la popolazione una tale sommossa da mettere in serio pericolo le legioni latine e da costringere il governo di Roma ad inviare truppe per sedarla!

 Quando morivano – di morte naturale s’intende – gli Egiziani li imbalsamavano e li mandavano, come abbiamo già veduto, a tener compagnia ai Faraoni ed ai personaggi più cospicui sepolti nelle piramidi o negli immensi mausolei delle più distinte famiglie.

 La loro effige poi si trovava dovunque: sulle facciate dei templi, sui monumenti, sugli obelischi. Le donne poi ci tenevano ad averne dipinti perfino sui loro oggetti di toletta, sui vasi contenenti i profumi e sui loro gioielli.

 Ma ciò che più sorprende si è che, quantunque il gatto non sia più adorato oggidì in Egitto, né sia più considerato come un animale sacro, anche gli arabi o egizi moderni lo tengono ancora in grande considerazione.

 Eppure i mussulmani non hanno mai avuto un dio gatto od una dea gatta.

 Tuttavia anche oggidì al Cairo si destina ogni anno una certa somma per nutrire i gatti affamati e la grande carovana che si reca ogni anno alla Mecca, è accompagnata sempre da una vecchia che porta sul suo cammello un carico di quei felini e che viene perciò chiamata la mamma dei gatti.

 Vi sono perfino delle persone che lasciano delle rendite abbastanza vistose per i mici affamati.

 Le richieste di gatti erano sempre numerose a Menfi ed il commercio ne era sempre fiorentissimo e molte barche venivano mandate ogni anno nell’alto Egitto per fare incetta, presso i nubiani, onde i templi ne avessero un numero considerevole.

 Non c’era quindi nulla di straordinario nell’arrivo di quella barca piena di ceste, che dapprima aveva tanto allarmato il diffidente Ata.

 «Non devono essere spioni quelli,» disse Ata. «Sono certamente degli onesti commercianti che nulla hanno da fare con Pepi. Lasciamoli pure accostare.»

 La barca dei gatti, che si lasciava portare dalla corrente, essendo il vento caduto, andò ad affondare le sue àncore, o meglio i suoi massi di pietra, a una decina di metri dal veliero di Ata.

 Un vecchio, che portava una barba posticcia fatta con una coda di bue e che aveva la testa difesa da una parrucca, vedendo Ata ed i suoi compagni, li salutò colla mano, gridando:

 «Che il grande Osiride vi sia propizio, fratelli, e che Sebek – il dio coccodrillo – vi guardi dai souq([3]) edai kale([4]) .

 «Che Khnum – il dio fabbricatore degli essere umani – ti conservi lunga vita,» rispose Ata. «Dove vai?»

 «A Menfi.»

 «Che cosa porti?»

 «Dei gatti pel tempio di Hathor,» rispose il barcaiolo. «Una malattia è scoppiata fra quelle bestie sacre e sono incaricato di farle surrogare con altre più sane e più robuste.»

 «Vieni dalla Nubia?»

 «Sì, mio signore. E tu dove vai?»

 «Devo fermarmi in parecchi luoghi.»

 «Buona notte, mio signore. Siamo molto stanchi e abbiamo bisogno di riposo.»

 Si ritrasse dalla prora, ma prima fissò intensamente Nefer che stava dietro ad Ata, ritta su una cassa, in modo da poter essere ben vista da tutto l’equipaggio di quella barca.

 Lo sguardo del vecchio e quello della maliarda s’incrociarono e sulle labbra dell’uno e su quelle porpuree dell’altra apparve un leggero sorriso.

 «Andiamo anche noi a riposarci,» disse Ata. «Non abbiamo nulla da temere da quegli uomini e la notte scorsa non abbiamo chiuso gli occhi.»

 Gli uomini della barca dei gatti si erano ritirati e sotto i casotti di prora e di poppa e sulla loro tolda non si udiva che qualche miagolìo soffocato.

