I fantasmi dei mari del Nord

La quinta sera l’ex re dei selvaggi non comparve in coperta. Era risalito all’ora del pranzo, aveva divorato la sua razione con un appetito da vecchio pescecane, poi, vedendo che il mare era sempre tranquillo e il vento costante, si era rintanato, portando con sé una grossa provvista di biscotti e gli avanzi del pasto.

L’equipaggio, che ci prendeva gusto a quelle narrazioni più o meno fantastiche, si era radunato per tempo attorno al barile, disputandosi i primi posti; ma papà Catrame non si fece vivo. Era ammalato, oppure aveva alzato un po’ troppo il gomito? Non lo si poté sapere, poiché il vecchio orso mai ce lo disse, e il camerotto, che mandammo nella cala per vedere e saperci riferire qualche cosa, tornò in coperta con la faccia pesta da una ciabatta tiratagli contro.

Aspettammo fino alle nove, poi fino alle dieci, ma invano. Alcuni, malgrado il superstizioso terrore che ispirava quello strano vecchio e la brutta accoglienza toccata al camerotto, ardirono scendere in fondo alla stiva; ma non ci seppero dire altro che l’orso marino russava come un tasso, anzi come un contrabbasso scordato.

Il capitano, che voleva molto bene al suo mastro e che chiudeva uno e anche tutti e due gli occhi sulle originalità di lui, ordinò che per quella sera lo si lasciasse tranquillo.

– Avrà la lingua stanca, – diss’egli ridendo. – Perbacco! Ha parlato più in queste sere, che in tutta la sua vita.

Tutti obbedirono, ma un vivo malumore regnò a bordo e gli uomini di guardia si annoiarono mortalmente, specialmente quelli del primo quarto, che si erano abituati a passarlo dinanzi al barile del vecchio marinaio.

L’indomani papà Catrame riapparve in coperta all’ora del pasto; ma anche questa volta si portò via gli avanzi e andò a celarsi in fondo alla cala. Giunta la sera, non diede segno di vita.

– Ah! briccone! – esclamò il capitano. – Che il furbo creda di aver terminata la sua pena? Olà! Due uomini scendano nella cala e dicano al mastro che, se non viene a sciogliere la lingua, lo passo ai ferri per gli altri otto giorni. Andate!

Dieci minuti dopo papà Catrame era nuovamente seduto sul suo barile, circondato da tutto l’equipaggio, ansioso di udire la quinta novella.

Il mastro era di umore cattivo e certo aveva obbedito pel solo timore che il capitano facesse eseguire alla lettera la minaccia di passarlo ferri. Non dovevamo aspettarci quindi una allegra storiella; lo leggevamo negli occhi del narratore.

– È pronta la tua lingua? – chiese il capitano, assumendo un’aria arcigna.

Papà Catrame fece un gesto affermativo.

– Parla adunque!

Il mastro curvò la testa sul petto per concentrarsi, mentre attorno lui si faceva un religioso silenzio; frugò e rifrugò nel suo cervello alcuni minuti, poi socchiudendo gli occhi grigi ci chiese:

Avete mai fatto voi un viaggio nelle regioni polari?

Nessuno rispose, eccettuato il capitano che borbottò un sì.

– Comprendo, – riprese papà Catrame con ironia. – A nessuno di voi garba sfidare i freddi intensi del polo artico o antartico. Bei marinai, perbacco! Le costipazioni vi hanno fatto paura!… Là… là!… i marinai moderni tremano dinanzi ad un orso bianco e non osano affrontare i fantasmi polari!… I fantasmi del polo!… Ecco il titolo della mia quinta novella, e se non vi garba, buona notte a tutti e vado nella cala.

– Adagio, papà Catrame, – disse il capitano – Questa sera non andrai a dormire nella tua tana prima di averci narrata la quinta novella, a meno che tu non preferisca di dormire colle manette. Orsù, fantasmi o folletti, orsi o lupi, tira innanzi, ché tutti ti ascoltiamo. Ehi, camerotto, versa un buon bicchiere al nostro narratore e recagli una dozzina quei grossi sigari di Manilla, affinché cessi il broncio e ci mostri un viso un po’ più da cristiano. Diamine! Hai una cera da turco questa sera, mio caro orso marino.

Il vecchio mastro, che era di umore assai nero, si rabbonì un po’; vuotò con visibile soddisfazione l’eccellente Cipro del capitano, e diede fuoco a uno di quei deliziosi sigari, inghiottendo ed eruttando vere nubi di fumo.

