Il fiore della resurrezione

Dopo qualche settimana di riposo iniziamo oggi la pubblicazione di un nuovo romanzo di Emilio Salgari, le Meraviglie del Duemila. Come sempre pubblicheremo un articolo alla settimana, in questo caso l’uscita sarà di martedì mattina.

Lasciamo spazio al maestro con il capitolo primo:

Il fiore della resurrezione

Il piccolo battello a vapore che fa il servizio postale una volta alla settimana, fra Nuova York, la più popolosa città degli Stati Uniti d’America settentrionale e la piccola borgata dell’isola Nantucket, quella mattina era entrato nel piccolo porto con un solo passeggero. Accadeva spesso, durante l’autunno, terminata la stagione balneare, che rarissime persone approdassero a quell’isola, abitata solo da qualche migliaio di famiglie di pescatori che non s’occupavano d’altro che d’affondare le loro reti nei flutti dell’Atlantico.
«Signor Brandok», aveva gridato il pilota, quando il battello a vapore s’era ormeggiato al ponte di legno «siamo giunti.»
Il passeggero, che durante la traversata era rimasto sempre seduto a prora senza scambiare una parola con nessuno, s’era alzato con una certa aria annoiata, che non era sfuggita né al pilota, né ai quattro marinai.
«I divertimenti di Nuova York non lo hanno guarito dal suo spleen» mormorò il timoniere del piccolo battello, volgendosi verso i suoi uomini. «Eppure, che cosa manca a lui? Bello, giovane e ricco… se fossi io al suo posto!…»
Il passeggero era difatti un bel giovane, tra i venticinque e i ventott’anni, di statura alta come sono ordinariamente tutti gli americani, questi fratelli gemelli
degli inglesi, coi lineamenti regolarissimi, gli occhi azzurri ed i capelli biondi.
Aveva invece negli sguardi un non so che di triste e di vago che colpiva coloro che lo avvicinavano, e nelle sue mosse qualcosa di pesante e di stanco, che contrastava vivamente col suo aspetto robusto e florido.
Si sarebbe sospettato che un male misterioso minasse la sua gioventù e la sua salute, nonostante la bella tinta rosea della sua pelle, quella tinta che indica la ricchezza e la bontà del sangue delle forti razze anglosassoni.
Come abbiamo detto, udita la voce del pilota, il signor Brandok s’era alzato quasi a fatica, come se si risvegliasse in quel momento da un lungo sonno.
Sbadigliò due o tre volte, gettò uno sguardo assonnato sulla riva, toccò appena la tesa del suo cappello per rispondere al saluto rispettoso dei marinai e scese lentamente sul pontile di legno.
Invece di dirigersi verso la borgata, le cui casette s’allineavano a duecento passi dal porticciolo, si mise a camminare lungo la spiaggia, colle mani affondate nelle tasche dei pantaloni e gli occhi semichiusi, come fosse in preda ad una specie di sonnambulismo.
Giunto all’estremità della borgata si fermò e aprì gli occhi, fissandoli su un gruppo di monelli scalzi ad onta dell’aria frizzante, che si rincorrevano lungo le dune ridendo e schiamazzando.
«Ecco degli esseri felici» mormorò con un tono d’invidia. «Essi almeno non sanno che cosa sia lo spleen.»
Stette qualche istante immobile, poi scosse il capo, mandò un lungo sospiro e riprese la passeggiata, per fermarsi alcuni minuti dopo dinanzi a una bella casetta a due piani, tutta bianca, colle persiane verniciate e un giardinetto chiuso da una cancellata in legno.
«Che cosa farà il dottore?» mormorò, guardando le finestre. «Starà tormentando qualche cavia o qualche povero coniglio. Il segreto di poter
rivivere dopo cent’anni, bell’idea! Io credo che quel buon Toby perda inutilmente il suo tempo. Eppure egli è molto più, felice di me.»
Tornò a sospirare, attraversò lentamente il giardinetto il cui cancello era aperto e salì la scala, senza quasi rispondere al saluto di una grassa e rubiconda fantesca che gli aveva gridato dalla cucina:
«Buon giorno, signor Brandok; il mio padrone è nel suo studio.»
Il giovine era già al secondo piano. Aprì una porta ed entrò in una stanza piuttosto vasta e bene illuminata da due ampie finestre, tutta circondata da scaffali di noce pieni di un numero infinito di storte e di bottiglie variopinte.
Nel mezzo, curvo su una tavola, vi era un uomo sui cinquantacinque anni, di forme quasi erculee, con una lunga barba un po’ brizzolata e tutto intento ad osservare un coniglio che pareva, a prima vista, o morto o addormentato.
Udendo aprirsi la porta si levò gli occhiali e si voltò con una certa vivacità, esclamando con voce giuliva:
«Ah! sei tornato, amico James? Ti sei stancato presto di Nuova York e mi pare che tu non abbia un’aria molto soddisfatta».