 «Va’ a dormire anche tu, fanciulla,» disse Mirinri a Nefer. La maliarda scosse il capo.

 «Lasciami qui a studiare gli astri, mio signore,» rispose dopo una breve esitazione.

 Vi era nella voce armoniosa della bella etiope una certa vibrazione che colpì il giovane.

 «Perché la tua voce trema?» egli chiese.

 «Mi accade sempre così, dopo d’aver predetto il futuro a qualche illustre personaggio. Non farci caso, mio signore.»

 «Le notti sono umide sul Nilo.»

 «Nefer abita da molti anni le rive del sacro fiume ed è abituata al suo clima.»

 «Che cosa vuoi strappare agli astri? Non ti basta aver interrogata stamane la grande anima d’Osiride?»

 «Voglio conoscere anch’io il mio destino e questa notte è propizia. Il cielo è limpido e saprò scoprire la stella che mi riguarda. Buona notte, mio signore: va’ a riposarti.»

 «Strana fanciulla,» mormorò Mirinri, dirigendosi verso il casotto di poppa.

 Nefer era rimasta immobile, guardandolo allontanarsi. Ad un certo momento ebbe come un sussulto e aprì la bocca, quasicché volesse richiamarlo, però nessun suono le uscì.

 Quando il giovane scomparve, un lungo sospiro le sfuggì e abbandonò le braccia lungo il corpo con un moto di scoraggiamento, abbassando contemporaneamente il mento sul petto.

 «L’ha troppo profondamente colpito quella donna. Il sangue dei due Faraoni si è incontrato e forse entrambi i cuori battono ormai. Chi arresterà il loro palpito? Chi cancellerà dai loro sguardi la visione dell’uno e dell’altra? Ah! Grande sacerdote, io credo che tu ti sia ingannato sulla potenza dei miei occhi!

 Attraversò lentamente, sfiorando appena le tavole della tolda coi suoi piedini nudi, facendo lievemente tintinnare gli anelli d’oro che le ornavano le caviglie e andò ad appoggiarsi alla murata poppiera.

 Una grande calma regnava sull’immensa fiumana. Le acque si svolgevano lente e gorgogliavano dolcemente fra i papiri e le foglie di loto.

 Le stelle, scintillanti come poche volte Nefer le aveva vedute, salivano lentamente nel cielo trasparente e all’orizzonte scintillava ancora la cometa.

 Una fresca brezza, carica del dolcissimo profumo dei loti bianchi, azzurri e rossi, sibilava fra i cordami della nave, facendo fremere leggermente le vele semicalate sulla tolda.

 Nefer conservava una immobilità assoluta. I suoi sguardi stavano sempre fissi sulla barca dei gatti la quale, sia che i suoi battellieri avessero allentate un po’ le funi che la trattenevano ai due massi calati sul fondo del fiume o che la corrente l’avesse fatta deviare, erasi lentamente accostata al veliero d’Ata, in modo che quasi lo rasentava.

 Ad un tratto la fanciulla si scosse. Un’ombra era comparsa sulla tolda della barca e scivolava silenziosamente verso la prora che era a solo qualche metro dal veliero. Nello scorgerla la maliarda ebbe un sussulto.

 Gettò un rapido sguardo dietro di sé. Quattro etiopi, lasciati di guardia, stavano accoccolati presso l’albero di trinchetto e discorrevano a bassa voce, senza occuparsi della fanciulla.

 Quando questa tornò a curvarsi sulla murata di poppa, l’ombra aveva già raggiunta la prora della barca dei gatti.

 «M’intendi tu, Nefer?» chiese.

 «Sì,» rispose la maliarda.

 «È lui?»

 «Ormai non vi è più da dubitare.»

 «Proprio il figlio di Teti?»

 «Sì.»

 «Il grande sacerdote d’Iside non si era dunque ingannato.»

 Nefer non rispose.

 «Hanno creduto alla storia che tu hai loro narrato?»