– Il polo artico! – riprese egli. – Chi non si sente correre un brivido nell’avvicinarsi a quell’oceano misterioso, coperto di immensi campi di ghiaccio, scintillanti ai sanguigni riflessi dell’aurora boreale e coperti da quei pesanti e diacciati nebbioni, che pare si aprano a stento dinanzi all’affilato sperone delle navi? – È là, in quelle solitudini desolate, dove non cresce una pianta sulle gelide isole, che si stende una notte non interrotta di sei mesi; è di là che si staccano quegli immensi campi di ghiaccio che le correnti portano fino sulle coste della Norvegia e su quelle della Scozia e dell’Irlanda; là dove gelano il vino, il petrolio, l’acquavite, il cognac e perfino il mercurio, e non soltanto i nasi, ma le mani e i piedi ai disgraziati marinai che si avventurano fra quelle alte latitudini o spinti dall’avidità del guadagno o dall’amore per la scienza o dalla potente curiosità di sollevare il velo che si stende attorno a quel punto misterioso che si chiama polo; è là infine dove si vedono talvolta delle ombre giganti errare fra i nebbioni e le nevi, che appariscono animali immensi dalle forme strane e fantasmi enormi che passano a fianco delle navi e dinanzi agli occhi degli atterriti equipaggi; che si odono fra i fischi del vento boreale urla, muggiti orribili, scrosci spaventevoli che nessuno saprà mai da quali creature sono emessi, ma che le leggende dei popoli nordici attribuiscono ai maghi che circondano il punto misterioso, quel punto che costò la vita a tanti marinai di tutte le nazioni del mondo e che ora dormono il sonno eterno sotto i campi di ghiaccio, nel seno di quell’oceano spaventevole.

– Cospettaccio! – esclamò un giovane gabbiere. – Mi fate venire la pelle d’oca, papà Catrame! Che racconto lugubre!…

Il vecchio orso fece intendere un grugnito minaccioso e agitò nervosamente le braccia. Se il gabbiere fosse stato più vicino, avrebbe sentito quanto erano pesanti le sue mani.

– Asino! – brontolò il vecchio. – Se m’interrompi ancora, t’insegnerò io a rispettare il tuo mastro. O che! sono diventato io il tuo buffone forse?… Ventre di balena! Se…

– Ohè, papà Catrame, basta! – disse il capitano. – Questa sera pizzichi troppo. Ripiglia il filo; e voi… silenzio, o vi faccio fare un bagno.

L’imprudente gabbiere si ritirò lestamente dietro all’albero cogli occhi bassi; ma l’irascibile mastro brontolò due buoni minuti prima di riprendere la sua disgraziata narrazione.

– Dovete sapere adunque, che avevo preso imbarco su di un brigantino, il quale aveva per scopo di esplorare non so quali isole dell’Oceano Artico, onde rintracciare gli avanzi di due navi colà perdutesi assieme agli uomini che le montavano e ad un ammiraglio che le guidava verso il polo.

– Forse l’ammiraglio Franklin? – chiese il capitano, che era diventato assai attento.

– Mi pare che si chiamasse appunto così, – rispose papà Catrame.

– Allora voi andavate in cerca dell’Erebo e del Terror o degli avanzi di queste navi.

– Sì, sì, le chiamavano appunto così, – disse il mastro, dopo alcuni istanti di riflessione. – Ma ciò non importa, tanto più che non abbiamo trovato né l’una, né l’altra, e che siamo tornati a casa mezzo morti dal freddo, tutti ammalati di scorbuto, cioè non tutti, poiché due o tre sono stati portati via dai fantasmi del polo.

Il capitano proruppe in un’allegra risata.

– Ridete! – esclamò papà Catrame colla più alta meraviglia. – Forse che voi non avete mai udito parlare di quei fantasmi giganteschi? Tutti i marinai che si sono avventurati fra quelle gelide e desolate regioni li hanno veduti, e anche i marinai che non hanno mai messo piede al di là del circolo artico lo sanno, poiché i popoli nordici ne parlano da secoli e secoli.

– Lo so, – rispose il capitano ridendo sempre, – anzi dirò che anch’io ho veduto dei mostri immensi, dei fantasmi spaventevoli e molte cose ancora.

– E non credete?

– Continua ora la tua narrazione; udiamo cosa dicono i marinai di quelle apparizioni paurose.

