Le murene

Anche durante il giorno papà Catrame rimase sempre sul ponte, passeggiando con gravità da prua a poppa, lungo la murata di tribordo, che era il suo riparto favorito, avendo sempre manifestato, non so per quale motivo, una avversione decisa per quella di babordo. Fumò senza interruzione, lasciò andare un paio di sonori scapaccioni ai mozzi, perché si erano permessi di interrogarlo sul titolo della decima novella; ma non scambiò una parola con nessuno. Pareva preoccupatissimo, assorto in profonda meditazione, tanto da non darsi pensiero né della nave, né dell’equipaggio, né della manovra.

Ci voleva poco a capire che era di umore non troppo buono e che quei continui smacchi che gli venivano dal nostro capitano gli bruciavano. Ma forse più di tutto gli pesava la smentita recisa all’esistenza del famoso serpente di mare, così miseramente fatto naufragare dal suo eterno contraddittore. Mi provai ad interrogarlo, ed egli mi salutò senza rispondere. Per rabbonirlo un po’ gli offersi un sigaro; lo prese ringraziandomi con un cenno del capo, se lo cacciò mezzo in bocca, ma proseguì la sua passeggiata sempre accigliato, sempre pensieroso.

All’ora dei pasti non venne a sedere fra noi; si prese la sua razione la fece sparire in otto bocconi, poi continuò il suo avanti e indietro col la precisione d’un orologio.

Non si fermò che alla sera, allorquando la soneria di bordo fece udire le otto ore. Allora si assise sul barile e attese l’uditorio, tenendo gl occhi fissi sul ponte.

– Papà Catrame ha il cervello in burrasca, – disse il nostro capitano, sedendosi dinanzi all’albero. – Ma, bah! la faremo passare raddoppiando la razione di Cipro. Ehi, camerotto! Due bottiglie pel mio vecchio mastro!… Stasera voglio che beva un paio di bicchieri di più!

Udendo quel comando papà Catrame alzò il capo, facendo una smorfia di allegrezza (vi dico tra parentesi che era pazzo pel Cipro del nostro comandante e non aveva torto, essendo proprio di quello buono); poi aprì gli occhi, che fino allora aveva tenuti socchiusi, ed emise un brontolìo di soddisfazione.

– Udiamo adunque, vecchio mio, la decima novella, – disse il capitano. – Vediamo se stasera c’è qualche cosa da spiegare senza farti andare in bestia.

Mastro Catrame si lisciò la bianca barba, tossì tre volte, poi guardando fisso il capitano gli disse:

– Questa sera non spiegherete nulla.

– E perché, se è lecito saperlo?

– Perché la storia è autentica e non può avere altra spiegazione che la mia.

– Di che si tratta adunque?

– Di un altro vascello che fu improvvisamente fermato, mentre navigava a gonfie vele sul libero mare.

– Da uno scoglio?

– No: da un pesce che da molti secoli gode fama di arrestare i più grandi legni.

– Oh, diavolo!… – esclamò il capitano ironicamente. – Cosa può essere mai? Udiamo questo interessante e meraviglioso fatto. Ti assicuro che ecciti la mia curiosità, papà Catrame.

Il vecchio mastro, a cui non era sfuggito l’accento ironico del nostro amabile capitano, scrollò le spalle con una cert’aria da impiparsene e diede la stura alla sua decima novella.

– Sono trascorsi da quell’epoca cinquant’anni, – diss’egli, – eppure il fatto toccatomi l’ho presente come se fosse accaduto ieri, e se volete sapere perché lo ricordo tanto bene, vi dirò che da quel giorno porto una traccia profonda sul mio braccio destro, una cicatrice, che ancora, specialmente quando il tempo si cambia, mi fa provare degli acuti dolori.

– Voi tutti saprete forse cos’è una giunca, e se lo ignorate vi dirò che è un bastimento cinese dalle forme quadre e pesanti, d’una costruzione tutt’altro che sicura, che porta vele formate da giunchi intrecciati e due alberi irti di banderuole d’ogni dimensione o di teste di drago orribili.

– Per una circostanza che è inutile vi riferisca, ero rimasto a Canton, che è una delle più ricche città dell’Impero Celeste, senza imbarco.