 «L’hanno ritenuta vera,» disse Nefer abbassando la voce.

 «Sarai capace di condurli in quell’isola?»

 «M’hanno incaricata di guidarli.»

 L’uomo, che non era altro che il vecchio che aveva salutato per primo Ata, fece udire un risolino sardonico.

 «Sei una vera maliarda, Nefer,» disse. «Tu tornerai a godere gli splendori della corte.»

 La fanciulla sospirò a lungo.

 «Egli ti aspetta nel tempio,» riprese il vecchio. «Guai a te se non saprai indurlo a seguirti e poi hai giurato, dinanzi ad Hathor ed a Iside, di obbedirlo.»

 «Obbedirò.»

 «Sei riuscita ad ammaliarlo?»

 «Non so ancora nulla.»

 «Non resisterà a lungo dinanzi alla tua bellezza. Pepi stesso cadrebbe vinto dinanzi a te.»

 «Ma forse non il giovane Faraone,» disse Nefer con profonda tristezza.

 «Bisogna che ceda.»

 «Mi proverò.»

 «Egli non deve giungere a Menfi, m’hai capito. È l’ordine di Pepi e del grande sacerdote.»

 «Lo incatenerò fra le mie braccia nel tempio degli antichi re Nubiani. Va’: ci rivedremo sull’isola.

 Il vecchio le fece colla mano un gesto d’addio e s’allontanò senza far rumore, scomparendo fra le vele calate sulla tolda.

 Nefer stette un momento immobile, come immersa in profondi pensieri, poi alzò il capo e fissò per qualche tempo una stella che scintillava presso la prima dell’Orsa Maggiore.

 «Sempre pallida,» mormorò. «Quando la tua luce aumenterà? Se è vero che anche tu sei un sole, brilla più viva per la felicità di Nefer.»

 Si coprì gli occhi colle mani, rizzandosi tutta, con una mossa felina, e mormorando a mezza voce:

 «Sarà lui che vincerà la maliarda; non io lui. Il fuoco arderà il mio cuore, ma suo resterà freddo. Tutti cadranno dinanzi al mio sguardo e alle mie malìe, fuorché il giovane Faraone. La vede, la sogna: perché sono giunta troppo tardi? Maledetta Faraona, che la dea della morte ti sfiori colle sue nere ali. Fatalità! La grande luce di Osiride non entrerà che nel suo cuore e giammai nel mio!

 Levò le mani e guardò in alto. La luna sorgeva allora al di sopra delle immense foglie piumate delle palme ed i suoi raggi facevano scintillare le acque del Nilo come argento fuso.

 «Astro della notte, dimmi anche tu quale sarà il mio destino.»

 Una nuvoletta in quel momento passò dinanzi alla luna oscurandola lievemente. Nefer scosse tristemente il capo.

 «Tutto è contro di me,» disse. «Tutti gli astri mi predicono che la sventura piomberà un giorno su di me. Ah! Figlio del Sole, tu spezzerai la mia vita!»

 Attraversò il casseretto come un’ombra, senza produrre il più lieve rumore, si arrestò un istante a guardare gli etiopi di guardia, che stavano ancora accoccolati presso l’albero di trinchetto, raccontandosi chissà quali istorie, poi entrò nel casotto, dove le era stata destinata una delle piccole cabine…

 Quando Ata risalì in coperta, il sole era già un po’ alto e sulle acque del Nilo passavano stormi immensi d’ibis, che parevano diretti verso il basso corso.

 Appena dato uno sguardo intorno, s’accorse che la barca dei gatti non vi era più.

 «Già partiti?» chiese ad uno degli etiopi di guardia.

 «Sì, padrone,» rispose il negro.

 «Da molto?»

 «Hanno spiegata la vela dopo mezzanotte.»

 «Perché tanta fretta?»

 «Mi hanno incaricato di salutarti e mi hanno detto che partivano perché vogliono giungere a Menfi prima della piena del Nilo.»