Mastro Catrame crollò il capo con una mossa che fece ridere tutti, facendo nel medesimo tempo un gesto di commiserazione per l’incredulità del suo capitano, poi riprese lentamente:

– Lasciato il porto di Liverpool, ci dirigemmo verso il nord, e il vento fu così favorevole che ventidue giorni dopo ci trovavamo in un mare assai vasto, che i geografi hanno voluto chiamare baia di Baffin. Guardate un po’ se un mare si deve chiamare baia!… Eppure è così, non sarò certamente io che rimetterò le cose a posto.

– Ma lasciamo questa questione e tiriamo innanzi a gonfie vele. Non so dirvi con precisione dove la nostra nave si trovasse, quando una sera calò sul mare un nebbione così fitto che gli uomini di poppa non riuscivano a distinguere un oggetto qualunque posto un palmo al là del loro naso, e quelli di prua a discernere la scotta(10) della trinchettina, che pure, come voi tutti sapete, viene a legarsi sulla murata prodiera.

– Fino allora l’equipaggio aveva affrontato i freddi e i ghiacci con molto coraggio, nulla di straordinario essendo accaduto durante quel primo mese di navigazione; ma quella sera una inquietudine generale regnò a bordo, essendosi sparsa la voce che noi andavamo in cerca di due equipaggi morti in mezzo a quei deserti di neve. I vecchi marinai, sia perché erano spaventati o perché volevano provare il coraggio dei giovani, diedero la stura alle lugubri leggende polari, narrazioni paurose che facevano venire altro che la pelle d’oca, come disse poco fa il gabbiere. Nani e giganti venivano a galla a centinaia, insieme coi mostri orrendi che abitano gli abissi boreali, genî del mare cattivi e buoni, dalle lunghe barbe e coperti di pelli dal lungo vello; poi i marinai morti in quelle regioni, che vagavano fra i nebbioni, e chi più ne sa, più ne metta.

– Comunque sia, al calar di quel nebbione, un certo terrore si manifestò fra l’equipaggio poiché le antiche leggende nordiche dicono che è allora appunto che appariscono i maghi, i naufraghi e i mostri. Io però, che ero un po’ incredulo, mi tenevo tranquillo e altro non cercavo che di riscaldarmi con dei buoni bicchieri di brandy e di gin, liquori che abbondavano a bordo del veliero americano. La nebbia intanto continuava a calare sempre più densa, sempre più pesante, come se volesse schiacciarci, e in mezzo a quell’oscura atmosfera si udiva il vento fischiare e ululare sopra le nostre teste, fra gli alberi, i pennoni e i cordami; sul gelido mare echeggiavano di tratto in tratto dei sordi fragori, e delle larghe ondate venivano a rompersi con lunghi muggiti contro i fianchi della nostra nave.

– Io credo che fossero ghiacci che si capovolgevano; ma i marinai, il cui spavento cresceva di minuto in minuto, sussurravano che erano i morti delle due navi naufragate o i maghi del polo o i re marini.

– Vi confesso che nel vedere quel nebbione diventare sempre più fosco, nell’udire continuamente quei fragori e quegli ululati, cominciavo anch’io a provare qualche cosa di più dell’inquietudine e che certi momenti sentivo il cuore diventarmi piccolo piccolo.

Poco dopo la mezzanotte, ecco apparire improvvisamente, attraverso quel freddo e pesantissimo nebbione, come una luce sanguigna che balenava or qua e or là, diventando talora intensa e talvolta diminuendo bruscamente, come se fosse lì per spegnersi. Cosa era? Io non ve lo saprei dire, quantunque il nostro capitano ci assicurasse che doveva essere un’aurora boreale che appariva al di là del nebbione. Io però stento anche ora a crederlo, poiché, qualunque cosa dicano i signori scienziati, non ho mai veduto un’aurora di quella specie, la quale si muoveva come se avesse indosso la tarantola.

– Ah! papà Catrame! – esclamò il capitano.

– Aspettate, signore, – rispose il mastro serio serio. – Quantunque quella luce color del sangue facesse su tutti noi un certo effetto, non ci spaventammo troppo, essendo sempre assai lontana, o almeno pareva che lo fosse. Ma il brutto venne dopo.

Mi ero recato a poppa per accendere la mia pipa, quando udii un grande chiasso alzarsi a prua, cioè chiasso precisamente no, perché erano grida di terrore.

– «Capitano! capitano!» – gridavano gli uni.

– «Si salvi chi può!» – vociavano gli altri.