Il giovine si lasciò cadere sopra una sedia che si trovava presso la tavola e rispose con un mesto sorriso.
«Dunque?» chiese l’uomo attempato, dopo un breve silenzio.
«Sono più annoiato di prima ed è un miracolo che sia qui» rispose Brandok.
«Perché?»
«Avevo già deciso di fare un bel salto dal faro della Libertà e di sfracellarmi sul molo.»
«Una brutta sciocchezza, mio caro James. A ventisei anni, con un milione di dollari…»
«E cento milioni di noia che mi fa sbadigliare da mattina a sera» disse il giovine, interrompendolo. «La vita diventa ogni giorno più insopportabile e finirò per sopprimermi. Un viaggio all’altro mondo non mi dispiacerebbe. Forse là m’annoierò meno.»
«Viaggia in questo mondo, amico.»
«Dove vuoi che vada, Toby?» disse Brandok. «Ho visitato l’Australia, l’Asia, l’Africa, l’Europa e mezza America. Che cosa vuoi che vada a vedere?»
Il dottore s’era messo a passeggiare per la stanza, con le mani dietro al dorso, la testa bassa, come se un profondo pensiero lo preoccupasse. Ad un tratto si fermò dinanzi al coniglio, dicendo:
«James, ti piacerebbe vedere come camminerà il mondo fra cent’anni?».
Il giovane Brandok aveva alzato la testa che teneva inclinata su una spalla, interrogando il dottore collo sguardo.
«Sì,» riprese Toby «io voglio vedere che cosa sarà l’America fra venti lustri. Chissà quali meraviglie avranno inventato allora gli uomini. Macchine straordinarie, navi colossali, palloni dirigibili e mille altre cose strabilianti. Ormai il genio umano non ha più freno e gl’inventori nascono come i funghi.»
«Hai trovato finalmente il modo di prolungar la vita?» chiese Brandok, con tono leggermente ironico.
«Di fermarla, invece.»
«Ah!»
«Ne vuoi una prova?»
«Possibile che tu abbia fatta una simile scoperta?» esclamò Brandok, con stupore. «So che tu da molti anni ti dedichi a certi esperimenti.»
«E sono pienamente riusciti» disse il dottore. «Vedi questo coniglio?»
«È morto?»
«No, dorme da quattordici anni.»
«È impossibile.»
«Fra poco te lo farò risuscitare con una semplice puntura e un bagno tiepido.»
«Quale filtro misterioso hai scoperto? Non ti prendi gioco di me, Toby?»
«A quale scopo? Chiudiamo le porte perché nessuno ci oda o ci veda, e tu assisterai ad una risurrezione meravigliosa.»
Fece girare le chiavi, chiuse un po’ le finestre, accostò una sedia al tavolino e dopo aver offerto al suo giovine amico un sigaro, disse:
«Ascoltami ora; poi verrà l’esperimento».
Toby, dopo essere stato alcuni momenti silenzioso, raccolto in se stesso, s’era alzato per prendere da uno degli scaffali un vaso di vetro contenente una piccola pianta disseccata, che pareva unica nel suo genere.
«Ne hai mai veduta una simile, amico James?»
Il giovine Brandok guardò il dottore con una certa sorpresa, dicendo:
«Vorrei sapere che cosa c’entra questa pianticella coi conigli che dormono da tanti anni. Immagino che non avrai l’intenzione di aumentare le mie noie».
«Niente affatto» riprese Toby, imperturbabilmente. «Tu dunque non conosci questo fiore, quantunque tu abbia assai viaggiato?»
«Sai bene che io di botanica non me ne sono mai occupato.»
«Allora non hai mai udito parlare del fiore della risurrezione?»
«No, mai» disse il giovine.
«Ascoltami dunque: la storia è interessante e non t’annoierà. Cinquant’anni
or sono, un mio collega, il dottor Dek, viaggiava nell’Alto Egitto collo scopo di trovare un’antica miniera di metalli in cui lavoravano un tempo dei sudditi dei Faraoni. Un giorno incontrò un arabo infermo ed il dottore lo curò amorosamente, salvandogli la vita. Il figlio del deserto era povero, eppure volle ricompensare il suo salvatore, dandogli un tesoro che da solo valeva tutte le pietre preziose del mondo.»
«In che cosa consisteva?» chiese Brandok, che cominciava ad interessarsi vivamente a quel racconto che assomigliava ad uno di quelli delle Mille ed una Notte.
«In una piccola pianta disseccata, che dall’arabo era stata scoperta in una antichissima tomba, nel seno di una sacerdotessa egiziana che per bellezza non aveva avuto uguali. Il dottor Dek, ascoltando i pomposi elogi fatti a quel piccolo fiore, sepolto chissà quanti secoli prima dell’era cristiana e che portava dei bottoncini arsi dal sole ed ingialliti, non aveva potuto trattenersi dal sorridere.»