 «Infatti queste bande di uccelli che passano a masse compatte l’annunciano,» disse Ata, parlando fra sé. «Noi non abbiamo fretta, anzi nessuna fretta.»

 Poi, alzando la voce, comandò:

 «Spiegate le vele.»

 Mirinri e Ounis uscivano in quel momento dal casotto di poppa, accompagnati da Nefer.

 La fanciulla pareva che non avesse dormito, poiché i suoi occhi sembravano stanchi. Aveva già fatta la sua toletta, riunendo in trecce i suoi bellissimi capelli, che aveva poi stretti dietro la nuca con una pezzuola variegata di finissimo lino a cui aveva appeso una lastrina di metallo dorato rappresentante Pes, il deforme sposo di Hator, la Venere degli egiziani.

 Si era inoltre dorate le unghie, come si usava in quell’epoca, e si era strofinato il corpo con una certa polvere che lasciava sulla pelle dei riflessi d’un verde bronzato del più gradevole aspetto, e aveva profumate le vesti di mendesium, un profumo composto di resine, di mirra, di miele e di cannella, di cui le donne egiziane facevano un consumo enorme e che per lo più veniva preparato dalle sacerdotesse, dovendo servire anche nelle cerimonie religiose.

 Mirinri involontariamente, appena uscito dal casotto, si era fermato a guardarla.

 «Sei bella, Nefer, più bella d’ieri,» disse.

 La maliarda ebbe un sorriso indefinibile.

 «Dove hai trovato i profumi?»

 «Li porto racchiusi nei miei gioielli, mio signore. Nei villaggi lontani io non potrei trovare tutto ciò che occorre alla toletta d’una indovina. Ah! Passano le ibis! Annunciano la piena.»

 «Che c’impedisca di raggiungere l’isola misteriosa?»

 «Al contrario, mio signore. L’acqua coprirà tutte le rive e allagherà i boschi e le campagne; ma per quanto s’innalzi non potrà invadere le terre di quell’isola.»

 Mirinri stette silenzioso per qualche istante, seguendo collo sguardo gli stormi d’ibis che passavano, senza alcun timore, al di sopra del piccolo veliero, poi riprese:

 «Sei mai stata a Menfi tu, Nefer?»

 «Vi sono nata, mio signore: mi pare di avertelo già detto.»

 «È vero che il palazzo dei Faraoni è il più grandioso monumento che abbiano innalzato gli Egiziani?»

 «Non potresti fartene un’idea se non lo vedi coi tuoi propri occhi, Figlio del Sole. Ma forse un giorno tu non solo lo vedrai, ma anche lo abiterai.»

 «Forse,» disse Mirinri, guardando fissa la maliarda. «Il mio posto è là e non qui; e v’entrerò da vincitore e da re.»

 Sul viso di Nefer passò come un’ombra di profonda tristezza.

 «Tu pensi sempre a qualcuna che siede troppo vicina al trono del Faraone, che oggi impera sul basso e sull’alto Egitto. Guarda che quella donna non ti porti sventura.»

 Mirinri sorrise, facendo contemporaneamente un gesto come di uno che dimostra di essere troppo sicuro di sé.

 «Camminerò diritto, senza esitare, finché avrò compiuta la mia missione,» disse poi, con voce ferma.

 «Puoi incontrare sulla tua strada degli ostacoli, che forse non supponi quali possano essere.»

 «Li spezzerò, Nefer. Il mio braccio non tremerà.»

 «Ed il cuore?»

 «Che cosa vuoi dire?»

 «Sarà forte come il tuo braccio?»

 «E perché no?»

 «Avvampa di già per una fanciulla, che non so se sarà tua amica.»

 Mirinri sospirò e si passò due o tre volte una mano sulla fronte, che si era improvvisamente imperlata di sudore.

 «Sì,» disse poi, come parlando fra sé, «non mi sarà mai amica.»