– «I leoni!… gli elefanti!… i mostri del mare!…»

– Corsi verso prua e vidi uno spettacolo che mai non scorderò, dovessi vivere per tutta l’eternità.

– Su di una costa dirupata, che la luce misteriosa tingeva pure di rosso, vidi avanzarsi verso il mare un mostro enorme, alto almeno dieci metri, con una coda immensa, la cui estremità spazzava la neve, e una bocca così vasta da mangiare due uomini in un sol boccone. Dietro a quello ne vidi parecchi altri, tutti enormemente grandi, galoppare con balzi giganteschi verso di noi e schierarsi sulla spiaggia. Li contai: erano tredici, notate bene, tredici!

– Eravamo tutti istupiditi dallo spavento, pallidi come cadaveri, coi capelli irti e gli occhi sbarrati e senza voce. Che specie di mostri erano quelli? Erano forse i giganteschi animali che si ritrovano in quasi tutte le leggende dei popoli nordici, oppure d’altra specie e più voraci? Io so che al polo o nelle terre che lo circondano vivono orsi bianchi, lupi, volpi, buoi muschiati; ma ignoravo che vi fossero altri animali, e di quella grandezza poi!…

Il mastro guardò il capitano per vedere quale viso facesse, e noi pure lo guardammo: egli rideva tranquillamente!

– Non mi credete? – chiese il vecchio mastro, lasciando andare un poderoso pugno sull’orlo del barile. – Non ero ubriaco io!…

– Ti credo, papà Catrame, e sono anzi certo che tu hai veduto coi tuoi propri occhi quei mostri: ma continua e lascia che io rida a mio comodo.

– Ventre di foca!…

– Non irritarti, orsaccio; tira innanzi.

– Quegli animalacci si fermarono alcuni minuti sulla sponda, guardandoci e agitando le loro smisurate code, come se si sentissero spinti dal desiderio di gettarsi contro la nave e divorarci tutti, cosa poco difficile davvero per quelle bocche immani; poi, non so se avessero preso paura di qualche nuovo animale più potente o d’altro, fecero un dietro fronte e scomparvero con fantastica rapidità in mezzo alla sanguigna atmosfera.

– Non saprei dire quanto tempo rimanemmo senza essere capaci di pronunciare una sola parola, tanto era lo spavento che ci aveva invasi. Supplicammo il capitano di allontanarsi da quella costa, temendo un improvviso ritorno di quei mostri, assicurandolo che dovevano averceli mandati i maghi che vegliano attorno al polo; ma egli si strinse nelle spalle e minacciò di metterci ai ferri se parlavamo ancora di simili corbellerie!… Corbellerie, le chiamava lui!… Ventre di foca!… Se quegli animali avessero posto piede sul ponte, chi sa che pasto avrebbero fatto di noi tutti. Già, si sa, gl’increduli ci sono sempre stati, e quelli lì non prestano fede alle leggende del mare.

– Ma i maghi del polo non dovevano tardare a dare una smentita a quel signor capitano, dimostrando a fatti la loro esistenza e l’immane loro possa.

– Infatti una mezz’ora più tardi, in mezzo a quella luce che balzava ad ogni istante dal Nord-Ovest al Nord-Est, con delle vibrazioni strane, come se dietro di essa soffiasse un vento impetuoso, ecco apparire improvvisamente due barche immense, lunghe almeno cinquanta metri, montate da due giganti alti più di trenta braccia, i quali tenevano in pugno due smisurati remi a doppia pala. Avevano le membra coperte da lunghi peli, un cappuccio villoso avvolgeva la loro testa e sul dinanzi di quelle barche colossali si ergeva una specie di rampone da balenieri; ma che rampone!… Scommetterei che misurava almeno quaranta metri e che la sola punta pesava un mezzo quintale.

– Si avvicinarono alla nostra nave, che era immobile in mezzo al fitto nebbione, poi si arrestarono a cinque o seicento metri. Si scambiarono dei cenni, additandosi il nostro legno, indi tracciarono nell’aria dei segni misteriosi, e ci gridarono per tre volte, con una voce che pareva il ringhio d’un animale irritato: Tombok! tombok! tombok!

– Io non so che cosa significassero quelle parole, e nessuno mai lo seppe; ma certo era un ordine perentorio di tornare indietro, se non volevamo seguire sotto i ghiacci eterni dell’oceano polare i disgraziati equipaggi delle due navi comandate dall’ammiraglio inglese.