«Ed io avrei fatto altrettanto» disse Brandok.
«Ed avresti avuto torto,» disse Toby «poiché l’arabo prese la pianta, la bagnò con alcune gocce d’acqua e sotto gli sguardi del dottore si compì un prodigio meraviglioso. La pianta, appena sentì inumidirsi, cominciò a fremere, poi ad agitarsi, i suoi tessuti si raddrizzarono e i suoi bottoni si gonfiarono, poi si schiusero. Il fiore a poco a poco sbocciava, dopo venti secoli e più di sonno, svolgendo i suoi leggeri petali, i quali si distendevano come raggi superbi intorno ad un punto centrale, pieni di eleganza e di freschezza.»
«Strano fenomeno!» esclamò Brandok, che pareva avesse dimenticato il suo spleen.
«Quel fiore,» proseguì il dottore «assomigliava ad una margherita raccolta in qualche giardino incantato. Quella risurrezione misteriosa durò parecchi minuti, poi il fiore a poco a poco rovesciò la sua corolla dalle tinte iridescenti,
scoprendo in mezzo ai petali alcuni granelli antichissimi. Ahimè! La preziosa semente che il fiore della risurrezione custodiva con tanta gelosa cura, da tanti secoli era irrimediabilmente sterile. A quale suolo affidare quei granelli? Quale sole avrebbe potuto tenerli in vita? Sorpreso e ammirato, il dottore portò seco la meravigliosa pianta e rinnovò in Europa centinaia di volte l’esperimento del vecchio arabo, e sempre il piccolo fiore del deserto, la pianta misteriosa degli antichi Faraoni, risuscitò nella sua immortale bellezza mercé alcune gocce d’acqua. Morendo, il dottor Dek regalò il fiore della risurrezione al discepolo ed amico suo James, il quale ripeté anch’egli, con eguale successo, la prodigiosa esperienza. Infine il fiore della pianta egiziana venne offerto ad Alessandro Humboldt ed il grande naturalista lo risuscitò più volte davanti ai suoi dotti colleghi. Fra le sue mani la pianta misteriosa non fece che rinascere e morire, senza che egli potesse penetrarne i segreti; ad ogni operazione ripeteva colla tristezza del genio impotente: “Nulla c’è in natura che somigli a questa pianta!”»
«E nessuno ha mai potuto penetrare il mistero di quella pianta che tolta dal sepolcro, dopo migliaia di anni risuscitava grazie ad una goccia d’acqua e riapriva la sua corolla eternamente bella, come per dire al mondo: “Ecco come ero al tempo dei Faraoni”?» chiese Brandok.
«Sì, uno solo: io!» disse Toby.
«Tu!?»
«Sì, io» ripeté il dottore.
«Dunque?…»
«Adagio, questo è un segreto. Durante un viaggio che feci venticinque anni or sono in Egitto, potei avere uno di quei fiori e studiare e anche spiegare i misteri della sua risurrezione. E da quel fiore mi è sorta l’idea di fermare la vita umana per farla risvegliare dopo un numero più o meno lungo di anni. Perché se poteva rivivere un umile fiorellino, non avrebbe potuto fare altrettanto un
organismo così completo come quello dell’uomo? Ecco la domanda che mi rivolsi e alla cui soluzione impiegai venticinque anni di studi ininterrotti.»
«E ci sei riuscito?»
«Pienamente» rispose Toby.
S’era alzato, avvicinandosi al tavolino e aveva preso fra le mani il coniglio che pareva morto, avendo le gambe e la testa irrigidite.
«Ha odore, questo animale? Fiutalo, James. Credi che sia morto?»
«È freddo e il cuore non batte più.»
«Eppure la sua vita non è altro che sospesa da quattordici anni.»
«È dunque la morte artificiale che hai scoperto?»
«Una semplice puntura del mio filtro misterioso è bastata per fermare le pulsazioni del cuore di questo animale e per conservarlo per un così lungo tempo.»
«È meraviglioso!»
«Forse meno di quello che sembra» disse il dottore. «Sai che cosa sono i fakiri?»
«Dei fanatici indiani che eseguono degli esperimenti meravigliosi.»
«E che si fanno seppellire talvolta per quaranta e anche cinquanta giorni entro una cassa sigillata, colla bocca e le narici turate da uno strato di cera, e che poi risuscitano senza aver l’aspetto d’aver sofferto. Un bagno nell’acqua calda, un po’ di burro sulla loro lingua per renderla più pieghevole ed eccoli ritornare alla vita. Ora vedrai.»
Prese da uno scaffale una piccola fiala di vetro che conteneva un liquido rosso, vi immerse una siringa, poi punse replicatamente il coniglio, la prima volta in direzione del cuore e la seconda volta alla gola.
L’animale non aveva dato alcun segno di vita ed aveva conservata la sua rigidezza.