 «Vi sono altre donne che valgono quella e che possono esserti devote fino alla morte. Tu sei bello, sei giovane, sei valoroso, sei un Figlio del Sole: quale cuore di femmina non batterebbe forte per te?»

 «È impossibile,» rispose il giovane. «Quella fu la prima donna che vidi e che sentii tremare fra le mie braccia e che mi alitò in viso il suo respiro profumato. Ella ha acceso nel mio cuore un tale fuoco, che non potrà estinguersi che colla mia morte. Che importa a me che ella mi sia oggi nemica? Cederà innanzi all’immensità del mio affetto per lei. La vendetta ed il suo amore: ecco il solo scopo della mia esistenza.»

 Nefer ebbe un sussulto così forte che i cerchi d’oro che le ornavano le gambe e le belle braccia tintinnarono rumorosamente.

 «Che cos’hai, Nefer?» chiese Mirinri, volgendosi verso di lei.

 «Mi è sembrato che in questo momento l’ala nera della morte mi abbia sfiorato…» rispose la fanciulla.

 «Mi sembri triste.»

 «Anche tu non mi sembri lieto, mio signore.»

 «È vero.»

 «Vuoi che io rallegri il tuo spirito? Io danzo, suono e canto e nella mia cabina ho veduto appesa alla parete una ban-it e mi accompagnerò con quella. La musica caccia la tristezza ed il canto rasserena le fronti. Guarda, il Nilo comincia a montare: vado a salutare le sue benefiche acque, che scendono dai misteriosi laghi della lontana Nubia.

 Nefer, che pareva avesse riacquistata improvvisamente la sua gaiezza, entrò nel casotto e ne uscì poco dopo portando con sé una specie d’arpa leggera, formata da un bastone ricurvo a semicerchio fornito di quattro corde.

 Attraversò la tolda, salì sulla prora esponendosi tutta a’ raggi ardentissimi del sole, poi, guardando le acque scintillanti di luce ed ergendosi come una superba visione, intonò con una voce fresca, squillante come il suono d’una campana d’argento, l’inno sul Nilo, che era stato messo in gran voga dai letterati egiziani della X dinastia, semplice enumerazione di godimenti pacifici e sicuri.

 «Salute, o Nilo, a te che ti sei manifestato su questa terra, che vieni in pace per dare la vita all’Egitto.

 «Grande Osiride che conduci le tenebre nel giorno che ti aggrada, irrigatore degli orti che il sole ha creati, per dare la vita ad ogni sorta di bestiame!

 «Tu abbeveri la terra in tutti i luoghi, via del cielo che scendi fra le campagne, amico del popolo, e che illumini ogni dimora.

 «Signore dei pesci, allorché tu risali sulle terre inondate nessun uccello invade più i beni utili, creatore del grano, protettore dell’orzo, tu fai perpetua la durata dei tempi, riposo delle braccia è il tuo lavoro per milioni d’infelici».

 La voce della maliarda, calda, squillante, si espandeva lontano nell’ardente atmosfera, mescolandosi al sussurrìo delle acque e fondendosi dolcemente coi suoni che le sue agili dita traevano dall’arpa. La foresta di palme che coprivano le due rive rimanda l’eco di quelle parole, ripetendole nettamente.

 Nefer pareva una divinità del Nilo ed era così bella coi suoi lunghi capelli, che per caso o per arte si erano sciolti coprendo le sue belle spalle, che tutti i battellieri si erano fermati come affascinati. Anche Ounis e Ata pareva che fossero soggiogati e non staccavano gli sguardi dalla maliarda. Solo Mirinri pareva che non vi prestasse molta attenzione. Si avrebbe detto che il suo pensiero seguiva anche in quel momento la visione lontana, che lo aveva colpito mortalmente al cuore e che quella fresca voce, che vibrava sempre più ardente e più forte nell’aria, non riuscisse a scuotere la sua anima.