– Vedendo che la nave non si muoveva e che, allibiti dallo spavento come eravamo, non pronunciavamo parola, alzarono simultaneamente i loro immensi ramponi e diressero le acute punte contro di noi. Guai se li avessero lanciati! Io sono persuaso che avrebbero passato da parte a parte i fianchi corazzati del veliero colla massima facilità.

– Fu quello un terribile momento per tutti noi; eravamo come inchiodati sul ponte e, per quanti sforzi facessimo per fuggire, una mano misteriosa ci tratteneva là, ai nostri posti; volevamo gridare, ma le nostre lingue pareva che fossero ingommate al palato e non emettevano che dei suoni inarticolati.

– Il capitano, che era il solo che non provasse quella strana emozione e quella specie di paralisi che aveva colpito le nostre membra e la nostra lingua, vedendo le minacciose mosse dei due giganti, trasse una pistola e fece fuoco.

– Allora accadde un fenomeno curioso e insieme spaventevole. Il colpo di pistola parve ai nostri orecchi che fosse forte come lo scoppio d’un cannone; i due giganti girarono le barche e scomparvero non so dove, poiché più non si videro; la luce sanguigna si spense di colpo e la nebbia ci avvolse più strettamente come se volesse schiacciare la nave o gravitare tanto su di essa da affondarla. Poi in mezzo a quella gelida tenebrìa udimmo scricchiolii acuti, tonfi, cozzi violenti e fragori sinistri che parevano prodotti da montagne di ghiaccio spaccantisi e capovolgentisi, e il vascello fu sollevato e scosso furiosamente da muggenti ondate, le cui creste spumeggianti rimbalzavano sopra le murate con mille urli.

– Ricorderò sempre quella notte passata fra i ghiacci del polo, in quella regione dei fantasmi e dei mostri; notte fatale, poiché parecchi dei nostri marinai perdettero la vita pochi giorni appresso. Infatti dopo quell’avvertimento il nostro veliero fu preso dai ghiacci, stritolato dalle pressioni che senza dubbio venivano dalle magiche arti di quei due giganti e dei loro tredici animali. Andò a picco durante una notte tempestosa, fra la nebbia e la neve che calavano furiosamente su quelle terre desolate e su quei gelidi mari, e parecchi miei camerati lo seguirono in fondo agli abissi.

– Io sono qui a raccontare quel viaggio disastroso, poiché ebbi la fortuna di venire raccolto l’anno seguente da un baleniere danese sulle sponde del canale di Lancaster; ma quei disgraziati dormono a fianco degli equipaggi dell’infelice ammiraglio, coperti dagli eterni ghiacci dell’oceano polare, dimenticati da tutti. Il mare muggirà sulle loro teste, l’aurora boreale illuminerà la loro umida tomba; ma nessuna creatura vivente mai forse si spingerà fino a quelle alte latitudini, per recare un fiore o spargere una lagrima sulle vittime dei fantasmi polari.

Papà Catrame alzò il capo e, guardando fisso fisso il capitano, disse:

– Ridete ora, voi che a nulla credete!

– Sui disgraziati che il mare travolse nei suoi abissi no, ma sui tuoi mostri e sui tuoi giganti lascia, papà Catrame, che rida.

– Non credete voi dunque alla leggende nordiche?

– No.

– E avete veduto anche voi dei mostri e dei giganti nelle regioni polari?

– Sì, papà Catrame. Dimmi: sai cos’è il miraggio?

– Sì, mi avete detto che fa vedere navi capovolte, città rovesciate, isole che non esistono e…

– Sai come si chiama il miraggio polare?

– Miraggio al polo!… Eh! via, voi scherzate!

– Si chiama rifrazione, e questo fenomeno è più frequente nei climi freddi che in quelli caldi, e ti fa apparire una volpe cinquanta volte più grande, un battello lungo come una corazzata, un uomo alto come lo spettro di Brokken nella Foresta Nera, eccetera. La luce sanguigna era l’aurora boreale, i tredici mostri erano lupi o volpi, i due giganti due poveri esquimesi montati sui loro kayak, ed essi, a loro volta, ingannati dalla rifrazione avevano preso il vostro vascello per una balena immensa o per qualche cosa di simile. Ah! papà Catrame! A quante cose credevano i nostri vecchi marinai!…

Il mastro non rispose. Fece un gesto di commiserazione, scosse più volte il capo, borbottò fra sé non so che cosa e se ne andò senza augurarci la buona notte. Se la paura di passare dritto ai ferri non l’avesse trattenuto, sono certo che avrebbe dato del pazzo all’incredulo capitano.

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