«Aspetta, James» disse il dottore, vedendo apparire sulle labbra del giovine un sorriso d’incredulità.
In un angolo vi era un bacino di metallo, sotto cui ardeva una lampadina ad alcool. Il dottore v’immerse un dito per assicurarsi del calore dell’acqua, poi levò la vaschetta, deponendola sulla tavola.
«Fai fare un bagno al morto?» chiese Brandok.
«Cioè all’addormentato» corresse il dottore. «È necessario allentare a questo dormiglione i nervi che da tanti anni non agiscono più.»
«Se tu riesci a far rivivere questo animale, io ti proclamo il più grande scienziato del mondo.»
«Non esigo tanto» rispose Toby, ridendo.
Immerse il coniglio nel bacino, tenendogli la testa fuori dell’acqua, poi si mise ad alzare ed abbassare le gambe anteriori, come per provocare la respirazione e aspettò, guardando l’amico che s’era fatto tutto serio.
«Pare che tu cominci a credere al buon risultato della strana operazione» gli disse il dottore. «È vero, James?»
«Non ancora» rispose il giovine.
«Eppure sento che la testa del coniglio comincia a diventar calda.»
«Effetto del calore dell’acqua.»
«E che la carne freme.»
«Non vedo muoversi le gambe.»
Ad un tratto mandò un grido di stupore; il coniglio aveva aperti gli occhi e fissava il dottore colle pupille dilatate.
«Ti sembra morto ora?» disse Toby, con accento beffardo.
«Ti guarda!» esclamò il giovine.
«Lo vedo.»
«Agita le zampe!»
«E respira anche.»
«Miracolo!… Miracolo!…»
«Zitto, James, non gridar tanto forte.»
«È meravigliosa questa risurrezione!»
«Non dico di no.»
«Una scoperta che metterà sossopra il mondo.»
«Niente affatto, perché io mi guarderò bene dal divulgarla. Non siamo che in tre sole persone a conoscerla: io, tu ed il notaio del borgo, quell’eccellente signor Max.»
«Perché la conosce anche il notaio?» chiese Brandok.
«Lo saprai più tardi: guarda il risultato per ora.»
Aveva levato dalla vaschetta il coniglio e l’aveva messo sul tavolino, avvolgendolo in un pezzo di stoffa di lana.
L’animale aveva gli occhi aperti, respirava liberamente raggrinzando il naso, però si vedeva che era debolissimo, non riuscendo a reggersi sulle zampe, né cercava di fuggire. Doveva essere istupidito.
«Non morrà?» chiese Brandok.
«Stasera lo vedrai mangiare e correre assieme ai suoi compagni che tengo giù nel mio giardino. Non è il primo che io faccio risuscitare; la settimana scorsa ne ho fatto rivivere un altro dinanzi al notaio ed anche quello dormiva
da quattordici anni. Ora mangia, saltella e dorme come gli altri, e tutti i suoi organi funzionano perfettamente bene.»
«Toby,» esclamò Brandok, con profonda ammirazione «tu sei un grand’uomo; tu sei il più grande scienziato del secolo.»
«Di questo, o dell’altro?» chiese il dottore.
«Che domanda è questa?»
«Mio caro James, tu devi aver fame ed il pranzo è pronto. L’aria di mare mette appetito e la mia vecchia Magge mi ha promesso un superbo piatto di pesce. Lasciamo qui il coniglio e andiamo a riempirci lo stomaco: la cuoca sarà già arrabbiata per il ritardo. Avremo anche il notaio al pudding.»
«Perché il notaio?…»
Il dottore, invece di rispondere, si affacciò alla finestra, e vedendo un garzone che stava innaffiando le zolle del giardino, gli gridò:
«Tom, avverti Magge che siamo pronti per assaggiare le sue triglie e le sue dorate, e per le due attacca il poney. Dobbiamo fare una gita allo scoglio di Retz».

Cinque minuti dopo, il dottore e il signor Brandok seduti in una elegante saletta da pranzo, dinanzi ad una tavola bene imbandita, gustavano con molto appetito le grosse ostriche di New Jersey, le più deliziose che si trovino sulle coste orientali dell’America settentrionale, le dorate e le triglie preparate dalla brava Magge, innaffiando le une e le altre con dell’eccellente vino bianco dei vigneti della Florida.
Il dottore non parlava; pareva tutto intento a divorarsi quei deliziosi pesci, i migliori forse che possegga l’Atlantico settentrionale.
Brandok invece, cosa assolutamente nuova, sembrava che non fosse più
tormentato dallo spleen; chiacchierava per due, tempestando il compagno di domande su quella meravigliosa scoperta che doveva, a sentir lui, portare la rivoluzione nel mondo. Con tutto ciò non riusciva che a strappare qualche sorriso allo scienziato.