 Quando Nefer ebbe lanciata nello spazio l’ultima frase, si era lentamente voltata, fissando i suoi occhi nerissimi, ripieni di fuoco, su Mirinri. Vedendo il Figlio del Sole seduto su una cassa, come in una specie d’abbandono, immerso in un profondo pensiero, collo sguardo vago rivolto verso il fiume, un sordo singhiozzo venne a morire sulle labbra della fanciulla ed i suoi occhi si offuscarono, coprendosi d’un velo umido.

 Si raccolse con una mossa nervosa i capelli, imprigionandoli in un cerchio d’oro, lasciò cadere l’istrumento e s’avviò lentamente verso poppa, passando accanto a Mirinri. Questi non si era mosso; sembrava anzi che non si fosse nemmeno accorto che l’inno del Nilo era cessato e che la maliarda gli era passata così vicino da sfiorarlo colla sua veste.

 Ounis, che aveva seguito attentamente la manovra di Nefer, aveva aggrottata la fronte.

 «L’ama,» sussurrò ad Ata.

 «Una maliarda osar amare il Figlio del Sole!» esclamò l’egiziano. «Questa sera la farò gettare nel Nilo.»

 «Tu sei un cattivo politico,» rispose Ounis, sorridendo. «Se quella fanciulla riuscisse a scuotere le fibre di Mirinri, sarei ben lieto. È il ricordo della Faraona che io vorrei strappargli dal cuore. L’amore di quella principessa non potrebbe essere che fatale a questo giovane.»

 «E tu credi che Nefer riuscirà?»

 «È bella, ha delle seduzioni a cui ben pochi uomini potrebbero resistere, nemmeno un discendente del sole. Non sarebbe d’altronde la prima volta che i Faraoni s’imparentano coi principi nubiani.»

 «Tu dunque credi a quanto ti ha narrato.»

 «Sì,» disse Ounis. «Una figlia del popolo non avrebbe un viso così perfetto, né una taglia così snella, né mani e né piedi così piccoli. Ha sangue principesco nelle sue vene.»

 «E la lascierai amare Mirinri.»

 «Farò di più,» rispose il vecchio. «Alimenterò la sua passione pel Figlio del Sole. Chissà: i suoi occhi potrebbero cancellare dal cuore di Mirinri quelli della Faraona. Il pericolo non sta in questa fanciulla, bensì nell’altra, perché quella potrebbe col suo amore attraversare il nostro progetto e sottrarre alla mia vendetta Pepi.»

 «Tuo…»

 «Taci,» disse Ounis, con voce imperiosa, mettendogli rapidamente un dito sulla bocca. «Quel segreto non appartiene che a me e non lo si conoscerà che il giorno in cui io rientrerò nell’orgogliosa Menfi e che il mio piede calpesterà il simbolo di vita e di morte.»

 Ounis, così parlando, si era trasfigurato. Una terribile espressione di collera intensa si leggeva sul suo viso, mentre nei suoi occhi avvampava una fiamma sinistra.

 «Tu non perdonerai,» disse Ata che lo guardava.

 «Mai,» rispose il vecchio, con voce fremente. «I quindici anni di solitudine che io ho trascorsi nel deserto, per sottrarre alla rabbia dell’usurpatore il futuro re dell’Egitto, non hanno spento l’intenso desiderio di vendetta. Ho sete del suo sangue.»

 «Tu farai quello che vorrai, Ounis. I vecchi amici di Teti il grande, saranno pronti a tutto quando il momento sarà giunto.»

 «E giungerà» disse Ounis. «Lento sì, ma sicuro ed il saluto che tutto il popolo deve al suo re echeggierà ancora nel palazzo reale di Menfi.»

 Una brusca scossa che subì la barca lo interruppe. Ata aveva gettato uno sguardo al di sopra del bordo.

 «La piena,» disse. «Ecco l’onda che passa. Anche il Nilo ci aiuta nella nostra impresa.

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