– La terraferma mi era diventata odiosa allora come oggi, e non sentendomi sotto i piedi il ponte rollante d’un vascello, soffrivo come se mi trovassi sui carboni ardenti; quindi era necessario prendere un imbarco, se non volevo ammalarmi e morire di noia. Aggiungo poi che la questione pecuniaria s’imponeva seriamente, poiché io ho avuto sempre l’abitudine di non mettere da parte uno spicciolo. E infatti, che dovevo farne io dei risparmi? Poiché si ha da morire nella gran tazza, è meglio andarsene colle tasche vuote, visto e considerato che laggiù, in fondo agli abissi, mancano le taverne, e che i pesci non vendono bottiglie. Vi pare?

– Benissimo, perbacco! – esclamarono i marinai.

– Or dunque, eccomi a bordo di quella pesante carcassa, in compagnia d’una dozzina di marinai color dello zafferano e dalle zucche pelate, e sotto gli ordini d’un imponente capitano nanchinese, grasso come un rinoceronte, con una coda lunga un metro e sessantasei centimetri, e un paio di baffi senz’anima che gli scendevano fino alla cintola. Senza che ve lo dicessi, voi sapete che i baffi di tutti i cinesi non hanno fibra dura e che, invece di tenersi ritti, si curvano umilmente verso terra. È questione di razza.

– Ve lo figurate voi il vecchio Catrame, cioè no, poiché allora io ero giovane e la mia barba era ancora nera e la mia zucca capelluta, ve lo figurate, dico, in compagnia di quel codato equipaggio, che quando parlava strideva come una lima che morde il ferro e gorgogliava come la gola d’un capodoglio? Poi mangiava tutto il giorno riso, servendosi di certe bacchettine d’avorio, e tutte le sere s’ubriacava sconciamente d’oppio. Eh, se non ci fossi stato io a raddrizzare di quando in quando la ribolla del timone o a dirigere la rotta, non so dove quella povera giunca sarebbe andata a finire.

– Ma io divago un po’ troppo, come diceva ieri o l’altra sera il capitano, – riprese papà Catrame, gettando uno sguardo malizioso sul nostro comandante, – e perciò torno all’argomento, tanto più che comincio a sbadigliare a mo’ di un orso che non dorme da tre settimane

– Adunque avevamo lasciato Canton diretti alle coste orientali dell’Australia, onde cercare quei molluschi che somigliano a un cilindro coriacei, buoni da nulla, ma che i cinesi apprezzano più dei topi salati, del giovane cane in stufato e della salsa di giang-seng. Si chiamano… Corpo di Giove!… hanno un nome così barbaro da far disperare un galantuomo… Ah!… sì…

– Oloturie o trepang, – disse il capitano.

-Benissimo…, proprio così;… olea…, olo… Orsù, la mia lingua s’ingrossa coi nomi barbari e non vuole pronunciarli; ma non importa l’ha detto il capitano per me.

– Bene o male, eravamo giunti sulle coste australiane, e dopo due mesi avevamo fatto un carico completo di quei molluschi. Sciogliemmo le vele verso il Nord, impazienti i miei camerati celestiali di rivedere le cupole a scaglie di ramarro della loro Canton ed io di piantare quella poco allegra compagnia e la carcassa che l’imbarcava.

– Eravamo giunti nei pressi dello stretto di Torres e stavamo per imboccare quel pericoloso passo, quando vidi il capitano curvarsi parecchie volte sul coronamento di poppa e fare dei segni bizzarri.

– Sorpreso e curioso, lo interrogai; ma era cosa tutt’altro che facile l’intendersi; sicché non riuscii a comprendere nulla. Per istinto però sentivo che qualche cosa di serio era avvenuto o stava per avvenire.

– Infatti verso sera la nostra giunca, che pur era una discreta veliera, a poco a poco cominciò a rallentare la corsa, come il vascello di cui vi parlavo nel mio precedente racconto.

– Andai a trovare il capitano, che era seduto a poppa, per sapere il motivo di quel rallentamento, ed egli si accontentò di fare un gesto che poteva tradursi con un: Aspettiamo, ché nulla posso fare. Mi rivolsi all’equipaggio, e tutti mi fecero un gesto eguale. Lo sapevano il motivo o no? Non ne so più di voi.

– Intanto la giunca rallentava sempre; sentivo sotto la carena un certo dondolio che nulla di buono pronosticava; eppure il vento soffiava sempre e il mare era tranquillo entro lo stretto.

– Salii sulla prua per meglio conoscere e spiegare quello strano fenomeno, quando il legno si arrestò così bruscamente da farmi fare una brutta volata in mare.

– Allorché tornai alla superficie mi sentii afferrare per un braccio e penetrare nelle carni certi denti aguzzi come lame e solidi come fossero d’acciaio. Allungai la mano libera e afferrai una specie di serpente lungo lungo; si dibatteva il mostro, ma le mie dita erano robuste e non lasciai la preda finché non la sentii come morta.