«Dunque queste triglie e queste dorate ti hanno reso muto» gridò ad un tratto Brandok, che cominciava ad arrabbiarsi. «Sono venti minuti che i tuoi denti continuano a masticare e che invece la tua lingua rimane immobile.»
«No, mio caro James, io penso» rispose il dottore, ridendo.
«Pare che tu abbia dimenticato la tua scoperta.»
«Tutt’altro.»
«Allora parliamone.»
«Al pudding.»
«Che cosa c’entra quel pasticcio?»
«Ti ho detto che verrà ad assaggiarlo anche il notaio della borgata, quel bravo signor Max.»
«Ma insomma che cosa c’entra lui?»
«Perdinci, se c’entra! Se dopo cent’anni nessuno più si ricordasse di me e mi lasciassero dormire per sempre? Tanto varrebbe morire.»
«Toby!» esclamò Brandok «Che cosa hai intenzione di fare?»
«Vedere come camminerà il mondo fra cent’anni e null’altro.»
«Come! Tu vorresti…»
«Fare un sonno di venti lustri.»
«Sei pazzo?»
«Non lo credo» rispose il dottore con voce tranquilla.
Brandok aveva picchiato sulla tavola un pugno così violento, da far traballare i bicchieri e rovesciare una bottiglia.
«Tu vorresti?…» gridò.
«Farmi rinchiudere nel rifugio che mi son fatto preparare sulla cima dello scoglio di Retz, per risvegliarmi fra cento anni, mio caro. Si incaricheranno i discendenti del notaio e il futuro sindaco di Nantucket o i suoi successori, a farmi ritornare in vita. Lascio ventimila dollari appunto per farmi risuscitare, unitamente alla fiala contenente il misterioso liquido che mi dovranno iniettare nei punti indicati nel mio testamento.»
«Ti ucciderai!»
«Allora vuol dire che tu non hai alcuna fiducia nella mia grande scoperta.»
«Sì, piena fiducia; però tu non sei un coniglio e poi cento anni non sono quattordici» disse Brandok.
«Abbiamo sangue e muscoli al pari delle bestie e un cuore che funziona egualmente. Volevo farti la proposta di addormentarti con me; ora vi rinunzio.»
«Tu hai pensato a me?»
«Sì, sperando che con un riposo di cento anni il tuo spleen finirebbe per andarsene.»
«Se l’altro giorno volevo gettarmi dal faro della Libertà! Vedi in quale conto ormai tengo la mia vita. Mi vuoi per compagno, Toby? Sono pronto. Anche se morissi, non perderei nulla.»
«Dunque, ti piace la mia idea?»
«Sì, francamente.»
«Sei eccentrico come un vero inglese.»
«E non sono forse un inglese?» disse Brandok ridendo.
Il dottore s’alzò, andò a prendere su una mensola una polverosa bottiglia che doveva contare un bel numero d’anni e la sturò, empiendo i due bicchieri.
«Medoc del milleottocentoottantotto» disse. «Dopo ventiquattr’anni di riposo deve essere diventato eccellente. Alla nostra risurrezione nel duemilatre!» esclamò, alzando il bicchiere. Lo svuotò di un fiato, stette qualche minuto soprappensiero, poi disse:
«Quanto possiedi, James…?».
«Cinque milioni di lire.»
«In cartelle dello Stato?»
«Sì.»
«Devi cambiarle in oro, amico mio. Fra cent’anni quelle cartelle potrebbero non avere più valore alcuno, mentre invece l’oro rimane sempre oro, sia che si trovi in verghe od in pezzi da venti lire. Io posseggo soltanto ottantamila dollari, tuttavia spero che mi basteranno, anche fra cento anni, per non morir di fame. Sono già a posto nel piccolo sotterraneo che ho fatto scavare sotto la mia tomba, in una cassaforte, colla chiave a segreto.»
«E sei certo che i nostri corpi si conserveranno?»
«Meravigliosamente» disse il dottore. «Ci conserveremo come fossimo carni gelate.»
«Geleremo?»
«Sì.»
«Chi metterà del ghiaccio nella nostra tomba?»
«Non ce ne sarà bisogno. Ho scoperto un certo liquido che abbasserà la temperatura della nostra tomba a 20 gradi sotto lo zero.»
«E si manterrà?»
«Finché non sfonderanno la nostra cupola di cristallo per farci risuscitare. Staremo benissimo là dentro, te lo assicuro. Ah! ecco quel bravo notaio; giunge a tempo per assaggiare il pudding della mia cuoca e per vuotare un bicchiere di questo delizioso medoc.»
Nella stanza vicina aveva udito Magge che gridava:
«È sempre in ritardo, signor Max! Cinque minuti ancora e non assaggiava più il mio pudding. Un’altra volta me lo farà bruciare».
La porta del salotto s’era aperta fragorosamente ed il notaio era entrato con un passo così pesante, da far traballare le bottiglie ed i bicchieri.
Il signor Max era un uomo sulla sessantina, grasso come una botte e col viso rubicondo nel cui mezzo faceva bella mostra un naso che poteva stare a paragone, senza arrossire, con quello del guascone Cyrano di Bergerac.
«Buon appetito, signori» gridò, con una voce da granatiere. «Come va, signor Brandok? V’è passato lo spleen dopo la vostra gita a Nuova York?»
«Comincia a lasciarmi un po’ di tregua, signor Max,» rispose il giovine «e spero che fra alcuni giorni se ne starà tranquillo per un buon secolo. Poi vedremo.»
«Ah!… ho capito» disse il notaio, ridendo. «Toby ha trovato un compagno.»
«Che mi terrà buona compagnia» disse il dottore, empiendo un bicchiere.
«Assaggiate questo medoc, mio caro notaio; non se ne trova di simile nemmeno in Francia.»
Magge entrava in quel momento, portando su un piatto d’argento un bel pasticcio dalla crosta dorata, che fumava ancora e che spandeva un profumo delizioso.
«È attaccato il poney?» chiese il dottore.
«Sì, padrone» rispose la cuoca.
«Allora sbrighiamoci.»
In pochi minuti fecero sparire il pudding, vuotarono una tazza di tè, poi scesero nel cortile, dove li attendeva un carrozzino tirato da un piccolo cavallo bianco che sembrava impaziente di partire.
«Andiamo» disse il dottore, raccogliendo le briglie ed impugnando la frusta. «Fra mezz’ora saremo allo scoglio di Retz.»

Era una splendida giornata d’autunno, rinfrescata da una brezza vivificante impregnata di salsedine, che soffiava dal settentrione.
L’Oceano Atlantico era in perfetta calma, quantunque il flusso avventasse fra le scogliere che proteggevano le spiagge dalle ondate le quali s’infrangevano con mille boati, balzando e rimbalzando. Delle barche pescherecce colle loro belle vele dipinte di giallo e di rosso a strisce e macchie nere, che davano loro l’apparenza di gigantesche farfalle, spiccavano vivamente sull’azzurro cupo delle acque, spingendosi lentamente al largo, mentre in alto stormi di grossi uccelli marini, di gabbiani e di fregate volteggiavano capricciosamente.
Uscito dalla cinta, il piccolo cavallo aveva preso una via abbastanza larga che costeggiava l’oceano, slanciandosi ad un trotto rapidissimo, senza che il dottore avesse avuto bisogno di eccitarlo colla frusta.
Brandok era ridiventato taciturno, come se lo spleen lo avesse ripreso; il notaio pure non parlava, tutto occupato a fumare la sua pipa che eruttava un fumo denso come la ciminiera d’un battello a vapore.
Il dottore badava che il poney filasse diritto e non mettesse le zampe in qualche crepaccio o s’avvicinasse troppo alla scogliera, che in quel luogo cadeva a picco sull’oceano.
Dei ragazzi di quando in quando sbucavano dalle macchie di pini e di abeti
che si prolungavano verso l’interno dell’isola e rincorrevano per qualche tratto il carrozzino, gridando a squarciagola:
«Buona passeggiata, dottore!».
Il paesaggio variava rapidamente, accennando a diventare più selvaggio, man mano che s’accostavano alla spiaggia orientale dell’isola. Non si vedevano più casette né abitanti. Soltanto le macchie dei pini e degli abeti diventavano più numerose e più folte e le scogliere più alte e più ripide; le onde dell’Oceano Atlantico vi s’infrangevano con una violenza tale, che pareva si sparassero delle cannonate in fondo ai piccoli fiordi scavati dall’eterna azione delle acque.
Era un rombo continuo, sempre più fragoroso, che impediva ai tre amici di parlare.
La strada era finita, però il poney non cessava di trottare, senza manifestare alcuna fatica e faceva traballare maledettamente la carrozzella.
Ad un tratto si fermò dinanzi ad una parete rocciosa, dietro la quale si udiva l’oceano muggire furiosamente.
«Siamo giunti» disse il dottore, balzando a terra. «Ecco lo scoglio di Retz.»
«E lassù hai preparato la nostra tomba?» chiese Brandok.
«Ed in una posizione bellissima» rispose il dottore. «Il muggito delle onde ci canterà la ninna nanna, senza tregua, fino al giorno della nostra risurrezione.»
«Se torneremo in vita.»
«Dubiti ancora, James?»
«Non prenderti nessun pensiero per i miei dubbi. Ti ho detto che la vita ormai è diventata troppo pesante per me, quindi poco m’importerebbe anche se non mi risvegliassi mai più. Mostrami dunque la nostra ultima dimora.»
«Non l’ultima.»
«Come vuoi.»
«Vieni, James.»