– I celestiali, che si erano accorti del mio salto involontario, vennero in mio aiuto con un canotto e mi trasportarono a bordo insieme col serpente. Voi forse direte che io sognavo; eppure, appena misi i piedi sul ponte, la giunca riprese le mosse e continuò a navigare colla celerità di prima. Indovinereste quale pesce avevo strangolato?

– No, – risposero tutti.

– Una murena, che misurava due metri di lunghezza!…

Guardammo papà Catrame, che si era arrestato, chiedendogli cogli occhi che cosa voleva dire; egli invece guardava noi, stupito della nostra sorpresa.

– E che! – esclamò egli con superbo disprezzo, – forse che non sapete cos’è una murena?

Un coro di proteste si alzò fra l’equipaggio:

– È un’anguilla!…

– Ne abbiamo viste delle centinaia.

– Ne abbiamo mangiate delle dozzine.

– E dunque! – esclamò il vecchio. – Non sapete che le murene arrestano le navi? Ma che razza di marinai siete voi (non parlo degli ufficiali), da ignorare una cosa simile? Ne parlavano persino i romani, ai tempi di Remo e di Romolo, due fratelli stati allattati da non so quale bestia: e voi, dopo non so quante migliaia d’anni che questo fatto è constatato, voi, che siete o vi dite uomini di mare, non conoscete ancora la potenza delle murene? Domandate un po’ al capitano se non fu una murena ad arrestare una nave di non so quale condottiero romano, mentre inseguiva non so quale principe, o console, o imperatore. Oh! che ignoranti!…

I marinai, confusi, rossi fino agli orecchi, guardarono il capitano, che penava a frenare le risa.

– Papà Catrame ha ragione: la storia ha registrato il fatto citato, – rispose questi.

Il mastro lasciò andare due poderosi pugni sul barile e parve che fosse per impazzire dalla contentezza, a quella solenne affermazione del nostro comandante.

– Avete capito, ragazzacci increduli? – esclamò con aria trionfante. – Perfino i romani del signor Remo e del signor Romolo conoscevano queste cose.

– Sì, – disse il capitano, – tutti gli antichi popoli si sono occupati e non poco delle murene, ed affermarono che queste specie di anguille sono capaci di arrestare una nave, e la storia cita parecchi fatti.

– E anche le adoravano, le murene, – disse il mastro.

– Sì, ma per ghiottoneria, – rispose il capitano. – Gli opulenti romani le allevavano con cura in certe piscine appositamente scavate, le nutrivano senza risparmio, somministrando loro perfino carne umana, davano a ciascuna un nome e le ammaestravano, onde accorressero a baciare le loro mani. La bizzarria di non so più quale imperatore romano giunse al punto di adornare le sue murene con pendenti d’oro.

– Udite! – esclamò il mastro.

Ad un tratto il capitano incrociò le braccia e, cangiando tono, disse:

– Papà Catrame, ora basta! Che i romani ed altri popoli abbiano creduto che le murene fossero così potenti da arrestare una nave, padronissimi. Ma credi tu che noi prestiamo fede a simili corbellerie? Ah no, perbacco! Vecchio Catrame, t’inganni!

Il mastro, che era all’apogeo del suo trionfo, a quel cambiamento di tono e a quelle parole illividì, e per poco non cadde dal barile.

– Ma… come… i romani… – borbottò con filo di voce

– Lascia andare i romani e le loro corbellerie. Io ti dico che sei pazzo se credi che la tua giunca sia stata fermata dalla murena che ti morse. Nell’Oceano Pacifico questi pesci sono grandi assai, ma incapaci di fermare nemmeno una barca.

– Eppure la giunca…

– Si è fermata, vuoi dire. Io non so per quale motivo e fenomeno, ma suppongo che navigasse sui bassifondi dello stretto, e tu sai che in quello di Torres sono numerosi; la marea, che forse in quel momento montava, vi avrà rimessi a galla dopo pochi minuti. Ma levati dal capo la credenza che sia stata una murena. I vecchi marinai, imbevuti di pregiudizi ed attaccati alle antiche leggende, possono ancora prestare fede alle murene: noi no, papà Catrame… Prendi le tue due bottiglie e va’ a riposare la lingua e le stanche membra.

Il mastro non fiatò più. Si terse due goccioloni di sudore, non so se caldi o freddi, prese le sue due bottiglie e discese barcollando nella sua cala.

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