Legò il poney al tronco d’una betulla, poi prese un piccolo sentiero scavato nella viva roccia che s’innalzava a zigzag. La rupe, chiamata impropriamente lo scoglio di Retz, era di mole enorme, alta un centinaio di metri, e formava il capo più alto dell’isola, verso oriente.
La sua fronte massiccia, tagliata a picco, opponeva un formidabile ostacolo all’irrompere delle onde dell’Atlantico, quindi non vi era pericolo che cedesse, nemmeno dopo cent’anni.
Giunti sulla cima, che era piatta, anziché terminare a punta, Brandok scorse una muraglia, della circonferenza di quattro o cinque metri, che era sormontata da una cupola di cristallo munita di un parafulmine altissimo.
«È quella la nostra ultima dimora?» chiese.
«Sì» rispose il dottore.
«Quando l’hai fatta costruire?»
«Lo scorso anno.»
«Lo sanno gli abitanti della borgata?»
«No, perché ho fatto venire gli operai ed i vetri da Nuova York.»
«E la rispetteranno?»
«Lo scoglio è mio: l’ho acquistato dal comune, con contratto regolare, ed il notaio ha l’ordine di far distruggere il sentiero che conduce quassù e di cingere la scogliera con una cancellata di ferro altissima.»
«Che ho già ordinata» disse il signor Max. «Nessuno verrà a disturbarvi.»
«Entriamo» disse il dottore.
Con una chiave a segreto aprì una porticina di ferro tanto bassa che non si poteva entrarvi che carponi, ed i tre uomini si introdussero nel piccolo edificio.
L’interno era tutto coperto da vetri molto spessi incastrati in robuste cerniere di rame, e di notevole non aveva che un letto molto largo e basso, con coperte piuttosto pesanti ed un piccolo scaffale su cui stavano delle bottiglie e delle siringhe.
«Ecco la mia dimora, o meglio la nostra» disse Toby, rivolgendosi all’amico. «Ti rincresce?»
«Niente affatto» rispose il giovane, che guardava l’oceano attraverso la cupola di vetro. «Spero che nessuno verrà a disturbarci prima del giorno che avremo fissato nel nostro testamento. Che piacere udire il fragore delle onde! Ecco una bella compagnia.»
«Ritengo inutile che tu ti provveda di un letto. Questo è più che sufficiente per tutti e due.»
«Ed il sotterraneo dove hai depositato i tuoi valori?»
Il dottore si curvò, levò una piastra di ferro che si trovava ai piedi del letto e mostrò una stretta gradinata scavata nella viva roccia, che doveva mettere in qualche cella sotterranea.
«La cassaforte si trova là dentro» disse.
«Vi rinchiuderò anche i miei valori. Domani andrò a Nuova York a cambiare la mia carta e le mie azioni ferroviarie in oro. Ne avremo abbastanza al nostro risveglio. A quando il nostro sonno?»
«Fra otto giorni; appena avranno chiusa la base della roccia colla cancellata.»
«Una domanda ancora, mio caro dottore. Se si dimenticassero di risvegliarci? Sai che io non ho nessun parente.»
«Io ho una sorella che ha sette figli» rispose Toby. «Spero che fra cent’anni esisterà ancora qualche pronipote per venire a riaprirci gli occhi, o per impossessarsi del nostro tesoro nel caso che noi fossimo proprio morti; e poi vi è il notaio ed ho anche depositato un atto presso il sindaco. Non temere James: qualcuno verrà a raccogliere la nostra eredità.»
«I miei successori non si dimenticheranno di voi, siatene certi» disse il signor Max.
«Hai nessun’altra obiezione da fare, James?» chiese Toby.
«No» rispose il giovane.
«Sei risoluto a tentare l’esperimento?»
«Hai la mia parola.»
«Allora, torniamo a casa mia a fare gli ultimi preparativi.»
Uscirono, chiusero la porticina, scesero lo scoglio e salirono sulla carrozzella senza aggiungere altra parola.
Dobbiamo confessare però che tutti e tre erano visibilmente commossi.

Otto giorni dopo, prima del tramonto del sole, Brandok, il dottore ed il notaio lasciavano inosservati la borgata e si mettevano in cammino per lo scoglio di Retz.
Avevano ormai prese tutte le disposizioni per quella dormita che doveva durare cent’anni, e tutte le misure perché in quel lunghissimo tempo nessuno si recasse a disturbarli.
Il signor Brandok aveva già fatto trasportare nottetempo i suoi milioni e li aveva rinchiusi nella cassaforte nascosta nel piccolo sotterraneo; aveva venduto tutti i suoi possedimenti, lasciando una parte del ricavato al comune dell’isola purché vegliasse sulla tomba; il dottore aveva regalato la sua casetta
alla sua cuoca e fatto innalzare intorno alla piccola costruzione la cancellata di ferro sulla quale aveva fatto collocare parecchie lastre di metallo colla scritta: Proprietà privata del dottor Toby Holker.
Quando giunsero sulla cima della rupe il sole stava per tramontare in un oceano di fuoco.
Tutti e tre s’erano fermati, guardando l’oceano che fiammeggiava sotto i riflessi del tramonto e che s’increspava leggermente sotto la brezza della sera.
In lontananza un grande piroscafo fumava, dirigendosi verso la costa americana; lungo le scogliere dell’isola alcune barche pescherecce s’avanzavano dolcemente, tornando verso il porto della piccola borgata; alla base della rupe le onde s’infrangevano rompendo il silenzio che regnava sull’immenso oceano. I tre uomini tacevano: il notaio sembrava profondamente commosso; Brandok e Toby un po’ preoccupati. Rimasero così parecchi minuti, guardando ora le barche ed ora il sole che pareva si tuffasse in acqua; poi ad un tratto il dottore si scosse, dicendo:
«Non ti penti della parola data, James?».
«No» rispose Brandok, con voce calma.
«Anche se non dovessimo risvegliarci mai più?»
«Nemmeno.»
«Signor Max, salutiamoci ed abbracciamoci, poiché non ci rivedremo mai più, a meno di un miracolo.»
«Bisognerebbe che campassi centoquarant’anni, una età impossibile» disse il notaio, sospirando. «Io morrò, mentre voi risusciterete.»
«Un abbraccio, amico, e lasciamoci.»
Il signor Max, vivamente commosso, cogli occhi umidi, si strinse fra le braccia il dottore, tenendoselo per qualche momento sul petto.
«Addio, signor Brandok» disse poi, con voce rotta, porgendogli la mano. «Vi auguro di tornare in vita e di ricordarvi di me.»
«Ve lo promettiamo» rispose il giovane. «Addio, signor Max: noi andiamo a dormire.»
Il notaio s’allontanò, volgendosi più volte per un gesto d’addio; poi scomparve pel sentiero che conduceva alla base della rupe dove aveva collocato una grossa cartuccia di dinamite, per distruggerlo.
«Vieni James» disse Toby, quando furono soli. «Guarda un’ultima volta l’oceano.»
«L’ho guardato abbastanza, e poi non lo troveremo certo cambiato, se risusciteremo.»
Aprirono la porticina ed entrarono nella loro tomba, che gli ultimi raggi di sole illuminavano a sufficienza, facendo scintillare la cupoletta di vetro.
Toby prese dalla mensola una bottiglia e due bicchieri e la stappò.
«Un buon bicchiere di champagne» disse, versando lo spumeggiante nettare. «Alla nostra risurrezione, James!»
«O alla nostra morte, che per me sarà lo stesso» rispose il giovine, forzandosi di sorridere. «Almeno lo spleen non mi tormenterà più.»
Vuotarono d’un fiato i bicchieri, poi il dottore chiuse in un plico alcuni documenti che collocò entro una cassetta di metallo.
«Che cosa fai, Toby?» chiese Brandok.
«Qui dentro vi sono le fiale contenenti il misterioso liquido che dovrà ridarci la vita, e insieme la ricetta che insegnerà come dovranno servirsene coloro che verranno a risvegliarci.»
«Hai finito?»
«Sì. Un altro bicchiere.»
«Sia» rispose Brandok.
Vuotarono la bottiglia, poi il dottore sturò una fiala ed empì due piccole tazze. Era un liquore rossastro, un po’ denso, che aveva un profumo speciale.
«Bevi» disse, porgendo una delle tazze a Brandok.
«Cos’è?»
«Il narcotico che ci addormenterà, o meglio che sospenderà la nostra vita e che impedirà alle nostre carni di corrompersi.»
Il giovane prese la tazza con mano ferma, guardò il liquido in trasparenza, poi lo tracannò senza che un muscolo del suo viso avesse trasalito.
«È un po’ amaro, però non è cattivo» disse. «Ah! che freddo, Toby. Mi pare di avere un blocco di ghiaccio al posto del cuore.»
«Non è nulla, e poi durerà poco. Gettati sul letto e copriti.»
Mentre Brandok obbediva, il dottore bevve anch’egli la sua tazza, poi s’accostò barcollando ad un vaso di terra che si trovava in un angolo ed afferrato un martello che si trovava li presso, con un colpo vigoroso ne spezzò il coperchio, poi raggiunse frettolosamente il compagno.
Una temperatura da Siberia aveva invaso la stanza. Pareva che da quel vaso misterioso uscisse una corrente d’aria gelata, come quella che spira nelle regioni polari.
Il dottore guardò Brandok: il giovane non dava più segno di vita. Pareva che la morte l’avesse colto di colpo.
«Fra… cento… anni…» ebbe appena il tempo di balbettare il dottore, e stramazzò a fianco dell’amico. Nello stesso momento l’ultimo raggio di sole si spegneva e le prime ombre della notte scendevano sul sepolcreto.

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